giovedì 27 febbraio 2025

02 Marzo 2025 – VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 6,39-45 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

Anche questa domenica proseguiamo la lettura del “Discorso della pianura” di Luca.
Gesù continua a puntualizzare quella che deve essere la fisionomia del cristiano, cogliendo, molto bene, purtroppo, lo sbandamento tipico della società contemporanea, che ha definitivamente cancellato i fondamentali valori morali dell’uomo.
Quella contemporanea è infatti una società alla deriva, nella quale, cosa ancor più grave, i pastori, le guide, che dovrebbero contrastare tale situazione per mandato divino, sono invece cieche e mute, occupate in altre cose, e non offrono più alcuna sicurezza al gregge,
Lo sport più seguito dai cristiani di oggi, per esempio, non è tanto l’innocuo calcio, ma quello di criticare il prossimo, di screditarlo, più in privato, a mezza bocca, che apertamente, a ragione o a torto, senza alcuna discrezione e ogni buon senso.
Siamo tutti solerti nell’individuare “la pagliuzza” nell’occhio del vicino, e non ci accorgiamo delle travi che occludono i nostri occhi, impedendoci qualunque visuale corretta e serena.
“Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello!”, esclama Gesù.
Sono parole sacrosante, estremamente vere, realistiche, che ci mettono di fronte ai nostri errori personali, al nostro puntiglioso sminuirli, a giustificarli ad ogni costo, rifiutando ostinatamente di riconoscerli e di correggerli.
Siamo molto comprensivi e benevoli con noi stessi, mentre con gli errori degli altri siamo il più delle volte spietati, li trattiamo con ingiustificata durezza e severità. Basterebbe ascoltarci quando parliamo della gente, quando spariamo giudizi sulle persone, sui vicini, sui conoscenti, sui colleghi di lavoro, sugli amici…
È vero: in ogni famiglia, in ogni comunità ci sono dei problemi: ma niente ci autorizza a sentirci immuni da tutto, superiori e intoccabili, ad esprimerci come se le parole di Gesù riguardassero esclusivamente tutti gli “altri” e non soprattutto “noi”.
Ci comportiamo troppo spesso da immaturi e insicuri: sempre attenti a proteggere la nostra immagine, a far apparire il meglio di noi, per paura che gli altri vedano la realtà, spesso interiormente squallida! Impariamo invece a guardare “noi stessi” e gli altri, con gli occhi di Dio! Non è che dobbiamo ammutolirci di fronte a situazioni insostenibili! Anzi, dobbiamo esprimere il nostro parere, anche con la fermezza della vera carità, in particolare se le cose sono in stridente contrasto con gli insegnamenti del vangelo: anche in questo però dobbiamo prima di tutto cambiare il nostro criterio di riferimento, dobbiamo cioè guardare, giudicare persone e cose, con lo sguardo pieno di speranza e di carità del Padre che, nonostante tutto, fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi: siamo tutti peccatori, siamo tutti suoi figli: non serve a nulla voler apparire più belli e buoni di quanto siamo, anche davanti al Padre. Anzi, è sempre controproducente!
Una prima verità che possiamo infatti ricavare dal vangelo di oggi è che Uno solo può giudicare: è Lui, il nostro Padre che è nei cieli. Noi non ne abbiamo alcun titolo: infatti, chi più chi meno, siamo tutti “ciechi”, e nessun cieco può farsi guida di altri ciechi. Giudicare il prossimo equivale mettersi al posto di Dio.
E allora, come comportarci con le persone che sbagliano? Pretendere di correggerle ricorrendo alla nostra superiorità, all’autorità, al potere, è pura ipocrisia: spesso infatti, piuttosto di una correzione fraterna, esercitiamo sul malcapitato di turno una buona dose di superbia, di egoismo, e perché no, di una certa ben camuffata crudeltà.
Altro discorso invece è se la nostra correzione si basa sulla carità fraterna, sulla comprensione, sulla sincerità. È una soluzione che sicuramente aiuta noi e i nostri fratelli.
Noi infatti dobbiamo “vedere” prima di tutto il lato buono degli altri, per farne tesoro, e per cercare di imitarlo; soltanto dopo, il lato cattivo che va invece analizzato e corretto, immunizzandoci da sue possibili influenze su noi stessi. In questo modo il “correggere l’altro” si trasformerà, per quanto ci riguarda, in un sincero, onesto “riesame” delle nostre abitudini e dei nostri limiti
Se pensiamo di esercitare il dovere di “aiutare i fratelli”, conferitoci dal nostro battesimo, senza rifornirci prioritariamente di carità e amore, significa fallire in partenza: sarebbe come far viaggiare un carro zeppo di fragili vasi di terracotta: ad ogni scossone, sbattendo gli uni contro gli altri, finirebbero per ridursi in mille cocci.
È questa, purtroppo, la realtà con cui dobbiamo fare i conti, quotidianamente, all’interno delle nostre comunità. Per contrastarla opportunamente dobbiamo essere cristiani imbevuti di vangelo, dobbiamo cioè lasciarci forgiare dai suoi insegnamenti di Vita: in una parola dobbiamo avere continuamente il nostro cuore sintonizzato sul cuore di Dio: perché quando attingeremo dal tesoro buono del nostro cuore, traendone fuori il bene, quando sarà veramente la carità a guidare il delicato intervento di pulitura dalle pagliuzze l’occhio del prossimo, non ci sarà più spazio per alcun giudizio di condanna, di umiliazione, di prevaricazione. Sarà invece una “festa” di intensa carità, di luminosa speranza, di gloriosa risurrezione; sarà come offrire a Dio quel “culto a lui gradito”, attraverso il quale Lui stesso, attraverso i nostri cuori, continuerà a far germogliare nel mondo, pace, misericordia, amore, solidarietà, grazia, dignità, rispetto. Amen.

 

giovedì 20 febbraio 2025

23 Febbraio 2025 – VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 6,27-38 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gl'ingrati e i malvagi.  Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Siamo ancora nel “Discorso della pianura” di Luca: è l’importante discorso programmatico di Gesù sulle “beatitudini”, collocato da Luca appunto in quel “luogo pianeggiante” scelto da Gesù per parlare alla folla, una volta disceso dal monte su cui si era ritirato a pregare. 
Nel brano di oggi, che segue immediatamente quello di domenica scorsa, Gesù si spinge oltre, ponendo a quanti vogliono seguirlo, delle condizioni ancor più impegnative e difficili da praticare: amare, benedire, pregare, porgere l’altra faccia, donare, perdonare, non giudicare, ed altri verbi simili, richiedono effettivamente un comportamento “superiore”, un comportamento che, per la nostra mentalità tiepida ed egoistica, deve essere supportato da una dedizione cieca e assoluta, un eroismo, un particolare amore per la propria vocazione alla santità, un voler raggiungere quell’ascesi mistica che si specchia soltanto in Dio, sorgente di amore, di bontà e tenerezza.
Ma non è questo il pensiero di Gesù: per lui le azioni che raccomanda sono alla portata di tutti, indispensabili anche per chi vive semplicemente da buon cristiano, e segue gli insegnamenti del Signore, conducendo una vita normale.
Per questo le proposte del vangelo di oggi ci mettono in crisi profonda, perché nonostante ci suonino come un imperativo categorico, le leggiamo e rileggiamo senza neppur cercare di viverle veramente!
Abbiamo come l’impressione che siano dirette ad altri, forse più capaci, più buoni, più cristiani di noi. Per noi sono condizioni troppo difficili: ci vuole infatti una autentica padronanza di sé per arrivare ad amare i nemici, a benedire coloro che ci maledicono, a porgere l’altra guancia, a non riprenderci con gli interessi quello che ci è stato tolto...
Tuttavia, a guardar bene non è soltanto la nostra incapacità di accostarci con amore a chi ci fa del male; noi entriamo in crisi anche perché ci sentiamo colpevoli, sul banco degli imputati, in quanto ci rendiamo conto di essere degli ingrati approfittatori, non volendo usare verso il nostro prossimo, quella stessa condotta amorevole che Dio usa continuamente con noi. Le parole di Gesù di oggi, infatti, ci rivelano esattamente come Dio si è comportato e continua a comportarsi con noi.
Ed è proprio così: a noi sembra assurdo amare i nemici, eppure Lui ha continuato a rincorrerci quando Gli abbiamo girato le spalle; ha continuato a bussare alle nostre barriere, a tapparsi le orecchie alle nostre maledizioni, a sorridere ai nostri maltrattamenti, ad attendere pazientemente che sfogassimo la nostra rabbia sbattendogli la porta in faccia.
Non l’abbiamo mai trovato sordo alle nostre richieste, anzi, lui è stato ed è sempre pronto a donarci in abbondanza perdono, amore, accoglienza e comprensione.
È la storia di questa sua comprensione ad oltranza che ci sconcerta, ci confonde; e, mentre ammiriamo il Suo volto misericordioso, mentre ci rendiamo conto dell’amore con cui ci insegue, dobbiamo tornare in noi, dobbiamo tornare ad essere esattamente la Sua immagine, a fare tutto quello che ci dice. Non possiamo infatti continuare ad essere insensibili a tanto amore!
Allora capiamo che quella che prima ci sembrava un’assurda imposizione, è semplicemente la risposta logica e obbligata di quanti, come noi, hanno già beneficiato di tanto amore, di tanta pazienza e misericordia.
E finalmente la nostra storia personale cambierà: scopriremo la nostra vera identità di “guariti”, di persone cioè, che hanno recuperato gratuitamente, nel perdono e nell’amore di Dio, la loro forza, la loro dignità interiore. E così, guariti dalle nostre miserie, dalle nostre inimicizie, dalle nostre inutili paure, diventeremo anche noi “guaritori” della miseria e dell’inimicizia dei nostri fratelli.
C’è però chi soffoca ancora nelle sue paure. Paura di soffrire. Paura di pagare di persona. Paura di non essere ricompensato, capito, gratificato a dovere. Paura – in realtà - di andare oltre tutti i parametri, le aspettative, dettate dal suo piccolo “ego”. È un passaggio obbligato che talvolta dobbiamo nuovamente ripercorrere anche noi, quando ci perdiamo nelle nostre misere fragilità. E solo se scendiamo in profondità, possiamo andare oltre, ritornando noi stessi.
Perché solo se riascoltiamo con grande umiltà la Parola di Dio, solo se riaccogliamo nel nostro cuore la forza dello Spirito, ci sentiremo nuovamente rassicurati, capiremo di non aver nulla da temere.
Impariamo allora a chiedere perdono al nostro prossimo da subito, in casa, nel lavoro, nella vita sociale; e se subiamo un torto, consideriamolo come una grande occasione di poter disorientare con la bontà coloro che con noi si sono dimostrati meschini, di poter spiazzare con la mitezza i violenti, di poter fermare con la pazienza gli arroganti.
Allora capiremo perché S. Francesco sia arrivato a dire che perfetta letizia è quando veniamo offesi, quando veniamo provocatoriamente oltraggiati.
Sì, perché è l’offesa che ci offre la possibilità di amare senza alcuna ricompensa, senza nulla ricevere in cambio (“se amate solo quelli che vi amano, che merito ne avete?”); è l’offesa che ci offre l’occasione di perdonare come Dio ci perdona (“siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”).
E questo ci darà una grande gioia, perché capiremo finalmente cosa significa diventare una cosa sola con Lui. Amen.

 

giovedì 13 febbraio 2025

16 Febbraio 2025 – VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 6, 17.20-26 
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Al mattino, dopo una notte passata sul monte a pregare, Gesù chiama intorno a sé i discepoli che erano con lui, e ne sceglie dodici, ai quali dà il nome di apostoli. Insieme ad essi poi discende dal monte e viene subito circondato da una grande folla, sopraggiunta dal nord, dalle città di Tiro e Sidone, e dal sud, dalla Giudea e dalla città di Gerusalemme: una enorme folla composta soprattutto da persone sofferenti, malate, bisognose di aiuto, affamate. 
Di fronte a tanto dolore, Gesù prova una grande pietà: e alzando gli occhi al cielo, inizia a parlare, dichiarando che la sofferenza è il percorso più sicuro per entrare nel suo Regno.
Gesù come Mosè: è a lui che Luca sicuramente pensa nel descrivere questa scena: infatti come l’antico liberatore e legislatore di Israele sceso dal Sinai, consegna al suo popolo la legge, i dieci comandamenti, così anche Gesù, liberatore e consolatore dell’umanità, scende da un monte e consegna a quella folla di “poveri” la “sua” nuova legge, la legge delle beatitudini: “Beati voi poveri…, Beati voi affamati…, Beati voi che piangete…, perché vostro è il regno di Dio”.
“Povero”, in greco “ptòkos”, termine che traduce l’ebraico “anì”, non vuol dire come in italiano, essere sprovvisto di beni materiali; ma indica uno che è “ripiegato” in sé stesso, sottomesso, afflitto, provato, uno che ha perso ogni entusiasmo, un rinunciatario, uno che non ha più voglia di reagire alla sua situazione.
Tutta quella gente che circonda Gesù, è “povera”, vulnerabile, debole, è il popolo degli “anawim”, gli umiliati dalla vita, che sono accorsi in massa da Lui per ascoltare le sue parole di vita, convinti di poter finalmente “guarire”, anche solo ascoltandolo, toccandolo.
Gesù li capisce, riconosce la loro dignità di persone sofferenti, li conforta; e lancia un avviso singolare per tutti gli “anawim” della terra: con le sue beatitudini, egli rivaluta la loro situazione, tragica agli occhi del mondo, dicendo: “Nessuno potrà mai trovare la vera felicità, la beatitudine, la pace, la serenità del cuore se non è “povero” come voi: se cioè non vive come voi l’amarezza del pianto; se non prova e non accetta umilmente il dolore dell’emarginazione, la rassegnazione per essere stati privati di soluzioni straordinarie e vitali”.
Una prospettiva, questa di Gesù, decisamente incomprensibile per la mentalità del mondo, malata di egocentrismo, di quel “superomismo”, che nulla chiede, tutto pretende, e con la forza e l’astuzia tutto ottiene; che non cede mai alle disavventure, non si inchina al destino, non si abbassa a niente e a nessuno: una mentalità “vincente”, ma lontana anni luce dallo spirito delle beatitudini.
Ma attenzione: il senso delle beatitudini non è: “Si è felici soltanto se si piange, se si soffre, se si è poveri derelitti” ma “si è felici solo se, nonostante tutto, si cerca di partecipare alla Vita di Dio, di vivere sempre la vita come un suo dono, qualunque essa sia, nei suoi momenti esaltanti e in quelli di estremo dolore”.
Per fare ciò, ovviamente, il nostro cuore deve essere sempre aperto, sensibile, in sintonia con lo Spirito che ci inabita; perché se questo sincronismo si interrompe, se il nostro cuore diventa di pietra, se non proviamo più emozioni, se non sappiamo piangere, se non accogliamo positivamente le nostre sofferenze, ci sarà impossibile capire il senso della vita, tanto meno di viverla: ed è allora che diventeremo infelici, insoddisfatti, incattiviti. È allora che ci chiuderemo nel nostro rancore, ignorando e rifiutando Dio.
“Elohim”, in ebraico, è uno dei nomi di Dio: ma “Elohim” è anche l’uomo che diventa “divino”, che si “divinizza”, che fa di tutto per ridiventare immagine di Dio, capolavoro del creatore, come ci dice la Genesi all’inizio della Bibbia. “Elohim” allora è il nostro distintivo, è ciò che siamo in profondità, nella nostra essenza, nella nostra anima, è quel soffio divino di Dio, che ci ha dato vita, che ci ha fatto aprire gli occhi per ammirare e vivere le meraviglie del suo creato.
L’uomo, creatura di Dio, è un amalgama di terra e di Spirito: scopo della vita è di spogliarsi della sua fragilità di creatura provvisoria, per raggiungere nuovamente la sua originaria immortale, divina, dignità.
Invece cosa ha fatto Adamo? Ha tradito il suo compito, il suo essere, il suo nome, la sua missione; ha voluto essere immediatamente Dio, “da subito”, magicamente. Ha voluto saltare il cammino doloroso e faticoso della vita: ma questo non si può fare, dice la Bibbia, non è possibile. Perché l’uomo che vuole evitare il suo cammino evolutivo, fatto di passione, di sofferenze, di lotte, di dolore, irrimediabilmente “si perde” nel peccato, nella superbia, nella ribellione, nell’egoismo: si condanna cioè ad una vita squallida, ad un cammino di morte, di sangue, di alienazione.
Lo stato di felicità eterna, di autentica beatitudine, è commisurato al grado di adesione alla volontà di Dio, con cui l’uomo conduce la sua vita su questa terra. Solo se antepone questa sua unione col divino, davanti a tutto e a tutti, il suo sarà un cammino di felicità, di beatitudine, una costante condivisione, già su questa terra, della bontà e dell’amore del Padre.
Purtroppo noi moderni nutriamo nell’immediato, altre aspirazioni: facciamo dipendere la nostra felicità esclusivamente dal raggiungimento egoistico dei continui traguardi che ci poniamo: “Quando avrò ottenuto quella cosa, quando avrò raggiunto quell’obiettivo, quando sarò ricco, allora sicuramente sarò felice!”. Ci illudiamo che la felicità consista nella ricchezza, nel benessere, nel potere: e pur di raggiungere questi status symbols, spendiamo tutto, il meglio di noi stessi: il nostro cuore, la nostra anima, ipotechiamo le cose più belle della vita, sacrifichiamo tempo, famiglia, amicizie, relazioni, intimità.
Solo che una volta raggiunto il nostro sogno, ci attende un’amara sorpresa: non ci basta più, c’è dell’altro; davanti a noi si impone un nuovo traguardo, ancor più attraente, più indispensabile, più importante: e la corsa riparte, nell’affanno, nella frustrazione di continui fallimenti, obbligandoci ad un vivere alienante che non approderà mai ad alcun porto sicuro e definitivo.
Purtroppo siamo schiavi del consumismo: consumiamo tutto, non solo le cose, ma anche le emozioni. Abbiamo bisogno di emozioni sempre più forti, intense, perché ormai siamo completamente insensibili, corazzati, mascherati, impossibilitati a percepire la bellezza di quelle emozioni spirituali, sicuramente meno forti, meno violente, ma che lasciano un segno indelebile, permanente, duraturo, di beatitudine interiore.
Tutti noi dobbiamo misurarci con due realtà dentro di noi in continua lotta: l’uomo materiale e quello spirituale. Per il primo, la felicità è raggiungere, possedere, conquistare, correre, avere; per il secondo, l’uomo delle beatitudini, la felicità è fermarsi, gustare, percepire, condividere, vivere. Per il primo, la vita è una linea retta: è andare sempre avanti, raggiungere, conquistare nuovi, innumerevoli traguardi. Per il secondo la vita è una spirale concentrica: è tornare continuamente in sé stesso per attingere vigore dallo Spirito e metterlo a disposizione degli altri.
Felicità, beatitudine, in ebraico è “ascèr”, che significa “progredire, continuare, ripetere”: allora, la gioia che proviamo nel vivere quaggiù lo spirito delle beatitudini, non deve essere un punto di arrivo, ma una spinta a proseguire, ad andare sempre avanti per quella strada maestra segnata da Gesù; strada che ci porterà al traguardo finale della felicità eterna, la “beatitudine” totale, nell’Amore del Padre. Amen.

 

giovedì 6 febbraio 2025

09 Febbraio 2025 – V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 5,1-11 
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Genesaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Luca, nel vangelo di oggi, ci racconta la chiamata dei primi quattro discepoli: sono Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, due coppie di fratelli, tutti pescatori. Il testo però si concentra soprattutto sulla figura di Pietro. 
Ci troviamo presso il lago di Genesaret. Ora, nei vangeli, il simbolismo del “lago” viene collegato molto spesso a particolari situazioni della vita : oltre ai fenomeni di tempesta improvvisa, di cambiamento radicale, di rovesciamento della situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), la sua superficie in genere sempre liscia, immobile, tranquilla, rende molto bene anche un certo stile di vita talvolta monotona, nostra e in questo caso dei discepoli, che prima di incontrare Gesù conducevano appunto le giornate sempre uguali, sempre con le stesse cose da fare, senza sussulti, completamente piatte, come appunto sono in genere le acque del lago. Un’esistenza insomma che, per alcuni aspetti, si adatta molto bene anche alla nostra vita spirituale: non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, anzi qualche volta dimostriamo quella calma piatta, durante la quale permettiamo anche noi a Gesù di servirsi della nostra “barca”. Pensiamo di essere autosufficienti, di stare bene così come siamo, convinti che la vita sia tutta in quel “nulla” che facciamo. Pensiamo che il nostro sia l’unico modo di vivere; ma siamo ancora molto lontani, purtroppo, dall’immaginare quanto sia più soddisfacente, più esaltante, uscire in barca con Lui al timone! Forse abbiamo anche provato, ma abbiamo capito ben poco di quanto ci diceva, anzi proprio nulla!
Val la pena allora di chiederci: Ma noi, che abbiamo aderito alla chiamata di Gesù, ci impegniamo seriamente nel nostro “gettare le reti”? C’è fuoco, c’è passione nel nostro darci da fare? C’è sole nei nostri occhi, calore e amore nel nostro cuore? C’è sufficiente “luce” ed entusiasmo in quel che facciamo? “Maestro abbiamo provato tutta la notte e non abbiamo pescato nulla”. Già, come dire: “Caro Gesù, ci siamo occupati di tantissime cose, abbiamo fatto qualunque esperienza possibile, abbiamo provato con infinite tecniche, abbiamo sondato ogni metro del nostro tempo, ma ci ritroviamo sempre a mani vuote; quando tiriamo le reti in barca, troviamo ogni volta ben poco, nulla”.
Il nostro problema, però, sta nel fatto che se continuiamo a fare le cose con superficialità, a “pescare” senza impegno, ad interessarci di cose inutili, è decisamente difficile combinare qualcosa di buono: in quel modo, è addirittura impossibile!
Sulle rive del lago, dunque, gli apostoli stanno lavando le reti, forse afflitti anch’essi dai nostri stessi problemi: ma non appena essi sentono la voce di Gesù, il loro cuore inizia a vibrare; sentono che le sue parole risvegliano emozioni fino ad allora “sconosciute”, emozioni che infondono un vigore mai provato prima, che fanno guardare il mondo in una nuova luce; sentono che Egli indica nuove possibilità, che spinge ad osare nella vita.
Gesù parla a tutti, si fa sentire con la stessa sollecitudine, con la stessa disponibilità: ha parlato ai “pescatori” di allora, parla a noi oggi, parlerà in futuro a quanti si fermeranno un istante per ascoltarlo.
Ma noi, a differenza dei primi chiamati, come reagiamo? cosa gli diciamo? Il nostro cuore non vibra, non si entusiasma alla sua voce? Sembra proprio di no: indifferenti, continuiamo a rimandare qualunque decisione, qualunque iniziativa! Eppure prima o poi dovremo deciderci: la sua chiamata è chiara, la barca è pronta, le reti anche. Non abbiamo più giustificazioni: sciogliamo gli ormeggi e prendiamo il largo. È arrivato anche per noi il momento di rischiare, di osare, di andare. “Ma che ne sarà di noi? Che succederà? Ce la faremo? Soffriremo? E se poi ci sbagliassimo?”. Dobbiamo muoverci, dobbiamo aver fiducia in Lui. Certo, se ascoltiamo la paura, se preferiamo starcene sdraiati sul bagnasciuga, senza far nulla, non prenderemo mai il largo.
Seguire Gesù non vuol dire conoscere alla lettera tutto ciò che lui ha detto: è sufficiente amarlo e credere fermamente in Lui: non lo seguiamo perché conosciamo perfettamente le Scritture, ma perché ci siamo innamorati di Lui, perché sappiamo che con Lui potremo sicuramente diventare migliori.
Le proposte di Gesù sono sempre mirate, di grande respiro, di larghe e profonde visioni: ci permette sempre di scegliere, a condizione che poi ci mettiamo seriamente in gioco.
Ogni sua chiamata, si articola sempre, come quella del vangelo di oggi, in due momenti, in due richieste semplici e chiare, ma insieme decise e autoritarie.
La prima è: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “esci fuori dalla tua normalità, allontanati dal tuo modello di vita, dal tuo modo di pensare, di agire, lascia tutto ed entra nella Vita vera!”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “È possibile”. Domande e dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, dobbiamo avere il coraggio di ascoltarlo e di seguirlo, succeda quel che deve succedere.
Quando il padrone della Vita bussa al nostro cuore, non possiamo negargli una risposta: perché nessun altro mai potrà sostituirci, nessun altro mai potrà farlo al posto nostro.
Sono molti invece i paurosi che dicono: “Sarebbe bello, ma non ci riesco, è troppo difficile, va troppo oltre le mie possibilità, non fa per me”. Quando invece sarebbe più onesto ammettere: “Ho paura; non mi va; sto bene così come sto; mi basta; è più comodo per me non fare nulla; io non sono un eroe!”.
Ma di che stiamo parlando? Che cosa ci basta? Di che cosa ci accontentiamo? Di sprecare il nostro tempo senza far nulla? Di vivacchiare con le solite compagnie, che ormai non ci offrono più nulla? “Prendi il largo!”. Ci accontentiamo di frequentare sempre i soliti ambienti, i soliti ritrovi, di ascoltare gli esaltati di turno che straparlano insensatamente di politica, di donne, di sport, di soldi, di lavoro? “Prendi il largo!”. Non ci capita mai alla sera di provare disgusto per tutte quelle nostre giornate senza senso, di sentire dentro di noi un bisogno profondo di verità, di assoluto, di scoprire e di conoscere il vero “perché” del nostro esistere? “Prendi il largo!”. Non succede mai di sentirci arrabbiati, insofferenti, stanchi di dare risposte inconsistenti, preconfezionate, utilitaristiche, di comodo? “Prendi il largo!” ci ordina la voce suadente, insistente, promettente di Dio.
La seconda richiesta è: “Getta le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai fino in fondo; entra dentro il mistero di Dio, il mistero dell’Amore, della Vita”. Non possiamo infatti entrare in contatto con Dio stando in superficie, all’esterno, fuori dall’acqua; al contrario dobbiamo vivere immersi costantemente nelle acque vitali e salvifiche del nostro battesimo. Ci sentiamo figli di Dio? “Certo che sì!”, rispondiamo immediatamente. Ma che importanza, che valore diamo a questo “si”? Perché detto a parole non risolveremo mai il nostro problema: una semplice risposta non ci cambia la vita; servono i fatti, serve l’impegno, servono le opere: “Getta le reti!”. Siamo consapevoli di avere nella nostra vita una missione da compiere, ma non sappiamo cosa esattamente Dio si aspetti da noi? Dobbiamo scoprirlo! Ma per farlo dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). Ma come si fa? “Getta le reti!”. Questo è l’unico modo, non c’è altra possibilità.
Quando Pietro si rende conto di come può vivere con Gesù (la rete che tira su è piena, stracolma di pesci!), è preso dal panico, una paura folle lo assale: “Allontanati da me, sono peccatore!”. Cosa vuol dire Pietro con queste parole? Per quale motivo vuol allontanare Gesù? Prima di tutto perché non si sente degno: è in preda allo sgomento, non si sente pronto, non si sente all’altezza, è quasi atterrito, non crede a tanta imprevista e imprevedibile fortuna. Poi capisce, e sente il rimorso mordergli l’anima per aver sprecato tanta parte della sua vita. Una delle sensazioni più amare che tutti possiamo sperimentare è di svegliarci a quaranta, cinquanta, sessant’anni, e constatare improvvisamente quanto sia inebriante, meraviglioso, sublime, vivere con Dio; e allora, guardandoci alle spalle, sentiremo anche noi la rovente amarezza di aver sprecato una vita! “Dio, quanto sono stato stolto! Chiamavo vivere ciò che in realtà era solo vegetare”. Allora capiremo di aver vissuto un tragico “bluff”, un tremendo fallimento, un peccato di ostinata omissione. “Peccato”, in ebraico, significa “mancare il bersaglio”: ebbene, nella nostra vita non abbiamo “fatto centro”, lo stile che abbiamo scelto non era quello giusto, quello vero, autentico. Il nostro peccato è stato di uscire in mare tutte le notti, senza mai prendere nulla. Ci mancava qualcosa di fondamentale, e abbiamo sprecato il nostro tempo.
Signore, le tue, sono parole di vita eterna”: è vero, la tua luce ha illuminato la nostra mente e risvegliato il nostro cuore: ora finalmente tutto ci è chiaro, ora abbiamo capito i “perché” della nostra vita: perché vogliamo seguirti; perché abbiamo deciso di lasciare tutto, perché vogliamo vivere con Te e per Te: e, infine perché, sulla tua Parola, vogliamo anche noi gettare le reti. Amen.

 

giovedì 30 gennaio 2025

02 Febbraio 2025 – PRESENTAZIONE DEL SIGNORE


Lc 2,22-40 
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuéle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

Il popolo ebraico era vincolato, riguardo ai neonati, da due tra le più antiche prescrizioni della legge: la purificazione della madre (Lv 12) e il riscatto del figlio primogenito (Es 13,1-2). La prima prescriveva che, dopo la nascita del bambino, la madre, trovandosi in uno stato di impurità, non poteva toccare alcuna “cosa santa” né entrare nel santuario. Solo dopo i quaranta giorni previsti dalla legge, la coppia saliva al tempio per consentire alla donna di purificarsi, offrendo in sacrificio a Dio, un agnello oppure un colombo o una tortora. 
Fatto questo, i genitori dovevano “riscattare”, se primogenito, il loro bambino, poiché fin dalla nascita egli era di “proprietà” esclusiva di Dio.
Maria e Giuseppe dunque, pur con tutto quello che in precedenza avevano visto e vissuto nel loro cuore, adempiono fedelmente quanto previsto dalla loro Legge religiosa: ed essendo poveri, e non potendo offrire un agnello, portano con sé soltanto un paio di tortore.
Finita però la prima parte del rito, appare improvvisamente sulla scena un personaggio strano: un certo Simeone, un uomo che Luca definisce “giusto e timorato di Dio”, uno che era abitato dallo Spirito santo; quindi doveva essere un profeta che abitava nel tempio, non un sacerdote, poiché di essi nessun testo dice che avessero un rapporto con lo Spirito Santo; Simeone non è quindi un uomo addetto al culto, ma un sapiente della Vita.
I “genitori” di Gesù, per riscattare il loro primogenito, cercavano un uomo della Legge; incontrano invece un uomo dello Spirito di Dio, le cui parole non contengono alcuna prescrizione o regola, ma al contrario sono parole piene di vita.
Per questo Maria e Giuseppe rimangono ancor più impressionati: già i pastori avevano parlato di un “salvatore” (Lc 2,18), già l’angelo aveva annunciato a Maria che il suo sarebbe stato il Figlio dell’Altissimo (1,32); adesso quest’uomo lo definisce “luce nata per illuminare le nazioni”, con un compito tremendo: sarà “segno di contraddizione, rovina, e resurrezione per molti in Israele”.
Sono andati al tempio per incontrare un sacerdote che purificasse la madre, invece trovano quest’uomo che annuncia a gran voce che il loro bambino ha la missione di “purificare” Israele.
Gesù cioè sarà per molti la “pietra d’angolo”, la pietra su cui costruire, su cui piantare le basi della propria vita; mentre per molti altri sarà “pietra di scandalo”, ossia la pietra contro cui inciamperanno le loro infedeltà, la pietra che li farà cadere a causa dell’arroganza delle loro scelte di vita.
Seguire Gesù, dunque, non si prospetta come una cosa semplice, indolore. La sua non è una strada piana, dritta, ombreggiata, con fontanelle d’acqua e panchine dove riposare, un cammino pieno di “vogliamoci bene” e di “amiamoci tutti”. Gesù ci mette al contrario davanti a scelte difficili, a bivi oscuri, a cadute e rotture frequenti, a verità dure da accettare, destinate a trasformare radicalmente la nostra vita; ci mette di fronte a noi stessi, alla nostra coscienza, alle nostre responsabilità, alle quali non possiamo sfuggire. Non ci lascia sonnecchiare tranquilli; il suo è un cammino continuo di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento: è per questo che il suo Vangelo è Vita per alcuni, morte per altri.
Simeone predice tutto questo a Maria, le preannuncia sofferenze tremende; anche se non le chiarisce il motivo, le conferma comunque la terribile conseguenza; e lei ascolta, serenamente aperta al suo futuro; accetta umilmente le parole di Simeone, anche se non capisce cosa volesse veramente dirle, e conserva “tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”.
Pur non capendo, è sempre disponibile ad accogliere il messaggio di Dio, aderendo in tutto e per tutto alla sua volontà.
Maria non arriverà a capire neppure suo figlio; però lo seguirà sempre e comunque, con trepidazione, con semplicità, con discrezione, con assoluta fiducia.
In questo sta il grande “merito” di Maria: di passare volontariamente e silenziosamente dal ruolo di madre a quello di discepola.
L’intimità nata a seguito di questo nuovo rapporto con suo Figlio, le offre una unione ancor più intima con Lui, una sintonia perfetta e inattaccabile con il Suo cuore e con il suo sentire. Sarà infatti questo legame, questo suo ruolo di madre e discepola, vissuto concretamente nel suo cuore, che le consentirà di seguire Gesù fino in fondo, fino ai piedi della croce, sul Golgota.
La spada che trafiggerà Maria non sono le sofferenze naturali di una madre nei confronti di suo figlio: preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada tagliente per Maria è stata capire che era più importante seguire suo Figlio come discepola che come madre, dover cioè rinunciare a quel legame di sangue, unico, profondo, indissolubile, che unisce la madre al proprio figlio. Maria, per seguire Gesù, ha dovuto spogliarsi completamente del suo privilegio di madre.
Questo era quanto intendeva dirle Simeone, il giorno della “presentazione” di Gesù al Tempio.
Ma a noi, cosa dice questa ricorrenza? Cosa significa, per noi oggi, “presentazione al tempio”? Beh, sicuramente significa “offrire” i nostri figli a Dio; ma non basta farlo una volta sola, all'inizio della loro vita, col battesimo; bisogna poi continuare a seguirli, educandoli nella fede. Bisogna crescerli nella fede. Bisogna irrobustirli nella fede. Perché i genitori sono i primi evangelizzatori dei propri figli: non tanto con raccomandazioni e prediche noiose e ripetitive, ma con l’esempio, con le piccole attenzioni, inculcando loro le virtù cristiane, rispondendo alle loro domande, vivendo loro stessi una vita coerente con la loro fede.
Presentare i figli al Signore, significa anche accettare che crescano fedeli a Dio ma nella libertà delle loro scelte, magari attraversando anche dei naturali periodi di allontanamento e di crisi.
Uno santo prete diceva: “Quando non si può più parlare ai figli di Dio, è il momento di “parlare” a Dio dei figli, cioè di pregare in continuazione per loro”.
Quella di oggi, poi, è una festa che ci ricorda di mettere in conto, di accettare anche noi, con lo stesso spirito di Maria, le trafitture della famosa “spada”: perché, lo sappiamo bene, “servire” Cristo alla luce del suo Vangelo, con una vita generosa e fedele, richiede scelte talvolta dolorose, inevitabili, che possono ferire profondamente il cuore e l’anima; ferite che sono comunque necessarie per crescere, maturare, progredire.
Oggi il mondo non sa più che Gesù è veramente la Luce di Dio, la sola che può illuminarci con la sua verità pura e santa. E non lo sa perché i cristiani, nonostante siano stati costituiti profeti di Cristo nel Battesimo e suoi testimoni “illuminati” nella Cresima, oggi sono indifferenti, insensibili, con Dio; preferiscono ignorare la sua presenza, tacere, sono diventati tutti ottusi, ignoranti. Anzi, spesso prestano la loro voce al quel coro di esaltati, mentalmente obnubilati, che deridono i suoi doni di verità, di giustizia, di grazia e redenzione, indispensabili per la propria santificazione, per meritare la vita eterna. Amen.

 

giovedì 23 gennaio 2025

26 Gennaio 2025 – III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Vangelo Lc 1,1-4; 4,14-21 
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. 
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo nel Giordano, dopo aver pregato a lungo in solitudine nel deserto, inizia la sua missione pastorale per le strade della Galilea.
Un giorno si trova a passare anche per la sua città di Nazareth, ed essendo di sabato, entra nella sinagoga. E Luca aggiunge: “secondo il suo solito”; un’annotazione che ci conferma appunto l’abitudine di Gesù di frequentare tutti i sabati la sinagoga, come facevano gli ebrei osservanti del suo tempo. A differenza loro, però, Egli non va per assistere passivamente ad una cerimonia; ma va come maestro, per insegnare e spiegare i testi sacri, imponendosi nell’annuncio del suo vangelo: un comportamento autorevole che ovviamente gli procura all’istante critiche invidiose, proprio da parte di quegli ebrei osservanti, che per la loro partecipazione al culto, passavano come persone religiose, devote, pie, timorate di Dio.
Nei confronti di Gesù si viene pertanto a creare un atteggiamento paradossale di rifiuto, di irritazione, di sospetto, di odio: un clima di insofferenza decisamente ostile, soprattutto da parte delle autorità religiose, degli scribi, dei dottori della legge, con i quali Gesù è costretto a misurarsi per il resto della sua vita terrena; in pratica, quando parla a quelli che sono lontani, ai peccatori, ai delinquenti, alla feccia della società, ai derelitti, ai malati, ai bisognosi di aiuto, tutti lo ascoltano devotamente e fanno ritorno alle loro case carichi di ammirazione, di consolazione, di buoni propositi; quando invece sono presenti tra la folla gli operatori del sacro, gli addetti ai lavori, le autorità religiose, immancabilmente cercano di contraddirlo, di metterlo in difficoltà, di farlo fuori, di ucciderlo.
I luoghi sacri, le sinagoghe, i capi religiosi, sono per assurdo gli elementi più pericolosi per Gesù: i Vangeli ci riportano in questo senso ben tre episodi avvenuti in sinagoga: nel primo lo interrompono malamente (Mc 1,21); nel secondo decidono con i pretoriani di assassinarlo e nel terzo tentano di mettere in atto il loro proposito (Mc 3,1; Lc 4,16-30). È inoltre nella zona del Tempio, direttamente nella “Casa di Dio” per eccellenza, che Gesù rischia il peggio: per esempio Giovanni nel suo vangelo usa 12 volte il verbo “uccidere” (apoktèino), e 8 volte il verbo “arrestare” (piàzo); ebbene, la metà delle volte, lo fa proprio quando Gesù si trova all’interno o nei pressi del Tempio: sembra incredibile che i custodi della zona più sacra e religiosa, proprio in quel luogo consacrato a Dio, in nome di Dio, cerchino di uccidere il figlio stesso di Dio. Ciò succede, purtroppo, perché spesso i ministri di Dio di ogni tempo, pur ostentando pubblicamente adorazione, pietà e familiarità con Lui, in realtà non lo conoscono, non credono in Lui; sono soltanto dei mestieranti del sacro, resi progressivamente insensibili e duri di cuore dall’abitudine, ministri che hanno perso la loro fede e si sono allontanati da Dio, o che forse non hanno mai sperimentato veramente Dio, non l’hanno mai amato sinceramente, poiché il loro cuore è sempre stato affascinato da altro.
Ma torniamo al testo: “gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui” (Lc 4,20).
La sinagoga è piena di gente: un evento eccezionale dovuto sicuramente alla presenza di Gesù, tenuto conto che il più delle volte, non si raggiungeva neppure il numero “legale” di dieci maschi adulti, il cosiddetto minyàn, per cui il rabbino, per rendere valida la liturgia, era costretto a convocare le persone  a pagamento.
Se dunque inizialmente tutti dimostrano di essere soddisfatti ed entusiasti per la presenza di Gesù, come mai, poco dopo, si rivelano così irritati da pensare addirittura di ucciderlo? Semplice: Egli, ignorando il rabbino, si pone spontaneamente alla guida della celebrazione, prende in mano il Rotolo di Isaia e invece di leggere il passo previsto per quel sabato, cerca, (eurisko) quello che Lui ha deciso di commentare; questo indispettisce gli ascoltatori, sia perché le regole liturgiche erano ferree e sacre, sia soprattutto per l’argomento da lui scelto: un passaggio del capitolo 61 di Isaia che parla dell’investitura dell’unto dal Signore (il Messia).
Gesù infatti inizia a leggere: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio… e predicare un anno di grazia del Signore”.
E qui si ferma. Il suo scopo, nel commentare queste parole, è quello ovviamente di presentare se stesso, la sua missione: “Io sono qui esattamente per questo; Dio mi ha mandato per annunciare ai “poveri” la “lieta notizia”, il vangelo, per ridare all’umanità l’antica dignità perduta: e fin qui, nulla in contraddizione con le aspettative messianiche: Egli infatti non è venuto per formare un gruppo di preghiera, un movimento carismatico, un partito religioso, ma per togliere dal cuore degli uomini la povertà di amore, il vuoto dell’assenza di Dio, per redimere l’umanità, per restituirle ciò che da troppo tempo le mancava.
A questo punto, però il testo di Isaia continua dicendo: “per annunciare il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti di Sion” (Is 61,2): attraverso il Messia, cioè, Dio avrebbe vendicato con la sua potenza tutti i soprusi e le violenze sofferte dal popolo. Solo che Gesù questo versetto non lo legge; e ciò fa esplodere il malcontento dei presenti.
Noi che, a posteriori, non siamo interessati al riferimento politico di questo testo, difficilmente riusciamo a capire tanta ribellione in una sinagoga, al punto da indurre i presenti a cercare nei pretoriani i complici per uccidere Gesù.
“Cosa avrà mai fatto di tanto sconveniente?”. Decisamente non capiamo. Dobbiamo sapere però che Nazaret si trova in Galilea. E gli abitanti della Galilea, all’epoca, erano dei nazionalisti fanatici e violenti. In quella regione al popolo bastava poco per sollevare rappresaglie contro il potere romano oppressore, invocando appunto la prossima venuta del Messia. Per cui, nella lettura sinagogale del testo di Isaia, tutti si aspettano quella parte che annuncia la venuta del Messia per liberare il popolo dalla schiavitù e la vittoria finale sui nemici oppressori.
Gesù però, come dice il vangelo, termina improvvisamente il suo intervento, riavvolge il rotolo, lo consegna all’inserviente e si siede.
Solo così diventa comprensibile lo sconcerto tra i presenti: una lettura della Bibbia, fatta in questo modo, per loro è mutilata, blasfema, sacrilega, irriverente. “Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui” (Lc 4,20).
Nell’aria si respira, oltre alla delusione, una tensione incredibile: il comportamento e le parole di Gesù, non sono in linea con le loro attese, con le attese della tradizione, con le attese dei capi religiosi: è un pazzo! La figura del Messia che Lui propone è inaccettabile: Il Messia, il Salvatore, l’Unto, che essi aspettano, è di tutt’altra levatura, di tutt’altro carisma: “solo un mentecatto come costui può definirsi il Messia; mettiamolo a tacere!”.
E nel vangelo di domenica prossima sentiremo come andrà a finire.
Questa in sintesi è la ricostruzione di quanto e accaduto quel sabato nella sinagoga di Nazareth.
Due cose però vanno evidenziate nel comportamento di Gesù: due particolari sui quali noi, suoi discepoli di oggi, dobbiamo fermare la nostra attenzione.
Prima di tutto la convinzione ferma e incrollabile della sua identità: Gesù è certo di essere Lui il Messia, l’Inviato dal Padre: una certezza, una convinzione, che dobbiamo tutti condividere, perché noi tutti siamo in qualche modo degli inviati da Dio, delle persone scelte e chiamate da Lui per continuare su questa terra la sua missione. Dobbiamo credere fermamente in questo, dobbiamo esserne convinti, perché la fiducia in Dio e in noi stessi, è la base su cui poter costruire l’opera che Lui ha progettato specificatamente per noi; come Gesù, dobbiamo essere pienamente consapevoli, di fronte a tutti e in ogni situazione, della nostra vocazione cristiana, di essere cioè dei “chiamati”, degli “inviati” specialissimi di Dio.
L’altro particolare è quell’oggi con cui Gesù afferma il compimento della Scrittura: un “oggi”, un “adesso”, che conclude definitivamente il tempo dell’attesa.
Un termine perentorio che, riferito sempre a noi, ci impegna seriamente contro l’abitudine del rimandare: ogni nostro proposito deve trovare la sua immediata attuazione nell’oggi; non possiamo continuare a tergiversare, a posticipare, a rimandare; non possiamo più sperare che un domani le cose si risolvano da sole.
Dobbiamo “fare” oggi, non abbiamo alternative: abbiamo un “ti chiedo scusa” in sospeso con qualcuno? Facciamolo oggi; c’è un incoraggiamento, una buona parola che qualcuno si aspetta da noi? Facciamolo oggi; c’è un modo di comportarci che disturba la nostra coscienza, e che dobbiamo migliorare? Facciamolo da oggi, da subito, a qualunque costo; c’è un “sì” che dovremmo dire a qualcuno? diciamolo oggi, anche se ci procura paura o vergogna; c’è invece un “no” che dovremmo dire? diciamoglielo subito, anche se ciò comporta tensione e conflitti. Ci accorgiamo che la vita ci sta sfuggendo nell’indifferenza quotidiana? Fermiamoci e iniziamo a rimediare da subito, da oggi.
Perché quando ci diciamo “domani”, in genere diventa “mai”. “Domani” è solo un’illusione per dirci un “no” rivestito da “sì”. Il nostro “anno di grazia del Signore”, che siamo chiamati a proclamare e a testimoniare, è già qui, è “l’oggi”, è ora, è subito, immediatamente.
Non rimandiamo più nulla al domani, perché domani potrebbe essere troppo tardi: il termine concesso alla nostra vita, alle nostre opere di bene, domani potrebbe essere già scaduto! Amen.

 

giovedì 16 gennaio 2025

19 Gennaio 2025 – II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 2,1-12
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Leggendo il vangelo ci imbattiamo spesso in racconti di feste, matrimoni, pranzi. Ciò non ci deve meravigliare, perché Gesù era un uomo di azione, aperto, uno che viveva, che accettava volentieri di mangiare con le persone, che festeggiava con esse: non era un eremita, un solitario, un musone, una persona scostante: era uno che condivideva volentieri i momenti belli della vita con tutta la sua gente. 
Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, della felicità, delle soddisfazioni della vita. Noi non potremo mai capire il Dio della croce se non capiamo prima questo Dio che vuole per ogni uomo gioia e felicità.
Gesù dunque è presente ad un matrimonio in Cana di Galilea, al quale partecipa anche sua madre: è l’evangelista Giovanni che ce lo documenta: per lui questa doveva essere un’occasione molto importante, poiché in tutto il suo vangelo, egli sottolinea la presenza di Maria soltanto due volte: all’inizio del ministero di Gesù, qui a Cana, e alla fine della sua vita pubblica, ai piedi della croce.
Per Giovanni, Gesù ha vissuto l’intera sua missione pubblica lontano dalla madre: Maria però ha sicuramente vissuto questo distacco assicurandogli continuamente la sua discreta presenza: per suo Figlio lei è stata sempre un porto sicuro, una casa con la porta sempre aperta, un cuore spalancato in cui Gesù poteva trovare sempre accoglienza e amore.
Durante il banchetto nuziale, improvvisamente, viene a mancare il vino. È appunto Maria, la madre di Gesù, sempre attenta e premurosa, che nota per prima il disagio dei padroni di casa, e si affretta ad avvisare il figlio: “Non hanno più vino”. Parole semplici le sue, ma che contengono l’invito ad intervenire immediatamente, per evitare ulteriore imbarazzo agli sposi.
Sensibilità di madre, che si ripete anche nella “festa di nozze”, in quella avventura “nuziale” di grazia e di amicizia con Dio, che ogni singolo uomo è chiamato a realizzare nella sua vita: è sempre lei, Maria, che si pone appunto come intermediaria tra Dio e la nostra situazione spesso deficitaria: “Non hanno più vino”; noi, uomini miserabili, vorremmo festeggiare le nostre nozze con Dio, ma spesso non ne siamo all’altezza, siamo “vuoti”, abbiamo esaurito il vino dell’amore, non sappiamo più amare, non sappiamo più vivere. Le nostre giornate sono inutili, prive di qualunque sapore, non c’è più gioia nella nostra vita. È proprio allora che dobbiamo dare retta a nostra Madre che ci sussurra: “Fate quello che vi dirà”. Fidiamoci di Lei, fidiamoci delle Parole che Gesù ci dirà, e soprattutto mettiamole in pratica. “Fate quello che vi dirà”: a volte non capiamo ciò che Gesù ci propone; anzi lo capiamo benissimo, ma nel nostro orgoglio lo giudichiamo immeritato, irrazionale, illogico, stupido. Capiamo benissimo che Gesù vuole portarci a fare un certo cammino; e poiché non ne condividiamo il motivo, ci diciamo che non ha senso andarci; ci diciamo che quelle cose sono troppo difficili per noi, troppo dure, faticose, che è irrazionale doverci arrampicare per un sentiero di montagna, quando possiamo tranquillamente fare il nostro percorso in pianura.
“Fate quello che vi dirà”: sì, a volte Lui ci fa vivere esperienze veramente dolorose, momenti di grande sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di ribellione: ma la soluzione di ogni cosa sta sempre lì, nel fidarci di Lui: Egli è il Dio della Vita, conosce perfettamente le nostre possibilità, le nostre forze, e non sbaglia mai. Lasciamoci guidare da Lui, e quando la nostra debolezza è troppa, quando sentiamo di non potercela fare più, abbandoniamoci completamente a Lui, lasciamoci portare in braccio: non dobbiamo fare molta strada per questo, perché Lui è sempre lì, al nostro fianco, pronto ad intervenire in nostro aiuto.
I contenitori vuoti di Cana, le giare “di pietra”, stanno ad indicare appunto l’aspetto “pesante” della vita, i momenti in cui ci sentiamo rigidi, insensibili, pietrificati; stanno ad indicare che i nostri comportamenti privi di slancio, di amore, di passione, hanno ormai sclerotizzato la nostra vita, privandola di quel particolare respiro divino, ampio, diverso, in grado di alleggerire il nostro cammino. Quelle giare “di pietra” rappresentano, in altre parole, l’indurimento del nostro cuore, della nostra vita spirituale, delle nostre devozioni, delle nostre opere buone, delle nostre preghiere, delle nostre liturgie ormai stantie per la loro sciatta ripetitività: tutte cose che non ci trasmettono più nulla, non ci infondono più alcuna vitalità, nessuno slancio, che non sono più in grado di assicurarci la necessaria comunicazione con il Dio della Vita.
Diventiamo vittime dell’abitudine, della quotidianità, fenomeni che frantumano i nostri sentimenti, la nostra volontà, le nostre aspirazioni, i nostri sogni. Non avremo più la forza per reagire, per andare oltre, per cercare il “nuovo”, il “bello” della vita, per affrancarci dalla zavorra letale della nostra insensibilità, del nostro disinteresse: e noi sicuramente moriremo dentro, nell’anima e nello spirito, se non troveremo il modo per ricaricarci quotidianamente di Dio, se non punteremo lo sguardo su orizzonti spirituali più alti, più ampi, più aperti, in grado di farci riscoprire la ricchezza, la vitalità, la bellezza del nostro esistere cristiano. Noi moriremo inesorabilmente, se sperperiamo tempo prezioso davanti ad una tv idiota e inguardabile, in discorsi inutili e chiacchiere da osteria, nella ripetitività di giornate senza costrutto e senza ideali. Moriremo inesorabilmente se non ci specchiamo nell’anima, se continuiamo a mentirci, a raccontarci “balle”, se ci nascondiamo dietro a sembianze di facciata menzognere, se ci appelliamo alla nostra razionalità, alla nostra intelligenza, alla nostra cultura, solo per “incantare gli altri”: appariremo anche bravi, acuti, profondi, ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita, a Colui che vorrebbe condividere la nostra di vita. Moriremo inesorabilmente se deleghiamo le nostre responsabilità, i nostri doveri, i nostri ideali agli altri, a questo mondo materialista, indifferente, cinico, a questa società ormai depravata. Moriremo inesorabilmente se andiamo a messa perché ci siamo sempre andati, se preghiamo tanto per pregare, se crediamo solo superficialmente, distratti e disinteressati. Perché così tutto diventa abitudine, tutto diventa inconsistente, “senza vita”, senza calore, insensibile alle vibrazioni interiori, ai sussulti dello Spirito che ci inabita.
Prima o poi, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, finiremo col vivacchiare vuoti, esauriti, finiti, morti. Alcune persone, convinte di essere vive, sono già morte dentro; altre sono in fin di vita; altre ancora presentano serie malattie allo stadio finale; la loro anima soffre e geme, ma sono ben pochi coloro che se ne accorgono.
Ogni giorno, ogni mattina quando ci alziamo, spetta pertanto solo a noi decidere se vivere o lasciarci morire.
Il segno di Gesù compiuto a Cana è la dimostrazione di come una vita finita, vuota, spenta, “senza più vino” possa al contrario ritrovare slancio, vitalità, “nuovo vino buono”. Trasformarsi, divenire, evolvere, deve essere pertanto una dimensione irrinunciabile del nostro vivere, un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione spirituale.
In questo senso “Cana” ci invita a cercare in profondità, dentro di noi; ci spinge a penetrare all’interno della nostra anima per irrorarla di “nuovo vino buono”. “Attingete e portatene al maestro di tavola”, ordina Gesù ai servitori. Dio, creandoci, ha già compiuto in noi il suo specialissimo miracolo, elevandoci ad essere sua immagine e somiglianza. Noi dobbiamo solo credere in questo miracolo, e attingere con forza, abbeverarci continuamente alle sorgenti dello Spirito, per vivere confortati e rinvigoriti dal suo amore. Amen.