giovedì 19 gennaio 2017

22 Gennaio 2017 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino. 
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». (Mt 4,12-23).

Il vangelo di oggi ci presenta l’inizio dell’attività pastorale di Gesù.
Il Battista è stato arrestato e la situazione si fa pericolosa anche per Lui. Pertanto Egli “scappa” verso il Nord, in Galilea; lascia Nazaret, la sua città, e si porta in Cafarnao, “sulla riva del mare”. È strano che città come Nazaret e Cafarnao nell’Antico Testamento siano completamente sconosciute, anche se Cafarnao, in particolare, fosse una città molto importante, una città di frontiera. Matteo la colloca “sulla riva del mare”: in realtà non si tratta del mare ma del lago di Genezareth o di Tiberiade. Ma perché l’evangelista parla di mare quando sa benissimo che è un lago? Perché Matteo vuol dare qui una spiegazione teologica: il mare era quello che separava Israele dalle terre pagane ma soprattutto era quello che il popolo d’Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Era sinonimo quindi di piena liberazione: per Matteo, quindi, Gesù rappresenta il nuovo Mosè, venuto a liberare il suo popolo.
Inoltre: perché Gesù dalle rive del Giordano, invece di scendere in Giudea, terra eletta, abitata dalla nobiltà sacerdotale, sede del Tempio, sale in Galilea, regione “delle genti”, popolato da poveracci, bifolchi, gente violenta, gente cordialmente disprezzata dai ricchi Giudei? Semplice: perché si compisse quanto anticipato da Isaia: gli abitanti che abitavano nelle tenebre, nella “terra di Zabulon e di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano”, regione di morte, sarebbero stati i primi testimoni del sorgere di una “grande luce”: e Matteo vede in ciò il compimento della promessa messianica di Israele (Is 8,23): Gesù, in quella terra “maledetta”, è dunque questa “nuova luce” sorta per illuminare il mondo.
È pertanto da qui che Gesù inizia la sua attività: “cominciò a predicare e a dire: Convertitevi perché il regno dei cieli è vicino”.
Il verbo usato qui da Matteo è categorico: “metanoèo”; per seguire Gesù, per accoglierlo, è necessario “convertirsi”, nel senso di “cambiare radicalmente mentalità” (“shub” in ebraico vuol dire “cambiare direzione”, fare una inversione ad “U”); in pratica, bisogna che tutti cambino il loro modo di “pensare” (noèo): la mente, nell’antichità, era considerata la sede non solo del pensare ma anche dell’agire. Quindi Gesù non si limita qui a chiedere un semplice “ritorno religioso a Dio” (= avrebbe usato “epi-strepho”), ma pretende un coinvolgimento concreto, operativo, dell’intera persona: un cambio di mentalità totale che incide, che trasforma, che impone al nostro comportamento un radicale “dietro-front”.
Questo perché con Gesù non è più sufficiente “tornare verso Dio”, ma è necessario “accogliere” questo Dio, e andare con Lui e come Lui, andare verso gli altri: in una parola dobbiamo impostare diversamente la nostra esistenza, quell’esistenza che noi incentriamo normalmente su noi stessi.
Poiché è la nostra mente, sono i nostri pensieri, la nostra volontà, che determinano le nostre azioni, le nostre emozioni, dobbiamo essere radicali: dobbiamo cioè iniziare la nostra “conversione” proprio dalla base: analizzando questi nostri pensieri, e sostituendo, cambiando, estirpando quelli che producono male, che generano sofferenza. Molti dei nostri pensieri sono dei veri e propri “virus” per la nostra vita; oltre che indurci al male, creano poi dolore, paure, sensi di colpa, angoscia: “Come sono arrivato a questo? Piacerò ancora? E se continuassi a sbagliare? Se deludessi ancora tutti? Sono un disastro! Non ho più futuro! Non sono capace a rialzarmi! Non cambierò mai! La mia vita è inutile!”.
Come potremmo vivere una nuova vita continuando a lasciarci dominare da questi tarli che ci rodono l’anima? È intraprendere una nuova vita che è difficile, oppure sono i nostri pensieri che la rendono tale? Perché se sono i nostri pensieri noi non saremo mai in pace con noi stessi, di qualunque genere siano le nostre decisioni, qualunque sia la nostra scelta di vita!
Allora perché dobbiamo proprio convertirci? Se questo ci procura tanto lavoro e sofferenza, perché dobbiamo proprio farlo? Il motivo è chiaro: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17). Ma cosa intende Matteo con il “regno dei cieli”? È un’espressione che troviamo soltanto nel suo Vangelo e indica semplicemente il “regno di Dio”. Un regno che non è fatto per dominare, sottomettere, conquistare, ma un regno in cui Gesù si prende cura dei più poveri, degli afflitti, dei miserabili, di coloro che hanno bisogno di tutto. Non è più un regno di questo mondo, dove il re di turno chiede, domanda, pretende, obbliga, impone leggi, sanzioni e tasse; ma è un regno specialissimo in cui Cristo, il Re, si offre, si dona, si prende cura.
E per servire, per attuare, per realizzare, per operare in questo regno, Gesù ha bisogno di collaboratori: ecco perché questo regno è “vicino” a noi: perché aspetta la nostra adesione, perche aspetta che anche noi ci mettiamo al suo servizio; e per farlo dobbiamo come condizione prioritaria ed essenziale abbandonare la nostra vecchia mentalità, e accogliere, rivestirci, della nuova mentalità di Cristo, descritta da Lui nelle beatitudini e nel suo Vangelo.
Per questo, mentre cammina “lungo il mare di Galilea”, visti due fratelli, due poveri pescatori, li chiama dicendo loro: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini”.
È interessante come Gesù per iniziare la sua comunità non vada in cerca di monaci come gli esseni, di persone pie come i farisei, di appartenenti al clero come i sacerdoti, di benestanti e potenti come i sadducei, e tanto meno di teologi come gli scribi, ma preferisca gente povera, normale. Sono gli umili che capiscono subito l’importanza della chiamata. Sono essi che accettano di slancio la difficile missione di offrirsi, di annunciare, di portare un messaggio di gioia, di vita e di speranza. “Venite dietro a me”, dice Gesù: Egli è il nostro riferimento, Lui va avanti e noi dietro: Lui ha bisogno di noi, noi dobbiamo seguirlo. Senza velleità di primeggiare, di ottenere riconoscimenti, ma solo dimostrandogli tutta la nostra disponibilità, la nostra buona volontà, la nostra “nuova” mentalità: perché solo così la nostra risposta al suo invito sarà sincera, leale, efficiente.
Dio ha stima di noi. Dio ha più fiducia in noi di noi stessi, perché ci conosce meglio di noi. Noi abbiamo paura, ma lui, al contrario, ha fiducia, ha stima di noi. Sa cosa possiamo fare. Conosce la grandezza a cui possiamo giungere, se ci manteniamo umili. Gesù infatti non dice: “Venite dietro di me e vi farò maestri di spiritualità, vi farò diventare santi, vi farò diventare asceti”. Ma semplicemente: “Venite dietro a me, vi farò capaci di togliere le persone dalla morte per ridare loro la vita”.
“Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”: la fede non è una produzione di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è andare. Dio ci chiama (chiamata) e noi siamo chiamati a rispondere (respondeo: da cui responsabilità!).
Il rapporto chi si instaura tra noi è immediato, sequenziale: c’è la Sua chiamata (vocatio, vocazione), un qualcosa che ci tocca, che ci interpella, che dice al nostro cuore: “Io voglio te, proprio te!” e c’è una nostra risposta vincolante; una risposta che, a vederla con la mentalità del mondo, è sicuramente una “pazzia”. Sì, perché la chiamata significa “andare”: significa avere fede incrollabile in Lui, lasciarsi coinvolgere, mettersi completamente in gioco, uscire dal proprio “ego”, dal proprio modo di pensare, dal nostro “egotismo”: è questa la “pazzia” dei santi.
Molte persone si chiedono: “Ma qual è in concreto la mia chiamata? Cosa devo fare nella vita per rispondere alla mia vocazione?”. Certo, è una domanda che dobbiamo sicuramente porci, è una fase di discernimento che dobbiamo affrontare: a condizione però che non sia un modo per sfuggire al nostro coinvolgimento, al procrastinare “sine die” un nostro impegno: aspettiamo la “grande” chiamata e intanto trascuriamo le “piccole” chiamate di ogni giorno.
Del resto per deciderci subito basta guardarsi attorno: quanto bisogno c’è di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto, più vero; quanto bisogno c’è di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro e l’approvazione umana; quanto bisogno c’è di persone che credano nell’uomo per costruire un mondo nuovo e diverso; quanto bisogno c’è di persone profonde che sappiano dialogare, senza indietreggiare di fronte alle contrarietà, senza scendere a compromessi con le nuove “culture”, con il pensiero laico dominante. C’è bisogno insomma di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di tanti fratelli che vivono vittime di dinamiche malsane e opprimenti.
Chi deve andare? Sono gli altri che devono muoversi? E noi? Purtroppo gran parte della gente, molto brava nell’arte dello “scaricabarile”, pensa sempre che tocchi a qualcun altro.
Ma è fin troppo comodo pensare che la chiamata di Dio, la vocazione, sia un fatto elitario, riservato soltanto ai preti e alle suore. Certamente quella è la “loro” chiamata: ma Dio non chiama solo alcuni, Dio chiama tutti.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato: è singolare, unica, personale, è vero; ma nel senso che ogni singola persona riceve la sua chiamata specifica, diversa dalle altre per modalità, per competenze e per ruoli. Ma ogni chiamata di Dio ha sempre una dimensione comunitaria, sociale.
Dio non è un qualcosa di privato, di esclusivo, da godere e vivere da soli nella nostra stanza, nel nostro cuore, isolandoci da tutti. Se ci riduciamo a vivere in questo modo, allora la nostra fede implode, diventa squilibrio, alienazione. Fede al contrario è agire, muoversi, andare; è azione verso i fratelli. Agire significa far emergere, portar fuori l’energia, il fuoco, la passione che abbiamo dentro, per vivere e far vivere in pieno la Vita; significa voler trasformare il mondo e la società, significa desiderio e impegno di lotta contro il male che ingabbia l’Amore: se la nostra fede non è così, abbiamo fallito il nostro mandato, la nostra vita rimane vuota, solo frivolezze e vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi noi cristiani) a portare il vangelo per il mondo: un vangelo che è all’opposto di ciò che pensa e vive il mondo. Perciò dobbiamo cambiarlo questo mondo, dobbiamo “convertirlo”, rinnovarlo, renderlo diverso, riportarlo a nuovo. Per questo siamo stati chiamati, per questo siamo stati scelti. Per questo, seguendo il nostro cuore, dobbiamo vivere la nostra “chiamata” con carità, compassione, tenerezza, elasticità, adattamento, sorriso, umanità. E soprattutto con fede: perché solo dimostrando con i fatti di vivere la nostra fede, di credere convintamente in Dio, potremo “convertire” anche gli altri. Amen.



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