giovedì 8 novembre 2007

11 novembre 2007 - XXXII Domenica del T.O.

Il Vivere da vivi
Levirato è una norma mosaica difficile da capire nella nostra sensibilità contemporanea. Talmente forte era il senso di appartenenza in Israele, che un cognato era tenuto a dare un figlio alla vedova del proprio fratello, se questi era morto senza lasciare discendenza. Il figlio nato dall'unione avrebbe preso il nome del defunto, garantendo una discendenza alla famiglia.
Questa norma, ancora praticata in ambienti ultraortodossi in Israele, dà l'occasione ai sadducei di mettere in difficoltà Gesù. L'occasione – che novità – è una discussione tra Gesù e i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice d'Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, di cui si parla nella prima lettura, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosé.
Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato pongono a Gesù un caso paradossale, la famosa storia della vedova "ammazzamariti". Il caso è ridicolo: una donna resta vedova sette volte, senza discendenza; una volta risorta, di chi sarà moglie? Gesù pone la riflessione su un piano diverso, invita gli uditori ad alzare lo sguardo da questa visione che proietta nell'oltre morte, di fatto, le ansie e le attese della vita terrena.
È una nuova dimensione quella che Gesù propone: la resurrezione, in cui Gesù crede, non è la continuazione dei rapporti terreni, ma una nuova dimensione, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), e ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
In settimana abbiamo celebrato la memoria dei nostri cari defunti, sovrapposta e confusa con la splendida e gioiosa Solennità dei Santi. Il nostro tempo tende a dimenticare e banalizzare la morte: ogni giorno ci vengono proposte decine di morti, vere o finte, dagli schermi televisivi ma, in realtà, riflettiamo sulla morte solo quando ci tocca sulla pelle. La Scrittura ha lungamente riflettuto sulla morte, giungendo alla dottrina dell'immortalità. Siamo stati creati immortali: il nostro corpo, da custodire e preservare, conserva una parte più spirituale, interiore, che i cristiani chiamano "anima". L'anima è la sorgente del pensiero, la custode dei sentimenti, la dimora della mia identità e diversità. L'anima sopravvive alla morte e raggiunge Dio, per presentarsi al suo cospetto.
Dio non ha che un desiderio: la nostra felicità, la nostra pienezza. Ma ci lascia liberi di scegliere. Questa vita, che ci è data per scoprire la nostra chiamata, per scovare il tesoro nascosto nel campo, può essere giocata nella consapevolezza e nell'amore di Dio, o nella dimenticanza. Di fronte a Dio, se vorremo, ci verrà dato un tempo per imparare ad amare, o verremo abbracciati e ricolmati dalla totalità di Dio o – Dio non voglia – lasciati liberi di rifiutare la luce. Al ritorno del Messia, alla pienezza dei tempi, ritroveremo i nostri corpi trasfigurati, che ora conserviamo con dignità in luoghi chiamati "dormitorio", in greco "cimiteri".
L'eternità è già iniziata, posso vivere e gioire di questa dignità, riconoscerla e svilupparla, o mortificarla sotto una coltre di polvere e preoccupazioni...
Il Dio di Gesù è il Dio dei viventi, non dei morti. Io credo nel Dio dei vivi? E io, sono vivo?
Credo nel Dio dei vivi se per me la fede è ricerca, non stanca abitudine, doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere, slancio e preghiera, non rito e superstizione. È vivo – Dio – se mi lascio incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, che, dopo il suo incontro con Cristo, ci dice che nulla è più come prima. Credo in un Dio vivo se accolgo la Parola (viva!) che mi sconquassa, m'interroga, mi dona risposte. Credo nel Dio dei vivi se ascolto quanti mi parlano (bene) di lui, quanti – per lui – amano.
Un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Io sono vivo (lo sono?) se ho imparato ad andare dentro, se non mi lascio ingannare dalle sirene che mi promettono ogni felicità se possiedo, appaio, recito, produco, guadagno, seduco eccetera, se so perdonare, se so cercare, se ho capito che questa vita ha un trucco da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della mia storia.
Vogliamo dunque anche noi diventare discepoli di un Dio vivo? Viviamo – finalmente – da vivi!
Oggi purtroppo non siamo aiutati a "credere nella vita eterna"; si va dietro all'immediato, al superficiale, si vuole evitare il pensiero salutare della morte, quando addirittura non la si banalizza. Si finisce poi tante volte per essere disperati di fronte alla morte delle persone care o alla propria morte; si finisce per essere anche causa di morte senza farsene troppi problemi.
Ora, pensare a queste cose non è per renderci tristi, ma per camminare sulla strada della gioia vera; uno che non ci pensa, non è più felice, è più sciocco (il vangelo dice stolto). E chi crede di andare chissà dove impostando la vita solo in senso materiale, non va da nessuna parte; si troverà con le mani vuote. La dottrina cristiana ci insegna che il pensiero della morte ci aiuta a costruire bene la vita e che l'attesa e la preparazione alla vita eterna, non solo non indebolisce ma addirittura intensifica l’impegno umano e cristiano nelle realtà terrene: basta pensare alle parabole della vigilanza, dei talenti, del giudizio finale. "Vieni servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo Signore, perché ho avuto fame e mi hai dato da mangiare". "Entra nella gioia del tuo Signore" è la grazia che chiediamo per i nostri defunti e anche per tutti noi, quando saremo chiamati ad essere sempre con il Signore. E allora capiremo che le "sofferenze della vita presente non sono paragonabili alla gloria della vita futura", "perché grande è la ricompensa nei cieli".

"La mia immortalità è indispensabile, perché Dio non commetterebbe iniquità e non spegnerebbe completamente il fuoco dell'amore dopo che questo si è acceso per lui nel mio cuore... Iniziai ad amarlo e mi sono rallegrato col suo amore. Sarà possibile che mi spenga e che la mia gioia si trasformi in niente? Se Dio esiste, anch'io sono immortale!" (Dostoevskij).

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