martedì 31 maggio 2016

5 Giugno 2016 – X Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei». (Lc 7,11-17).

Contare su un Dio misericordioso è il tema ricorrente in quest’anno giubilare della “misericordia”; un tema che il vangelo di oggi affronta in un meraviglioso contesto,con il quale Luca, in esclusiva assoluta, ci racconta la risurrezione da morte di un ragazzo, fatta da Gesù, mentre veniva portato fuori dalle mura della città per essere sepolto.
Il vangelo è apparentemente semplice: c’è una donna della cittadina di Nain, vedova, cui improvvisamente viene a mancare l’unico figlio. Arriva Gesù e nella sua misericordia le riporta in vita il giovane.
Un miracolo come tanti altri: anzi, neppure tanto originale, visto che già nell’Antico Testamento, quindi molto tempo prima di lui, Elia (1Re 17,17-24) ed Eliseo (2Re 4,32-37), compirono ciascuno un miracolo analogo. C’è da dire però che tra l’operato dei due profeti e quello di Gesù, c’è una differenza sostanziale: poiché i profeti agivano come “intermediari di Dio”: essi non agivano in virtù della loro forza, del loro potere, ma era Dio che agiva per mezzo loro, per cui dovettero pregare Jahweh molto intensamente, perché lui operasse il miracolo; Gesù al contrario non è intermediario di nessuno, egli è Dio e se vuole operare miracoli, non deve pregare nessuno;Egli opera e guarisce in forza della sua stessa forza. Inoltre, un’altra differenza importantissima sta nelle motivazioni dei miracoli: mentre il testo dell’Antico Testamento ha lo scopo di evidenziare la “potenza” di Dio, il testo di Luca vuole invece sottolineare la sua “misericordia”, la misericordia di Gesù, del “Signore”, come egli appunto lo chiama qui per la prima volta.
Siamo nel capitolo settimo del suo vangelo: Gesù, in tale contesto, è particolarmente impegnato a dimostrare a tutti la straordinarietà della sua missione: è di poco prima infatti la guarigione del servo del centurione che “stava” per morire; qui resuscita addirittura un bambino già morto. Opere straordinarie che inducono la gente a vedere in lui l’inviato di Dio, quel “messia”, che tutti aspettavano da tempo immemorabile. Tant’è che il Battista stesso, come sappiamo dal seguito del vangelo di oggi, venuto a conoscenza di “tutte queste cose”, manda due suoi discepoli a chiedere direttamente a Gesù: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Lc 7,19). E Gesù risponde appunto: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito” (Lc 7,22). Le azioni, i fatti, più che le tante parole, sono determinanti per giudicare una persona.
Ma entriamo nel vangelo propostoci oggi dalla Liturgia. “Gesù si recò in una città chiamata Nain e facevano la strada con lui i discepoli e una grande folla” (Lc 7,11).
Dobbiamo riconoscere che Luca è un artista. Gli bastano pochi tratti per dare profondità e senso al quadro che si accinge a dipingere. Egli attira immediatamente la nostra attenzione su due situazioni opposte, precisamente su due “processioni”, che si incrociano alla porta della cittadina di Nain: mentre il primo corteo, al seguito di Gesù, è quello della “vita” che si appresta ad entrare, l’altro, quello che sta uscendo dalla città per accompagnare la vedova alla sepoltura del figlio, è la processione della “morte”. Il contrasto tra Gesù-Vita e popolo-morte, fa dunque qui da premessa. Ma fermiamoci un momento sul simbolismo, sul significato che possiamo dare a questo testo di Luca, magari tenendo d’occhio le tante situazioni analoghe della nostra società contemporanea.
Anche oggi non è raro veder portare dei giovani alla sepoltura. O per malattia che stronca inesorabilmente senza contare gli anni, o per sempre più irragionevoli morti giunte improvvise per incidenti o disgrazie, oppure cercate nella follia della droga o addirittura nel suicidio.
Nessuno si abitua a questi drammi. Ogni morte di un giovane, per qualunque motivo, scuote la coscienza di tutti. Giovinezza vuol dire pienezza di vita, possibilità di utopie e sogni, di fantasie, di meraviglie da costruire: di vocazioni tutte da spendere.
Si nota nei funerali dei giovani una partecipazione che difficilmente si ha per altre età.
E su tutti cala una tristezza che sconfina nella disperazione. Difficile dire parole in quella circostanza. Mai come in questi momenti la vita viene esaltata.
Un corteo funebre esce dunque dalla città: un fatto che fa pensare ad una analogia piuttosto interessante, che porta ad alcune considerazioni: la città rappresenta la figura materna; dalle sue mura, dal suo grembo, esce un bambino morto.
La madre cioè non è riuscita a farlo crescere, non ha voluto renderlo autonomo, non ha voluto che camminasse sulle sue gambe, che uscisse dalla sua influenza iperprotettiva. Tra i due è nata una relazione di esclusiva simbiosi: la madre, evidentemente, non disponeva di una sua vita propria, era il figlio che costituiva tutta la “sua” vita. Ma se è il figlio a dar vita alla madre, egli automaticamente perde la sua di vita, e non avendo più una vita, muore.
Ma perché questo figlio avrebbe “dato la sua vita” alla madre? Perché si sarebbe “spersonalizzato” fino a questo punto? Ce lo dice il testo: era“Figlio unico di madre vedova” (Lc 7,11). C’è da dire che essere “vedova” a quei tempi, significava trovarsi in una condizione veramente miserevole: una vedova, in Israele, non aveva alcun diritto, alcun riconoscimento civile, non poteva neppure lavorare per guadagnarsi da vivere. L’unico quindi che può difendere quella madre è suo figlio; l’unico che le può dare dignità, l’unico che può darle valore e sostentamento. Quel figlio è “tutto” per lei: le fa da marito, da compagno, da amico; le da sicurezza, giustizia, protezione: tutti quei riconoscimenti che nessun altro può darle.
Per cui quel figlio è “tutto” per la madre: egli non ha una vita “sua”, vive solo per lei.
E per questo muore. Muore perché invece di ricevere vita dalla madre, è lui che deve darla a lei. E senza vita non si può che morire dentro. Nessun figlio può dare la vita ad un genitore. Sono i genitori che danno la vita ai figli, non il contrario!
Qui però notiamo anche una nota particolare: “Molta gente della città era con lei” (Lc 7,11).
È una nota molto interessante. Perché quell’essere con lei non indica soltanto una presenza fisica ma anche un “andare” con lei, un pensare cioè come lei, un condividere il suo comportamento, ritenerlo giusto, doveroso, sacrosanto.
Avranno sicuramente raccomandato al figlio: “Guarda che tu sei tutto ciò che tua madre può avere, sei il bastone della sua vecchiaia; il suo sostentamento: tua madre vive solo per te; se tu non fossi nato, lei sarebbe sicuramente morta”.
In pratica vediamo che l’ambiente circostante non fa altro che sottolineare, approvare in pieno il comportamento della madre e, conseguentemente quello del figlio, a condizione che lui la assecondi, a condizione cioè che lui viva per la madre, che rinunci alla sua vita per lei.
È evidente che se tutto il suo vicinato si comporta in questo modo, per il figlio diventa difficile, anzi impossibile, ribellarsi a questa mentalità.
Ma a questo punto arriva Gesù. E osserviamo attentamente quello che fa.
“Vedendola ne ebbe compassione” (Lc 7,12). Egli vede la madre e prova compassione per lei. Non prova compassione per il figlio morto, ma per la madre. È la madre che ha bisogno di amore, di compassione, di aiuto, di una cura energica; è lei che deve “guarire”. Per cui, da questo momento, tutto ciò che Gesù fa, lo fa per lei, per la madre, non per il figlio. I suoi gesti, le sue parole, sono esclusivamente per lei. Che il figlio risorga, dipende da lei: infatti egli “risorgerà” solo se la madre cambierà radicalmente mentalità, se farà in se stessa delle modifiche sostanziali, dei cambiamenti, delle trasformazioni radicali.
Prima di tutto, dunque, Gesù “vede”: i suoi sentimenti, la sua misericordia, la sua tenerezza, il suo sentimento d’amore, gli nascono dentro proprio perché “vede”. Ma vede non perché ha gli occhi, ma perché lungo la strada si lascia “toccare”, si lascia “colpire”, si lascia coinvolgere da ciò che lo circonda. Gesù non guarda soltanto, Egli “vede” e “sente”. È attento, un osservatore consapevole.
Noi spesso guardiamo, ma non vediamo: l’immagine si ferma sulla nostra retina ma non arriva nel nostro cuore. Non abbiamo cioè motivazioni per agire, emozioni che ci mettano in movimento. E per questo non facciamo nulla.
Gesù invece non ha paura di essere “scombussolato dentro”, di lasciare che quello che vede lo “commuova” profondamente. Gesù non “rimuove” l’emozione. La sua forza è nel suo sentire, nei sentimenti che egli vive. È questo che poi lo porta ad agire.
Luca evidenzia in altri due passi lo stretto legame che esiste tra “vedere” (orao) e “avere compassione” (splanchnizomai): lo fa nella parabola del buon Samaritano che vede il ferito abbandonato per strada e ne ha pietà (Lc 10,33), e in quella del padre misericordioso che vede da lontano il figliol prodigo ed è mosso a compassione (Lc 15,20).
Anche questi due brani sono riportati esclusivamente da Luca, che ci rende la vera immagine del Dio misericordioso, preso da passione per l’uomo, suo figlio ferito, perduto, morto.
Con la vedova di Nain come si comporta Gesù? Vediamolo nei particolari:
1) “Non piangere”. È l’invito che rivolge alla madre in lacrime, oppressa dal dolore. Ella piange per la separazione dal figlio. Ma forse il suo pianto è anche una richiesta di aiuto: è un chiedere qualcosa, un po’ come fanno i bambini, che improvvisamente le è stato tolto e che nessuno può più restituirle. Ma allora, il suo è un pianto di una donna o di una bambina?
Non è che questa vedova piange per la sua attuale condizione: “Che ne sarà di me? Chi penserà a me? Come farò senza di lui? Lui era tutto, tutta la mia vita: e ora?”. Forse non sono lacrime di un addio, ma lacrime di collera per l’impossibilità di continuare a tenere il figlio legato a sé.
In pratica Gesù le dice: “Smettila di piangere, non fare la bambina! Smettila di pensare, attraverso lui, soltanto alla tua persona. Tu non puoi dipendere esclusivamente da lui!”.
2) “Toccò la bara”: bisogna toccare ciò che è morto, ciò che non può più esistere, ciò che non è più vitale. Bisogna toccare, cioè mettere mano, a tutti quei comportamenti che ci distruggono, che ci imprigionano, che si soffocano, che ci ingabbiano. Anche se non è bello.
Facendo questo, Gesù entra là dove la vedova non vuole entrare: deve cioè imparare che questo “suo” figlio non è suo, e che quindi deve andare nella vita con le sue gambe.
3) “Ragazzo, dico a te, alzati”; al figlio in pratica dice: “svegliati, devi imparare un nuovo comportamento , c’è un passaggio che devi fare. Non puoi fare come prima: perché fare come prima vuol dire morire. Esci dalla tua illusione: tu vivi in funzione di tua madre, sei ancora legato a lei. “Alzati”, corrisponde a: “Levati in piedi” (era disteso), cammina con le tue gambe, smettila di farti portare dagli altri, cioè smettila di farti dire dagli altri (madre e ambiente) cosa sei, cosa devi fare, come devi comportarti, cosa devi pensare, cosa è giusto e cosa no, ecc. Diventa grande, prendi in mano la tua vita, muoviti sulle tue gambe.
4) “Il morto si mise seduto e cominciò a parlare”: Ora finalmente parla! Quindi prima non parlava. Ma chi è che lo zittiva? Chiaramente la madre (c’era solo lei!): “Guarda quanto lavoro per mandarti a scuola; non vedi i sacrifici che faccio? Non uscire questa sera perché mi sento sola; quando avrai la mia età, capirai”.
C’erano sempre i suoi pensieri, i suoi problemi, prima di quelli del figlio. L’attenzione era tutta su di lei: il figlio non aveva “voce”, non aveva spazio. Tutto veniva visto in funzione della madre, dei suoi bisogni e delle sue paure.
Ma ora c’è anche lui: anche lui ha i suoi desideri, le sue passioni, i suoi gusti, i suoi punti di vista. Ora c’è anche lui, e lei deve capirlo.
5) “Lo restituì a sua madre”: a questo punto Gesù restituisce alla madre un figlio vivo, non uno morto. Ma perché questo figlio ora è vivo mentre prima era morto? Cos’è che fa ora di diverso rispetto a prima? Si è alzato, vuol camminare sulle sue gambe: non è più, cioè, un bambino “mangiato, ingoiato” da sua madre, ma un piccolo uomo che sta iniziando a pensare con la sua testa, a scegliere con la sua mente e a vivere in funzione di sé, dei propri desideri, non di quelli di sua madre.
Questo figlio che torna alla madre non è più quello di prima: è un altro. La madre non lo perde (ce l’ha ancora) ma “lo perde”: il rapporto non sarà più quello di prima.
Così anche noi se non sappiamo “perdere”, cioè se non lasciamo andare i nostri figli, li perderemo, finiremo per rovinar loro la vita.
Prendiamo per esempio Maria, che ha dovuto “perdere Gesù” per “averlo”, per consentirgli cioè di seguire fino in fondo la sua missione.
Nelle culture antiche ad un certo momento i ragazzi venivano presi dai padri e portati nella foresta per confrontarsi con i pericoli e gli animali. Era un’esperienza difficile, pericolosa e tremenda. Ma perché? Perché essi avevano bisogno di “tirare fuori” il loro coraggio, il loro ardore, la loro libertà, la loro forza. Una madre non può bastare per suo figlio: può dargli l’amore (e questo è tantissimo) ma non può dargli tutto ciò di cui ha bisogno.
C’è un famoso proverbio che dice: “Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, la gazzella si sveglia, e sa che dovrà correre più veloce del leone per non rimanere uccisa. Ogni mattina in Africa, al sorgere del sole, il leone si sveglia e sa che dovrà correre più veloce della gazzella, o morirà di fame. Ogni mattina in Africa, non importa che uno sia leone o gazzella, deve comunque incominciare a correre”. Questo in sintesi è il comando che Gesù rivolge oggi anche a noi: “Alzatevi; muovetevi, correte e smettetela di piangervi addosso!”. Amen.



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