giovedì 24 agosto 2017

27 Agosto 2017 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Disse loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno potuto constatare quanto egli fosse seguito e amato dalle folle; hanno potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita, ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tantissima gente cambiare vita; lo hanno sentito dire parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di donarsi, di amare, di buttarsi nella mischia. 
Nonostante ciò, nel loro intimo, essi non riescono a staccarsi dai vecchi schemi: sono ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette alla prova ponendo loro una domanda a bruciapelo, per vedere in concreto cos’hanno capito di lui: “Va bene: questo è quello che gli altri pensano di me: “Ma voi chi dite che io sia?”.
A questo punto l’imbarazzo generale: la loro risposta è desolante, la confusione è totale: un guazzabuglio di idee; ciascuno pensa qualcosa di diverso, nessuno riesce a dire chi sia per loro Gesù. Non lo vedono per quello che è; lo vedono alla luce dei loro “vecchi schemi”: in lui, come tutti, essi vedono un profeta, un personaggio importante della Bibbia. È sicuramente un bel paragone, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso da tutti: da quelli venuti prima e da quelli che verranno dopo.
Gesù non è uno dei tanti profeti biblici: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse, una volta per tutte, le cose sia dal punto di vista religioso che sociale e politico. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopraffazione in Lui. 
Gesù non è un profeta legato ai canoni del tempo. Gesù è profeta perché mostra il Padre fuori dal tempo.
L’autorità religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era da temere, uno che bisogna tenerselo buono perché, non si sa mai, magari ci manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire, e ciò era sinonimo di condanna.
Il Dio di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che uno vuole, ciò che comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro, cioè di Dio; obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire invece agli altri, e non a Lui, significa farlo morire, lasciarlo sepolto, inascoltato, abbandonato dentro di noi. Obbedire, insomma, vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, vuol dire ascoltare Dio e non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la corrente comune, evitando magari insulti, conflitti, contrasti, a volte dolorosi.
Sicuramente gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il silenzio che ne segue è perché proprio non sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro:”No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”.
La novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta identificativa, quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”? Giona è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la conversione, lui se n’è andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è “bar”, figlio, di Giona, perché è sanguigno e testardo come lui; perché anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà; ma anche lui alla fine si salverà.
E Gesù conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha insegnate o te le ha ordinate (né la carne né il sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo perché Dio può parlare liberamente dentro di te (“ma il Padre mio che è nei cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono sapere”.
Solo su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. “Regno dei cieli”, nel vangelo, non significa un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile, anche nell’al di qua.
La chiave del Regno di Dio, è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. Perché è solo in questo modo che i nostri legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera per sempre nell’Amore eterno.
Le relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo, incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, non l’amore. “A-more” (alfa privativo-mors, mortis) vuol dire infatti ”non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate: perché è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli apostoli, solo dopo la Pentecoste, una volta liberi dai loro schemi politico-religiosi, capiranno finalmente chi è veramente Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui è vivo! Lui è la Vita! Lui ci fa vivere!”.
Anche noi, nel nostro peregrinare, non dobbiamo mai perdere di vista il Dio della Vita, il Dio dell’Amore: dev’essere Lui il nostro vero obiettivo, colui che merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere. La nostra messa domenicale, le nostre preghiere, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui: anche se efficaci e fondamentali, essi rimangono pur sempre dei mezzi; e se non riescono a farci “vivere”, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”, le semplici “abitudini”, se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non servono a nulla!
Così quando entriamo in Chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per consentire alla Vita di scorrere in noi più forte e più viva di prima; perché è lì, ascoltando la sua Parola, mangiando la sua carne, bevendo il suo sangue, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuove ragioni di vita, nuovi spazi vitali per noi e per il mondo. Solo in questo modo, una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare e superare qualunque difficoltà: non in Chiesa, ma è qui, nel mondo, nella società, che siamo chiamati a tradurre l’Amore per i fratelli in gesti concreti. Dio è Vita e Amore: ed Egli vive, si fa presente e continua a farsi riconoscere soprattutto là, dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.



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