«Disse
loro: Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il
Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-20).
I discepoli
che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui,
hanno potuto constatare quanto egli fosse seguito e amato dalle folle; hanno
potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita,
ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tantissima gente cambiare vita; lo hanno
sentito dire parole forti, vive, parole che svegliano il cuore, che fanno
venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di donarsi, di amare, di buttarsi nella
mischia.
Nonostante
ciò, nel loro intimo, essi non riescono a staccarsi dai vecchi schemi: sono
ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto
certamente degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli
smussamenti, delle variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per
questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette alla prova ponendo loro
una domanda a bruciapelo, per vedere in concreto cos’hanno capito di lui: “Va
bene: questo è quello che gli altri pensano di me: “Ma voi chi dite
che io sia?”.
A questo
punto l’imbarazzo generale: la loro risposta è desolante, la confusione è
totale: un guazzabuglio di idee; ciascuno pensa qualcosa di diverso, nessuno
riesce a dire chi sia per loro Gesù. Non lo vedono per quello che è; lo vedono alla
luce dei loro “vecchi schemi”: in lui, come tutti, essi vedono un profeta, un
personaggio importante della Bibbia. È sicuramente un bel paragone, ma Gesù non
è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto Gesù è completamente diverso
da tutti: da quelli venuti prima e da quelli che verranno dopo.
Gesù
non è uno dei tanti profeti biblici: Gesù è il Profeta, è il figlio di Dio. E
questo essi non l’hanno capito.
Non è
come Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva
insistentemente una totale conversione di vita, obbligando chi voleva
battezzarsi ad una vita di penitenza e opere di misericordia. Gesù al contrario
non impone mai nulla, a nessuno. La sua è una “proposta” di vita: chi
vuole la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la
vitalità che trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde.
Nessuna costrizione!
Non è
come Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo,
duro, rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una
verità, una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li
ha sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha “bruciato” cento
uomini (2Re 1,9-12) solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”.
Gesù non può assolutamente essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero
voluto in qualche modo così. Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che
sistemasse, una volta per tutte, le cose sia dal punto di vista religioso che
sociale e politico. Ma Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopraffazione
in Lui.
Gesù
non è un profeta legato ai canoni del tempo. Gesù è profeta perché mostra il
Padre fuori dal tempo.
L’autorità
religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed
obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in
regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era da temere, uno che
bisogna tenerselo buono perché, non si sa mai, magari ci manda all’inferno!
La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il proprio cuore. Anzi:
era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo voleva dire sentire in
maniera diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire, e ciò era
sinonimo di condanna.
Il Dio
di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi.
Dio non sa che farsene di esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello,
senza un pensiero autonomo, libero e personale.
Del
resto obbedire (dal latino ab-audire) significa
letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è eseguire ciò che
uno vuole, ciò che comanda, perché questa è schiavitù; obbedire, in senso
stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro, cioè di Dio;
obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi;
obbedire è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire invece agli altri,
e non a Lui, significa farlo morire, lasciarlo sepolto, inascoltato,
abbandonato dentro di noi. Obbedire, insomma, vuol dire ascoltare il nostro
cuore e rimanergli fedele, vuol dire ascoltare Dio e non tradirlo; anche se
sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla situazione, seguire la
corrente comune, evitando magari insulti, conflitti, contrasti, a volte
dolorosi.
Sicuramente
gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie
categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il
silenzio che ne segue è perché proprio non sanno chi Egli sia veramente, non l’hanno
ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo
Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro:”No,
tu non sei un profeta, non sei un sacerdote così. Tu sei il Cristo, il Figlio
del Dio vivente” (16,16).
In
realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt
14,33): è che non avevano capito cosa volesse dire “Figlio di Dio”.
La
novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta
identificativa, quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il
Cristo, il Figlio di Dio; “Tu sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e
porta alla vita”.
E Gesù
gli dice: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue
te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”.
Ci
siamo mai chiesto perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”? Giona è
stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di
quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la
conversione, lui se n’è andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene,
Pietro è “bar”, figlio, di Giona, perché è sanguigno e testardo come
lui; perché anch’egli andrà contro il Signore, lo rinnegherà; ma anche lui alla
fine si salverà.
E Gesù
conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha
insegnate o te le ha ordinate (né la carne né il sangue). Queste cose le
cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima che pulsa, solo perché
Dio può parlare liberamente dentro di te (“ma il Padre mio che è nei cieli”).
Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro di sé, lo può
conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e non possono
sapere”.
Solo
su questa pietra, pertanto, solo su questa certezza (che Lui è il
Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun
potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla.
Essa è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. “Regno
dei cieli”, nel vangelo, non significa un regno dell’al di là, ma una vita
dove Dio vive e si fa vedere, dove si rende visibile, anche nell’al di qua.
La
chiave del Regno di Dio, è allora far uscire, sprigionare tutta la vita,
l’energia, la forza, che abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è
lode a Dio, una vita vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. Perché è solo
in questo modo che i nostri legami di vita, intrecciati sulla terra, rimarranno
vivi per sempre; poiché la vita di ora, liberata, sciolta dalle catene di
morte, sublimata, rimarrà viva e libera per sempre nell’Amore eterno.
Le relazioni
quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo,
incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, non l’amore. “A-more”
(alfa privativo-mors, mortis) vuol dire infatti ”non-morte”.
Se la nostra vita è stata Amore, vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre,
saremo per sempre uniti con chi abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà
nient’altro che la forza di attrazione dell’Amore: ecco perché non dobbiamo
temere di perdere le persone amate: perché è nell’amore che rimarranno per
sempre parte di noi, indissolubilmente legati a noi. Vivere l’amore è vivere
Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci fa vivere in eterno.
Gli
apostoli, solo dopo la Pentecoste, una volta liberi dai loro schemi politico-religiosi,
capiranno finalmente chi è veramente Gesù; e andranno per il mondo a predicare
e testimoniare esattamente questo: “Lui è vivo! Lui è la Vita! Lui ci fa
vivere!”.
Anche
noi, nel nostro peregrinare, non dobbiamo mai perdere di vista il Dio della
Vita, il Dio dell’Amore: dev’essere Lui il nostro vero obiettivo, colui che
merita tutta la nostra attenzione, i nostri interessi. Il nostro vivere da
cristiani, le nostre preghiere. La nostra messa domenicale, le nostre
preghiere, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a Lui:
anche se efficaci e fondamentali, essi rimangono pur sempre dei mezzi; e se non
riescono a farci “vivere”, se non riescono ad andare oltre i semplici “riti”,
le semplici “abitudini”, se non
riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente inutili. Non
servono a nulla!
Così quando
entriamo in Chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per fare
intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per
consentire alla Vita di scorrere in noi più forte e più viva di prima; perché è
lì, ascoltando la sua Parola, mangiando la sua carne, bevendo il suo sangue, pregando
e parlando con Lui, che riusciremo a scoprire nuove ragioni di vita, nuovi
spazi vitali per noi e per il mondo. Solo in questo modo, una volta usciti, ci
sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare e superare qualunque
difficoltà: non in Chiesa, ma è qui, nel mondo, nella società, che siamo
chiamati a tradurre l’Amore per i fratelli in gesti concreti. Dio è Vita e Amore:
ed Egli vive, si fa presente e continua a farsi riconoscere soprattutto là,
dove noi esprimiamo Vita e Amore. Amen.
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