giovedì 3 novembre 2022

06 Novembre 2022 - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 20, 27-38 
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 La pagina del vangelo di oggi per noi, per la nostra mentalità, è difficile da capire, è anacronistica, molto lontana dalla nostra cultura e dal nostro linguaggio. Vediamo in particolare di che si tratta. 
C’è ancora una discussione tra Gesù e le autorità religiose: questa volta sono i Sadducei che la provocano, gente colta, che rappresenta quella parte dell’aristocrazia sacerdotale razionalista, che non crede nella dottrina della risurrezione dei morti, così come era stata formulata nell’epoca maccabaica, ritenendola una inutile “aggiunta” alla dottrina di Mosè. 
Essi dunque si avvicinano a Gesù non per chiedere un suo parere, ma con lo scopo evidente di metterlo in difficoltà, di ridicolizzarlo: incrociando infatti la “teoria della resurrezione”, che essi non riconoscevano, con l’istituto giuridico del Levirato (legge mosaica che imponeva al cognato di sposare la propria cognata rimasta vedova e senza figli, per salvaguardare la discendenza e assicurare la sopravvivenza del clan), gli prospettano un caso paradossale, decisamente assurdo, artificioso, grottesco: la storiella di sette fratelli, costretti a sposare tutti la stessa donna, alla quale nessuno prima di morire - né il marito, né in seguito i sei cognati - era riuscito a darle un figlio; da qui la domanda astrusa: “nell’aldilà, di quale dei sette fratelli la donna sarà considerata moglie?”. 
Gesù ovviamente, con la calma e l’eleganza che lo distingue, elude la provocazione, e superando la banale questione dei Sadducei, ne approfitta per parlare del mistero della risurrezione e della vita futura, dando in proposito due risposte. 
La prima di ordine formale: non è possibile servirsi dei nostri attuali criteri razionali per parlare e spiegare l’aldilà. Tutto quello che diciamo sono solo ipotesi, balbettii, allusioni, immagini, parabole. In genere, ogni religione quando affronta il problema della destinazione finale dell’uomo dopo la morte, parla infatti, quando va bene, di luoghi incantevoli, di latte e miele, di pascoli erbosi, di luce splendente, di giardini fioriti; quando invece va male, di fuoco, di tenebre, di tormenti, di angosciose sofferenze. In ogni caso, sono solo supposizioni: è come se un bambino, ancora nel grembo della madre, volesse descrivere il cielo, il mare, un fiore, la fisionomia della mamma e del papà: ma come potrebbe farlo? È impossibile, non può. 
Ebbene: succede la stessa cosa anche quando noi pensiamo l’aldilà. Abbiamo solo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, che possiamo cogliere dall’osservazione della natura in cui viviamo, che possiamo trarre dai nostri sentimenti, dalla nostra fantasia: così l’alternarsi delle stagioni con fiori e piante che muoiono e rinascono; il seme piantato che “muore” per rinascere, crescere, e dare frutto; il sentimento dell’amore vero che ci estasia, che ci fa toccare il cielo, che ci unisce in maniera indissolubile, sono tutte semplici “trasposizioni” logiche che, quando oggi “balbettiamo” di aldilà, ci offrono un’idea, vaga e imprecisa, di cosa potrebbe significare “risurrezione, rapporto con Dio, paradiso, vita beata”: ma sappiamo per fede, che la vita in Dio, l’Amore eterno, sarà un’esperienza completamente diversa, sarà un’altra cosa, indescrivibile, talmente sublime da farci cadere in deliquio. 
Di concreto, quindi, non possiamo dire nulla, non possiamo descrivere nulla, non abbiamo alcuna certezza. L’unica cosa certa che sappiamo, l’unica verità sulla quale non possiamo dubitare, è che siamo figli di Dio. Una certezza che dovrebbe bastarci. Perché se arriviamo a capire che siamo veramente figli dell’Altissimo, quale altro motivo potremmo ancora avere per preoccuparci? “Io sono la risurrezione e la vita”, siamo figli suoi, figli della Risurrezione! Qualunque morte futura non potrà mai farci paura. 
La seconda risposta è di ordine concettuale: c’è un “aldilà” e Gesù lo fonda sul rapporto di amicizia che l’uomo, durante la sua vita terrena ha stabilito con Lui. Dice: “Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi” e ancora: “Il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”
I Patriarchi cui Gesù qui si riferisce, sono state persone che nella loro vita hanno amato e servito Dio: sono state creature “amiche” di Dio, “vive”, fedeli a Lui. 
Con queste persone, con tutta la loro discendenza, e con tutta l’umanità grazie a loro, Dio ha stabilito un legame indissolubile di amicizia, di amore, di speranza. E poiché Dio è fedele, dobbiamo credere a questa promessa; è sulla certezza di questa Sua fedeltà che dobbiamo poggiare la nostra fede nella “risurrezione”. Chi si appoggia a Lui è come il ramo di una pianta: anche se non porta frutto, anche se la linfa non scorre più in esso, anche se muore, non può separarsi, non può staccarsi di sua iniziativa da quel tronco che l’ha originato. Fidiamoci. Come un amico si appoggia ad un altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo alla mamma, così dobbiamo appoggiarci a Dio. Perché Dio è l’unico essere che non abbandona le sue creature. 
Ogni giorno sperimentiamo questa Sua fedeltà: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo ciò che ci propone, anche se gli siamo infedeli e lo tradiamo (che poi non facciamo nient’altro che tradire noi stessi), Lui rimane con noi, Lui è sempre presente. Lui è roccia (in ebraico hesed, roccia, significa amore fedele): Lui è granito; è la mano che non si stanca di sorreggerci, che non molla, che ci tiene forte. 
Nelle nostre categorie umane, non sappiamo con esattezza cosa voglia dire “Risorto, risurrezione”: sappiamo bene però che Dio è Vita, è Amicizia, è Amore, è Colui che non ci abbandona mai, qualunque cosa succeda: e questo ci deve bastare. 
Dobbiamo solo affidarci a Lui, consapevoli che con Lui non cadremo nel buio, nel vuoto: se la nostra vita poggia su di Lui, infatti, durerà per sempre, perché Dio è eterno e offre ai suoi figli solo amicizia eterna. 
Quindi: se noi in questo cammino terreno abbiamo riconosciuto Dio, se lo abbiamo fatto diventare centro della nostra vita, se lo abbiamo amato, nonostante le nostre fragilità, non dovremo avere mai alcun motivo per temere: perché il nostro incontro con Lui, alla fine del nostro percorso, sarà come l’incontro tra due persone che si amano. Se al contrario Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, se lo abbiamo relegato tra le cose inutili, se nella nostra esistenza lo abbiamo ignorato, contrastato, oltraggiato, vilipeso, allora sì che dovremo avere paura! 
È questo il motivo per cui la morte, con quello che ci aspetta nell’aldilà, costituisce l’incognita più tragica e angosciante: ma ciò non deve preoccuparci, perché risponde al nostro bisogno naturale di voler sapere, di avere il controllo su tutto, di essere sempre noi a gestire qualunque situazione. 
Gesù al contrario ci chiede oggi di abbandonare queste fantasie, questa innata presunzione; ci chiede semplicemente di aver fiducia; ci chiede di fidarci di Lui. “Perché debbo fidarmi?”, gli chiediamo; “perché ti amo”, risponde Lui: “Osserva attentamente la tua vita, e vedrai quanto ti ho amato e quanto continuo ad amarti; e se ti amo così intensamente, come potrei abbandonarti? Fidati di me!”. 
Giusto: solo che la fiducia, quella sincera, quella totale, esige confidenza, adesione, fedeltà. Esige soprattutto amore: perché è l’amore che ci spinge, che determina il nostro fidarci, il nostro andare avanti con sicurezza: e questo, credetemi, non dipende dal fatto che sappiamo dove andremo, cosa faremo, come saremo; ma piuttosto perché conosciamo Lui, perché ci fidiamo ciecamente di Lui, perché è Lui che ci guida. 
Una sera di tanti anni fa, alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di fidarmi e di lasciarmi condurre. Non era il mio compleanno, non c’erano motivi particolari per questa sceneggiata. Non mi fidavo; anzi, poiché non capivo il senso della cosa, avevo paura di qualche “brutta” sorpresa, facevo un sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non avevo la più pallida idea di come sarebbe finita. Quando mi tolsero la benda, meraviglia: c’era una grande tavola imbandita con tutti i miei amici più cari seduti intorno. Volevano solo festeggiare con me i decenni trascorsi insieme in grande e sincera amicizia. È stato emozionante. 
Ebbene, questo rappresenta, molto pallidamente, quella che è la nostra vita attuale e quello che ci succederà quando andremo di là: abbiamo paura nell’andare, siamo bendati, vogliamo sapere, ma poi una visione incantevole ci apparirà. Sarà una festa decisamente diversa da come la possiamo immaginare ora: inutile pensarci, inutile cercare di farci delle idee a modo nostro; inutile voler sapere ad ogni costo i particolari. Sappiamo solo che sarà un tripudio d’amore. Punto e basta! 
Noi siamo come i bambini al momento della loro nascita: sono traumatizzati dal dover uscire, dal lasciare un ambiente tanto confortevole; non sanno che quel passaggio così difficile è la loro unica salvezza, è l’inizio di una nuova vita, una nuova, inimmaginabile, meravigliosa, avventura che inizia tra le braccia accoglienti, calde, protettive e amorevoli della loro mamma.
Tante persone sono scioccamente convinte che il risultato finale, l’inferno o il paradiso, sia solo una questione di fortuna, un po’ come giocare alla lotteria: la speranza è di vincere, ma può capitare anche di finir male. Nossignori. L’inferno o il paradiso non capitano a caso: l’inferno o il paradiso ce li scegliamo noi, ce li costruiamo noi; il futuro è soltanto nelle nostre mani: quando andremo di là, Dio non farà altro che confermare la nostra scelta! Scegliamo allora la Vita, amici! Scegliamo fin d’ora il Paradiso, la gioia, la pace! Scegliamo l’Amore eterno, e in Lui ci sentiremo completamente soddisfatti, felici, e soprattutto amati! Amen.

 

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