giovedì 23 novembre 2017

26 Novembre 2017 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Gesù Cristo Re dell’Universo

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,31-46).

La parabola di oggi, conosciuta come “Il giudizio finale” viene vista sempre negativamente, in modo tragico: un Dio giudice esigente e fiscale che controlla tutto, che annota tutte le nostre azioni in un grande libro dei conti e che, alla fine della nostra vita, tira le somme: se le azioni cattive superano quelle buone, castigo eterno. Se, invece, risulta il contrario, premio eterno.
Un tempo la Chiesa metteva in risalto questa idea di Dio, giudice intransigente: “iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit”: quando il Giudice prenderà posto nel giorno dell’ira (“dies irae”), tutto ciò che abbiamo tenuto nascosto verrà reso pubblico…”. Non abbiamo scampo: era un’idea molto diffusa, che portava a dipingere nelle Chiese un grande occhio di Dio all’interno di un triangolo, che era la Trinità: “l’occhio di Dio ti controlla, vede e sa tutto, stai attento!”.
Ma un Dio così non è esattamente il Dio evangelico, il Dio che Gesù ci ha insegnato ad amare e a pregare. Non dobbiamo fermarci a certe interpretazioni, talvolta sono fuorvianti.
La parabola inizia dicendo: “Quando il Figlio dell’Uomo verrà”: Gesù, quando parla di sé, usa sempre questo termine: “Il Figlio dell’Uomo”. Un titolo che pochissimi autori sacri attribuiscono a Gesù: ed è strano, singolare, visto che Lui si identifica sempre in questo modo!
Cosa vuol dire “Figlio dell’Uomo”? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato in sé il progetto di Dio, è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive nella propria vita: esattamente come ha fatto Gesù. Chiunque può essere Figlio dell’Uomo: anzi, tutti dobbiamo esserlo. Tutti dobbiamo accogliere il piano, il progetto di Dio su di noi, che è esattamente il motivo per cui siamo nati ed esistiamo.
Che Dio abbia un progetto su ciascuno di noi sta a significare che la nostra esistenza di creature insignificanti, è invece importantissima, ha un senso profondo: vuol dire che non siamo qui per caso, ma siamo qui per uno scopo, un motivo ben preciso. Ed è questo motivo che noi dobbiamo recuperare, il senso della nostra vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. È questo motivo che ci nobilita e ci rende irresistibili. Le persone che sono tristi, depresse, senza vitalità o voglia di vivere, lo sono perché non hanno motivi validi, forti, ragionevoli per vivere. Non ci rendiamo conto che la nostra vita è una piccola tessera di un mosaico meraviglioso, grandioso, imponente: l’essere a somiglianza di Dio.
Dunque: il Figlio dell’uomo “verrà nella sua gloria” con tutti gli angeli, e siederà sul suo trono, davanti a tutti i popoli radunati.
Quando noi pensiamo agli angeli, pensiamo subito ad una creatura con le ali. Ma l’angelo (in greco “ànghelos”, annunciatore) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni, incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda per starci vicino, per consigliarci, per consentirci di andare avanti e seguire correttamente la Sua chiamata.
Abbiamo mai incontrato un angelo? Sicuramente no, se pensiamo all’essere angelico con le ali; sì, tantissime volte, se sappiamo riconoscerlo, se sappiamo chi e dove guardare: perché “angelo” sono tutti quelli che vogliono aiutarci a diventare migliori. Noi viviamo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di metterci in gioco, di guardarci dentro, non sfruttiamo le nostre potenzialità, la nostra riserva di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che abbiamo dentro. Viviamo sempre sulla difensiva, non sfruttiamo il patrimonio che Dio ci ha dato. Allora arriva un angelo che ci mostra che possiamo essere migliori: possiamo osare, scegliere, smettere di vivere così e volare in alto.
Chi ci ama non vede ciò che siamo ma ci mostra ciò che possiamo essere. L’angelo è questo. Quindi gli angeli con i quali il Figlio dell’uomo verrà, sono semplicemente tutti quelli che vivono realizzando con la vita il progetto che Dio ha su di loro.
“Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo”.
Noi, dicevo, ci siamo fatti l’idea strampalata di un Dio “guardone” che sta continuamente a spiarci, per annotare tutto ciò che ci riguarda nel suo Librone. Ma Gesù non ha bisogno di libri per separare gli uni dagli altri, i buoni dai cattivi. Gesù lo vede immediatamente! E da cosa lo vede? Dai fatti concreti: se cioè siamo riusciti a vivere la Vita, oppure no. Se cioè ci siamo immessi, ci siamo realizzati in quel progetto originale che Lui aveva su ciascuno: diventare cioè della sua stessa condizione divina, riappropriarci della sua stessa immagine, assomigliare fedelmente a lui.
In particolare cos’hanno fatto questi “benedetti” per raggiungere questo traguardo e ottenere “il regno”? Nulla di eccezionale: sono stati costanti e fedeli nel compiere alcune semplici azioni: hanno dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; hanno accolto i forestieri, gli “altri”; hanno vestito gli “ignudi”: hanno preso, cioè, le difese dei peccatori, degli indifesi, dei vulnerabili, di quanti erano esposti alla pubblica discriminazione, alla vergogna, alla derisione; hanno curato i malati, non solo quelli corporali, ma soprattutto quelli spirituali; hanno infine visitato i carcerati, portando loro conforto. In una parola “benedette” sono tutte quelle persone che in vita si sono prodigate verso i più deboli, sono state attente ai bisogni degli altri, dei propri fratelli, riconoscendo in essi la persona di Gesù.
È Gesù stesso che lo conferma: “Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Attenzione: qui Gesù non dice: “Quando ami uno, lo fai per me” ma “quando ami uno, ami me”. Punto. Molte persone invece sono ancora convinte che devono amare gli altri, il prossimo, perché lo ha comandato Gesù”. Ma se amiamo gli altri per “dovere”, senza alcuna convinzione, senza sentimento, senza trasporto, ma solo per costrizione, perché Dio ce l’ordina, questo non è “amare”. L’amore non si comanda: si sente. Non si fanno le cose “per carità cristiana”; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno, perché così ci è stato comandato, è svilente: “Non ti amo, ma lo faccio perché me l’hanno ordinato!”. Per Gesù è impensabile una cosa del genere. Le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e soprattutto come Dio.
I Santi hanno fatto così: un giornalista dovendo intervistare Madre Teresa la trovò tutta intenta a curare un lebbroso. Vedendo come ripuliva le sue ferite purulente, esclamò: “Madre, io non lo farei neppure per un milione di dollari”. E lei: “Neppure io!”. E lui continuò: “Ma io non lo farei neppure se me lo comandasse Dio in persona!”. E lei: “Neppure io! E il giornalista capì: certe cose si fanno solo per “amore”... e basta.
“Via, lontano da me maledetti”: è la condanna del Figlio dell’uomo per gli “altri”, per chi non ha dispensato amore. Prima aveva detto: “Venite, benedetti dal Padre mio”. Qui, invece, non ripete: “Maledetti dal padre mio”, ma solo: “Maledetti”. Infatti, non è Dio che li maledice, ma sono loro stessi che si maledicono! Se uno non coltiva, non fa crescere l’amore che c’è in lui, se non diventa maturo e adulto, lui stesso si condanna a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è una sentenza del re che li condanna, ma sono essi stessi che si sono autocondannati.
Un’altra cosa, altrettante importante, dobbiamo imparare da questo vangelo: che cioè dobbiamo avere un cuore attento per “vedere” per osservare, per riconoscere. Dobbiamo cioè essere sempre all’erta, vigili:
“Quando mai ti abbiamo visto nudo, affamato, malato...?”.
È così: non ce ne rendiamo conto, ma guardiamo gli altri senza vederli, siamo concentrati su di noi, sulle nostre comodità, siamo troppo distratti: soprattutto quando lo siamo di proposito, quando vogliamo esserlo “scientificamente”.
Quante volte diciamo convinti: “Io no, non faccio così; io non faccio male a nessuno!”. Sarà anche così, ma non basta! Dire una cosa del genere denota una grande superficialità, perché fa... capire che non ci rendiamo conto di quante persone ci siano accanto a noi bisognose di essere ascoltate, di essere capite e rincuorate; persone che hanno bisogno soltanto di un po' d'amore, di comprensione, di condivisione. Allora può darsi anche che “non facciamo del male”, ma sicuramente “non facciamo del bene”. Perché quando uno è troppo preso da sé stesso, dall’egoismo, dall’assillo continuo per il proprio benessere materiale, per l'affermazione della propria persona, è ovvio che non ha più né tempo né voglia di accorgersi delle necessità altrui: è triste ma è così! Solo se abbiamo un cuore libero, aperto, generoso, possiamo accorgerci dei bisognosi, possiamo interessarci dei sofferenti, degli abbandonati. Altrimenti rischiamo di fare come i “condannati” del vangelo: “Dici che non ti abbiamo visto? Ma quando mai! Impossibile! Non eri tu!”. Eppure questo è successo proprio a noi: eccome è successo! E se non cambiamo, continuerà purtroppo a succedere ancora.
Amen.


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