La parabola di oggi è un po’ singolare, perché i suoi protagonisti, indistintamente, fanno tutti una brutta figura. La fa lo sposo perché, giunto alle nozze con un ritardo inammissibile, respinge quelle vergini che si presentano con la lampada spenta, poiché nel frattempo l’olio si era esaurito: “Non vi conosco!” dichiara loro; ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che le conosceva perfettamente visto che lui stesso le aveva invitate? Fanno ovviamente brutta figura le vergini che si sono trovate senza una scorta d’olio, dimostrando di essere delle sprovvedute, poco lungimiranti. Ma la fanno ugualmente anche le sagge che rifiutano sdegnosamente di dare alle amiche un po’ del loro olio: perché non condividere infatti qualche goccia d’olio con le altre, visto che lo sposo era finalmente arrivato? Lo fanno perché sono invidiose, cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è incedibile, strettamente personale, per cui anche volendo, non possono cederlo ad altri? Un olio “particolare”, unico, personalissimo che, o ce l’hai di tuo, altrimenti nessuno può dartene? “Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché sono così scostanti? Come possono quelle poverette trovare un venditore d’olio nel cuore della notte? Si burlano di loro, oppure fanno così perché non possono dare ciò che “non si può” dare?
Insomma, questa è una parabola con tanti interrogativi, in cui nessuno sembra comportarsi in maniera corretta.
Ovviamente, per capirla, dobbiamo prima di tutto capire il significato di queste immagini così lontane da noi, dalla nostra cultura, facendo esse riferimento agli usi matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando comunque la parabola, appare chiaro che lo sposo è Gesù; mentre le vergini, sia le prudenti che le stolte, siamo noi. E allora viene spontaneo chiederci: perché Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? E cos’è quest’olio così importante da condizionare il nostro ingresso alle sue nozze?
Matteo, parlando delle vergini stolte che si sono dimenticate di prendere l’olio, le chiama “morai”: un termine che letteralmente significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate, stupide, sciocche, senza testa, insipide”.
Per meglio comprendere la portata della loro stupidità, dobbiamo sapere che la “lampada” in questione altro non era che un recipiente fissato su un bastone nel quale ardevano stracci intrisi d’olio. È chiaro che per continuare a bruciare e a far luce, gli stracci dovevano essere continuamente imbevuti: non disponendo di una scorta d’olio le lampade si sarebbero ben presto spente cessando di fare luce.
Stupidità, dunque: significativo è infatti che sempre Matteo usi questo stesso termine di stolto, matto, pazzo, per indicare un’altra situazione altrettanto ovvia: quella dell’uomo che ha costruito la sua casa sulla sabbia (Mt 7,26): solo un pazzo infatti poteva fare una cosa tanto assurda: il primo temporale, la prima pioggia torrenziale avrebbe spazzato via la sabbia, e la casa sarebbe crollata.
In entrambi i casi gli stolti sono identificati con quelle persone che ascoltano sì la parola di Dio, ascoltano il messaggio di Gesù, lo accolgono, ma poi non lo mettono in pratica, lo lasciano lettera morta, se ne disinteressano totalmente. Sono quelle persone che vivono alla giornata senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema. Non si preoccupano minimamente di ciò che è importante nella vita: della qualità del rapporto di coppia, del sapersi ascoltare, del fare silenzio dentro, del mettersi in gioco, del cambiare in meglio, del nutrire l’anima, dell’avere del tempo per sé e per quelli che amano. Vanno avanti come se niente fosse. Poi si dicono: “Come è potuto capitarmi questo? Com’è possibile?”. Ma cosa pensavano, che un giorno o l’altro non avrebbero dovuto dare ragione del loro comportamento? Cosa pensavano che potesse succedere? Così si sono trovati sprovvisti di olio. Ma cos’è esattamente quest’olio che gli stolti non hanno? Sono le opere buone. L’ha detto chiaramente Gesù: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini (la lampada della vostra vita), perché vedano le vostre opere buone (l’olio che la alimenta) e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).
Ma in concreto i vangeli cosa intendono per “opere buone”? Vi ricordate la parabola del buon samaritano? Non i gesti sacri del levita che passa e tira via dritto di fronte all’uomo ferito, non le preghiere giornaliere del sacerdote, ma l’amore del buon samaritano che oltretutto era considerato un eretico (Lc 10,29-37). È questo, è l’amore che conta davanti al Signore. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
È questo in pratica che significa avere l’olio: un bene concreto, reale, quotidiano, fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. C’è qualcuno che soffre? Noi vediamo, sentiamo la sua sofferenza, e ci muoviamo subito per aiutarlo. L’amore è dunque l’unico metro di giudizio usato da Dio; preghiere, riti, meriti, studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono a servizio dell’amore. Anche questo Gesù lo dichiara apertamente: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21). Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, costruire grandi chiese, grandi cattedrali, tirare in ballo “Dio” continuamente, in ogni cosa, in ogni discorso, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini stolte, sprovviste di opere buone, di amore. Perché solo chi possiede amore può entrare alle nozze con Dio, nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”: ma non è il Signore che non ci riconosce. Non è una condanna la sua, ma una conseguenza del nostro modo di vivere. Siamo noi stessi che non ci riconosciamo, perché abbiamo sempre vissuto in superficie, con banalità: non sappiamo chi siamo; non sappiamo cosa vogliamo o cosa proviamo; non abbiamo alcun colloquio con noi stessi e, conseguentemente, ci autoescludiamo dalla vita, dalle sorgenti della vita.
Trovarci in situazioni simili è molto più facile di quanto si possa pensare. Anzi è un classico, succede sempre così. Arriviamo ad un certo punto in cui il nostro cuore è talmente indurito, corazzato, siamo diventati talmente gelidi, da non essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento: così, quando il pianto vorrebbe liberarci, ci dirà: “Non ti conosco”, perché dentro di noi, nel nostro cuore, non troverà più nulla, solo aridità; quando arriverà la gioia, dirà: “Non ti conosco”, perché non riusciamo più a gioire, ad abbracciare, a lasciarci andare con sincerità. Quando arriverà l’amore, dirà: “Non ti conosco”, perché saremo così aridi, così sterili, da non sapere più cosa significhi innamorarci, amare veramente qualcuno. Quando arriverà la tenerezza o la compassione diranno: “Non ti conosco”, perché il nostro cuore sarà talmente indurito, che niente potrà commuoverci, niente potrà emozionarci: dentro di noi non avvertiremo più alcun palpito. Ma vivere così è vivere senza vita. La distanza che si è venuta a creare con l’Amore, è ormai troppo grande, e in tutti noi un punto di non ritorno. C’è un punto in cui tutto è “troppo tardi”: il tempo a nostra disposizione è finito, e non avremo più alcuna possibilità di “rivivere” per porvi rimedio. Questa parabola, allora, deve essere per noi un pressante invito: “Non lasciare che la tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue opere buone, perché la “scorta” di cui in quel momento devi disporre, determinerà la tua salvezza o la tua condanna, la tua beatitudine o la tua disperazione. Fai molta attenzione, perché potresti cadere improvvisamente nel buio più totale. Amen.
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