Essere guariti non significa essere salvati (Lc 17, 11-19).
Dei dieci lebbrosi, uno di loro è samaritano: la sofferenza li accomuna. Gli ebrei consideravano i vicini samaritani "cani bastardi" e come tali venivano trattati. Eppure qui tutti gridano ma, una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell'umana fragilità!): nove vanno al Tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un Tempio in cui essere accolto, corre dal Tempio della gloria di Dio che è Gesù.
I nove ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono "quando c'è bisogno", che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi) progetti.
I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati. Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore. Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi umanamente impossibili, non il Tempio dell’Amore in cui abitare; è il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo della vera salvezza. Che triste idea di Dio hanno questi lebbrosi! Una visione della fede superstiziosa e magica, che accusa Dio delle nostre malattie, che mette Dio alla sbarra, accusandolo. La malattia e la morte ricordano al nostro mondo contemporaneo, perso nel delirio di onnipotenza, che siamo creature fragili, che, come gli alberi e gli uccelli del cielo, viviamo la nostra vita come un soffio, che il nostro corpo è mortale. Ma il faggio e il passerotto, quando arriva l'autunno, accettano la propria condizione serenamente, sapendo di far parte di un immenso disegno d'amore e che la morte non è una condizione definitiva. L'uomo, invece, la rifiuta. La malattia può allora diventare, paradossalmente, la porta attraverso cui entriamo nel nostro ricco mondo interiore. Davanti alla sofferenza, come i due ladroni sulla croce, possiamo bestemmiare Dio accusandolo di indifferenza. O accorgerci che sta morendo accanto a noi. Cadere nella disperazione. O cadere ai piedi della croce. Basta la salute? Certo, la salute è bene prezioso, e va conservato, con uno stile di vita salubre ed armonioso, ricordandoci che la pace del cuore di chi incontra Dio e scopre il proprio progetto di vita, apporta anche benessere psicofisico profondo. Ma non è vero, non basta la salute, ci necessita la felicità. Gesù ci dice che la salute non è tutto, più della salute c'è la salvezza. Vi sono malati relativamente felici e pieni di Dio, e giovani in piena forma che si buttano via nella droga. La salvezza è un benessere più profondo, assoluto, uno scoprirsi al centro di un Progetto d'amore... La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all'uomo, eppure manifestati troppo poco nella nostra vita. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance. Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale e dovuto nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare... Il nostro sguardo, un po' assuefatto dalle troppe cose scontate e dovute, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come sarebbe bello veder uscire dalla chiesa - almeno ogni tanto! - qualcuno che torna a casa sua lodando Dio a gran voce... Come sarebbe bello vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio. Un sano esercizio alla lode dovrebbe essere insegnato ai giovani, non come pesante moralismo ("i giovani d'oggi hanno tutto"), ma come educazione allo stupore.
Andiamo tutti insieme, giovani e non, con fede dal Signore, per guarire da ogni lebbra, da ogni malattia del corpo e dello spirito.
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