giovedì 1 giugno 2023

04 Giugno 2023 – SANTISSIMA TRINITÀ


Gv 3,16-18
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio»

Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità, un Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo. Un mistero, quello trinitario, che è al centro della vita cristiana, e che noi ricordiamo continuamente anche nel farci il semplice segno della croce, anche se è un gesto che ripetiamo ormai meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo, a cosa diciamo, e soprattutto a come lo facciamo.
Dobbiamo riconoscere che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi purtroppo non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e sociale degli stessi cristiani.
Eppure la Trinità divina ─ almeno a livello di semplice “intuizione” ─ non ha bisogno di uno “sforzo speculativo” di equilibrismi intellettuali per essere afferrata dalla nostra mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; consiste infatti nel fare una conoscenza “vissuta” di Dio, quella stessa conoscenza acquisita senza problemi dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali; e cioè: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio; e nella realtà si comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un mondo infinito di amore, di comunione; constatarono in Lui una vita “divina” talmente grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare innato, connaturale: e collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di “famiglia”, composta da un Padre-madre, da un Figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unicum” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, nato come noi, che si chiama Figlio, compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo” (dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theòs” = “il dio dentro”), come creatività, come forza, amore, passione, energia: il Dio, in una parola, che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana che, come ho detto, è la prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte (Padre-madre), si fondono in unità nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale esistenza di questo “amore”, come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare quindi evidente.

Noi tutti sicuramente abbiamo avuto modo, almeno una volta, di vivere, magari inconsapevolmente, una certa esperienza “trinitaria”: per esempio, quando eravamo ancora nel grembo materno, inconsciamente sentivamo di essere una realtà unica, indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, completamente fusi con lei: oltre noi due non c’era nessun altro, noi due eravamo il “tutto”. Poi, una volta entrati nel mondo, ci siamo accorti che non era proprio così: oltre noi e la mamma, c'era anche un Papà, e tantissime altre persone; ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; ognuno era “unico” in sé stesso, ma allo stesso tempo era in “comunione” con gli altri; abbiamo scoperto che qualcosa ci univa, ci legava, si intesseva con le nostre vite, e che, maturando, abbiamo individuato come legame spirituale, amicizia, rispetto, amore. Venire al mondo, uscire dal nostro involucro materno, nascere, è stato sicuramente il dono più bello che l’amore potesse riservarci; è stato scoprire il senso della vita, ma è stato anche il momento che ci ha resi però più indifesi, più deboli, perché in quello stesso istante siamo diventati “altri”: ognuno, da solo che era, ha dovuto confrontarsi con tanti altri, ha dovuto cioè “altrificarsi”.
Un fenomeno che, con la crescita, non tutti accettano come dono meraviglioso: per molte persone, infatti sentirsi “altre”, sentirsi cioè diverse - da “di-vertere”, separarsi, seguire vie differenti, avere scopi disuguali - diventa un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, a combattere, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode. Molte altre invece, vivono al contrario la loro “alterità” come “competizione”, un doversi continuamente confrontare con gli “altri”: la loro vita si trasforma in una “lotta” permanente, impegnata a stabilire la loro superiorità, puntualizzare il loro assolutismo, chiarire che non temono confronti; il che, purtroppo, riduce la loro vita solo ad un affrontarsi, a farsi guerra, a considerare stupidamente l'altro come un nemico, un pericolo incombente per il loro ego smisurato.
Il mondo familiare, il mondo del lavoro, e a volte anche le nostre comunità cristiane, sono purtroppo piene di queste particolari personalità, che vivono in continua tensione nei confronti degli altri, in lotte estremamente feroci, ancorché silenziose, intime, segrete, in cui l’altro è un “nemico” che va costantemente zittito, eliminato, ucciso, certo non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i “giudizi” taglienti. Giudicare, dal greco “krino”, vuol dire infatti “dividere”, “separare”. Solo che un tale comportamento dimostra chiaramente la totale mancanza di amore sia per gli altri che per sé stessi; colui infatti che si ritiene strutturalmente “diverso, superiore”, non ama, non accetta gli altri, perché non accetta neppure sé stesso, non si ama così com’è, pretende sempre molto di più, è insofferente, intollerante; per cui sparla, trancia giudizi velenosi, riserva solo maldicenze e cattiverie, dimostrando nei fatti la propria nullità esistenziale.
Certo, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza trinitaria di reciproche “alterità” che vengono armonizzate in un unico spirito d’amore, c’è ancora molta strada da fare: c’è bisogno soprattutto di tanta umiltà, di tanta pazienza, di tanto rispetto delle identità diverse: perché solo così l'incontro con Dio nella profondità delle anime dei fratelli, riuscirà a fonderci insieme, tramite quell’amore unico, vero, creativo, “oblativo”, che Lui ci ha lasciato in eredità.
Dio è Amore donato: ecco perché anche il nostro amore deve diventare dono, “relazione”: tra noi, i fratelli e Dio, deve pertanto attuarsi una speciale pericoresi trinitaria: vale a dire quella compenetrazione reciproca di tre entità separate e distinte che si offrono, si donano, e si ricevono, confluendo unite nell’amore dell’unico Dio e Padre di tutti.
Inondati dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire al Dio Trinità, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato con la sua stessa vita: quel Dio che ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”, imprimendo dentro di noi il suo DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio per vivere appunto in comunione la sua stessa vita d'amore, di fraternità, di condivisione.
Festeggiare la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo faticosamente la nostra vita di cristiani. Amen.



  

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