giovedì 12 febbraio 2015

15 Febbraio 2015 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!» (Mc 1, 40-45).
Il vangelo di oggi ci riporta lo stupendo incontro tra Gesù e un lebbroso. Noi difficilmente riusciamo a capire oggi cosa volesse dire essere lebbrosi a quel tempo. In pratica erano dei morti viventi. E se per noi oggi è molto difficile contrarre questa malattia, tuttavia abbiamo molte probabilità di ritrovarci pienamente in quel lebbroso.
La lebbra è una malattia della pelle, e la pelle per noi è l’organo di relazione per eccellenza: ci mette cioè in contatto con l’esterno. Tutti noi sentiamo il bisogno naturale del contatto, dell’essere accarezzati, abbracciati, toccati. A volte ne abbiamo paura; a volte, per i fatti della vita, fuggiamo da qualunque vicinanza, ci dà fastidio; magari la evitiamo proprio perché ci ricorda esperienze amare, violente o sporche. Ma, nonostante ciò, noi tutti abbiamo il bisogno innato di essere avvicinati, toccati, accarezzati.
Il contatto ci rassicura. Quando qualcuno ci abbraccia ci sentiamo protetti: “Ci sono io, qui sei al sicuro, non aver paura”. I neonati, al loro affacciarsi alla vita, quando sono abbracciati, si sentono esattamente così: al sicuro, protetti; non hanno paure e non conoscono l’angoscia dell’ignoto. Ma quando ciò non avviene, un’ansia tremenda li invade e si sentono perduti: e piangono finché qualcuno non li riprende in braccio. Ebbene: noi siamo esattamente come i bambini. Quando stiamo male, un abbraccio silenzioso ci solleva più di tante parole, ci aiuta più di qualunque altra cosa. Anche il solo guardarsi negli occhi, può esprimere l’amore più di mille parole affettuose. Il darsi la mano, il tenersi per mano, ci esprime sicuramente l’interesse dell’altro nei nostri confronti, più qualunque sua rassicurazione vocale; un contatto, una vicinanza, ci rilassano, ci distendono, ci fanno sentire amati e accettati per quello che siamo, ci scaricano le tensioni: ci fanno ritrovare insomma il benessere, la piena armonia del corpo e dello spirito.
Eppure un tempo si diceva: “Il corpo è male; il corpo è peccato; state attenti, evitate di toccarvi!”. E ogni contatto sembrava essere una proposta sessuale. Ma allora perché Dio ci avrebbe dato un corpo, e lui stesso si sarebbe fatto corpo umano? Basta leggere il vangelo: quando la cultura di allora, molto più chiusa e moralista della nostra, proibiva addirittura di sfiorarsi in pubblico, Gesù non solo abbraccia le donne, accarezza i bambini, ma tocca anche i lebbrosi, le persone infette; tocca gli occhi dei ciechi, le orecchie dei sordi, prende per mano i paralizzati e impone le mani sulla loro testa. Egli stesso si lascia toccare dai lebbrosi, dai malati, dalle donne; anche dalle donne di assai dubbia moralità come quella che gli lava i piedi con le lacrime o quella che lo unge.
Ma il contatto è decisivo per un altro motivo. Quando uno ci tocca noi ci percepiamo, ci “sentiamo”. Abbiamo detto che quando una madre accarezza il figlio, senza fretta e con partecipazione, questi sente di esistere, di esserci, percepisce i propri limiti, i propri confini. L’esperienza ci dice infatti che se un bambino non è toccato, avrà grossi problemi di identità: non sa esattamente chi sia, non conosce i suoi confini, non sa distinguere tra sé e gli altri.
Quando in un clima di silenzio, di presenza, di consapevolezza, le persone si incontrano e si toccano, si sfiorano, o semplicemente si danno la mano, il contatto fa uscire tutto quello che c’è dentro: paura, traumi, dolori, sofferenze, ricordi, ecc. La mente talvolta può ingannare, ma il contatto no, non inganna mai, perché ripeto, il contatto ci “contatta”, ci mette in relazione con ciò che abbiamo dentro, con ciò che c’è dentro di noi. E questo può far paura, può far scappare, può procurarci un tremendo fastidio. In qualche modo noi stessi ci sentiamo sporchi, ci sentiamo da evitare, ci sentiamo “lebbrosi” come quello del vangelo.
Sì, perché la lebbra, oltre che una malattia personale, al tempo di Gesù, era una malattia sociale. Il lebbroso veniva escluso dalla comunità, doveva vivere fuori dal paese, lontano da tutti. Il lebbroso quando qualcuno gli si avvicinava doveva gridare: “Lebbroso, lebbroso” e suonare una campana per segnalare la sua presenza. Si credeva infatti che fosse una malattia contagiosa, trasmissibile. Non solo erano malati ma erano anche una vergogna sociale e non potevano essere toccati da nessuno.
Oggi, più comunemente, ci sono tante altre tipologie di lebbra: c’è la lebbra di quel giudizio tagliente e ingiusto da parte della gente, quell’etichetta che gli altri ci appiccicano addosso e noi non riusciamo più a togliere; c’è la lebbra di chi non si sopporta così com’è, non sopporta il proprio fisico, il proprio corpo, il proprio carattere, la propria vita; c’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra di chi non è sopportato dagli altri, di chi è escluso dal suo ambiente, di chi è messo in disparte nelle scelte lavorative, di chi è disprezzato, di chi è preso in giro, di chi è oggetto di scherno e viene umiliato per qualunque cosa; c’è la lebbra della vergogna, di quando si viene continuamente additati per degli errori commessi tanto tempo addietro; la lebbra di chi non perdona mai gli altri, di chi confessa da anni sempre lo stesso peccato senza mai pentirsi; di chi al contrario si trova colpevole sempre e di tutto; c’è la lebbra di chi si sente inferiore perché non ha avuto la possibilità di studiare, di fare carriera, di chi è convinto di non essere fisicamente bello, affascinante, attraente. Chi di noi non è affetto da qualcuna di queste forme di lebbra? Chi di noi può affermare in cuor suo di non assomigliare in qualche modo al lebbroso del vangelo di oggi?
Ma vediamo come si sono svolte le cose fra lui e Gesù. Prima di tutto sulla scena appare lui, il lebbroso, che si butta in ginocchio e lo supplica: “Se vuoi puoi guarirmi!”: egli sente che non può più continuare a vivere in questo modo, sente che da solo non potrà mai venirne fuori. Si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”.
Buttarsi in ginocchio equivale a smettere di resistere; piegare le ginocchia significa riconoscere di aver bisogno di qualcuno. Perché chi non si crede malato, non può guarire; chi si crede sano, non va dal medico. Il primo passo è pertanto: “Ho un problema, ho bisogno di una mano”.
Poi appare Gesù, il quale dimostra subito di provare nei suoi confronti qualcosa di forte ed intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco indica l’amore tipicamente al femminile, quello che ti tocca dentro, che ti “contorce le viscere”; le viscere, per gli antichi, sono il luogo dei sentimenti vulnerabili, come l’amore, la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Ora, quando un uomo arriva ad essere rifiutato da tutti, come prima cosa ha bisogno di sentirsi amato, di sentirsi accettato, accolto, di sapere che c’è qualcuno che non lo disprezza, qualcuno che non lo rifiuta, qualcuno che gli riserva quell’amore che salva: nient’altro. Perché solo quando ci sentiamo davvero amati, soltanto quando ci sentiamo stimati, ci rendiamo conto di avere un valore, di non essere dei miserabili, che la nostra vita vale veramente la pena di essere vissuta in pieno.
Gesù guarda quest’uomo, che tutti evitano e rifiutano, ma lo fa con occhi diversi: “Io credo in te; io so che in mezzo al tuo schifo c’è una perla, c’è una rosa, c’è qualcosa di grande. Sei così, in quanto deformato dal dolore della vita, ma io so e vedo la tua bellezza. Voglio che tu possa tornare a risplendere”.
Lo sanno bene i preti, gli educatori, gli psicologi, i maestri, gli insegnanti: se essi non credono sinceramente che l’alunno possa diventare migliore, questi non lo diventerà mai. Devono essere sicuri che lui riuscirà, che potrà migliorare, che potrà essere diverso da com’è. E se lui percepisce in loro questa sicurezza, è fatta. Se al contrario non rileva in loro alcuna certezza, nessuna fiducia, per lui non c’è alcuna possibilità.
Il sentimento di Gesù si trasforma quindi in azione: “Stese la mano”. Gesù lo ama, e il suo amore si fa azione, “lo tocca”. È il miracolo dell’amore.
Caliamoci per un istante nella realtà di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole tra i piedi, tutti gli stanno alla larga. Tutti dicono: “Sei ammalato perché sei un peccatore, non hai speranze, devi scontare!”; Gesù invece, il maestro, sfidando una religione per la quale anche solo toccare un lebbroso significava contrarre l’impurità, gli va incontro, lo tocca; stende le mani e lo abbraccia. È sufficiente questo gesto perché dentro di sé quest’uomo riconosca: “Ma allora non sono sbagliato completamente; allora anch’io posso essere amato; allora non faccio proprio schifo; allora posso vivere!”. Riconoscendo però la propria impurità, quasi si ritrae: “No, no, non farlo; sono un peccatore, faccio schifo, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non ho paura della tua malattia”. L’uomo tenta ancora di ritrarsi, ma Gesù lo trattiene tra le braccia e gli dice: “Lo voglio, guarisci”. Il testo greco per dire “guarire”, usa il verbo katarizo, che significa tornare puro, limpido, diventare puro come una sorgente. In altre parole: “Sii te stesso: sii puro, chiaro, schietto. Torna ad essere la sorgente limpida che eri quando Dio ti ha creato. Se getti via da te tutto il rancore, l’amarezza, la vergogna, il rifiuto che hai subito, torni ad essere te stesso”.
Ecco, questo è per Gesù il vero significato di guarire: è essere se stessi, tornare ad essere quella forma autentica, quell’idea originale che Dio, Vita, ha attuato creandoci, e che i fatti e le circostanze della nostra vita hanno deformato, alienato, distrutto. “Fare la volontà di Dio”, pertanto, altro non è che essere pienamente noi stessi. Le persone sono infelici perché non vivono la propria conformazione: vogliono essere qualcos’altro che non sono. Neppure sanno chi sono e cercano di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare ciò per cui siamo stati “pensati” da Dio. Se uno non vive la propria forma si sforma, si deforma.
Molti a questo punto si chiedono: “Cosa devo fare?”. Hanno purtroppo perso il senso della propria origine, del proprio essere. “Sono finito!”. Si sentono perduti, alla deriva. Ma se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di scendere dentro di noi, potremo vedere che c’è uno spiraglio, una piccola parte che non è deformata, che non è corrotta, distrutta.
È proprio così: la sorgente di luce che Dio ha posto in noi, può anche essersi spenta, offuscata, coperta, ma non si è distrutta. È come essere in una stanza al buio: non si vede nulla. Ma la luce c’è, basta accenderla. Basta fare contatto con la Sorgente e la luce tornerà a brillare.
Gesù dice: “Io lo voglio!” Ma noi? Lo vogliamo noi? È per questo che Gesù non poteva guarire tutti. A casa sua, nel suo paese, non guarì praticamente nessuno: erano diffidenti nei suoi confronti, non volevano. Dio non può niente se noi non lo vogliamo; mentre può tutto, se lo vogliamo anche noi. Potremmo dire: “Ma chi è quell’ammalato terminale che non vorrebbe guarire? Di sicuro tutti lo vorrebbero!”. Ma non è proprio così. Infatti guarire, come abbiamo visto, significa “diventare puri, immacolati, tornare ad essere limpidi, cristallini”; significa cioè portare luce nel nostro buio, eliminare l’impurità, le incrostazioni che tolgono la lucentezza. Ora, tutti dicono di voler guarire; ma non tutti sono disposti ad accettare le conseguenze della guarigione. Abbiamo acquisito una forma che non è la nostra, non siamo più noi; guarire vuol dire appunto eliminare questa forma fasulla di noi stessi, per tornare nella nostra autenticità, nella nostra originalità. Le persone vorrebbero certo guarire, ma senza cambiare le loro idee, i loro pensieri, le loro certezze, il loro modo di vivere: non essere pronti ad operare una radicale trasformazione, significa in pratica non voler guarire! Significa rinunciare a vivere, a guarire, a riemergere alla luce. Gesù è pronto: “Io lo voglio”, ci dice. E noi? Che aspettiamo? Amen.

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