mercoledì 31 agosto 2011

4 Settembre 2011 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra. Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita. Ecco allora che il senso profondo della Parola di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante e per nulla scontato: nei nostri rapporti con gli altri, dobbiamo usare umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.
Se noi siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non dalla quantità delle nostre preghiere o dalla frequenza con cui invochiamo il suo nome, ma da come ci comportiamo nelle nostre relazioni interpersonali, dai nostri rapporti con le persone che ci stanno vicino, da come stiamo con gli altri.
“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima che dobbiamo seguire sempre fedelmente. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, anche in quei momenti, non dobbiamo mai dimenticare di amare. Sì, fratelli. Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella nostra vita possiamo anche non litigare mai, essere sempre ossequiosi con tutti, ma nonostante ciò, non amare nessuno; al contrario possiamo anche litigare spesso con i nostri fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Come è possibile? Il “litigio”, il nostro scambio “robusto” di opinioni, deve poggiare su una reale onestà mentale, sulla carità, sull’amore verso l’altro: ogni “scontro” ci deve lasciare ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso l’altro, e non totale chiusura nelle nostre posizioni, nel nostro astio. Ci sono persone che per anni litigano sempre per la medesima e identica cosa: vuol dire che non hanno mai saputo imparare, capire. Che serve allora litigare? Non serve, è inutile, fa solo male: se per principio non si vuole imparare, non si crescerà mai. Non riduciamoci a un dialogo tra sordi.
Ma l’insegnamento di oggi va oltre: in una controversia, due sono le cose importanti: la prima è di evitare di pubblicizzarla, di mettere in piazza la lite, di dare in pasto all’opinione pubblica i dissapori; la seconda è un maggiore esercizio dell’amore. Se un nostro fratello sbaglia, se c’è un problema tra noi, dobbiamo sapere che in quel preciso momento egli ha ancor più bisogno del nostro amore: dobbiamo quindi agire nei suoi confronti con maggior delicatezza, con maggior gentilezza, con maggior attenzione. In una parola con grande carità e discrezione. Ce lo sottolinea in apertura il vangelo di oggi: «Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo»; e lo fa in aperto contrasto con quanto la legge antica imponeva: «Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era normale denunciare apertamente l’operato di una persona: se sai una cosa dilla a tutti. Gesù, invece, propone una cosa del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo. C’è qualcosa che non va fra te e qualcuno? Va da lui e diglielo. Se ci vai, conoscerai personalmente il suo punto di vista: forse ti ricrederai, forse non era come tu pensavi. Va dunque e senti di persona: soprattutto non basarti su quello che dice la gente.
Se ci aprissimo lealmente, fratelli, potremmo sicuramente capirci, potremmo aiutarci, venirci incontro e smettere di giudicarci: perché quando le persone fanno qualcosa, molto spesso lo fanno per dei buoni motivi che noi non conosciamo. Spesso infatti le persone agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza, non per cattiveria.
Noi, invece, cosa facciamo? Se abbiamo un problema, un contrasto, un’opinione contraria con qualcuno, piuttosto che chiarire con lui, corriamo subito a sparlare e a malignare su di lui con i nostri “confidenti”. I quali si sentono immediatamente in dovere di mettere a loro volta al corrente della cosa i loro di “confidenti”, innescando così una reazione a catena di chiacchiere senza costrutto, il più delle volte crudeli, false e ingiuste.
Smettiamola fratelli, di creare incomprensioni di questo genere: comportiamoci da adulti! Ascoltiamo soprattutto! Per quattro volte il vangelo ci ripete il verbo “ascoltare”. «Se ti ascolterà avrai guadagnato… se non ascolterà prendi ancora… se poi non ascolterà costoro…, se non ascolterà neanche la comunità…». Una insistenza con la quale vuole quasi imporci la condizione per un nostro corretto comportamento con gli altri: ascoltare, ascoltare, ascoltare, ascoltare.
Come lo viviamo noi, fratelli miei, questo “ascoltare”? Ascoltiamo veramente? Ascoltiamo le parole false e volubili o la voce profonda e veritiera del nostro cuore? Cosa intendiamo esattamente per ascoltare? Se abbiamo già deciso a priori che il nostro fratello ha sbagliato, come facciamo ad ascoltarlo? Se rimaniamo caparbiamente attaccati al nostro parere preconcetto, lo ascoltiamo? Se non accettiamo vedute diverse dalle nostre, possibilità e modi diversi dai nostri, lo ascoltiamo? Se alcune cose le vogliamo sentire e altre no, lo ascoltiamo? Se quello che ci dice ci ferisce, “ci manda in bestia” e ci chiudiamo nel nostro silenzio oppure tiriamo su un muro tra noi, oppure “non vogliamo sentire ragioni”, come facciamo ad ascoltarlo? Se mentre lui parla noi pensiamo soltanto a cosa ribattergli, lo ascoltiamo? Se abbiamo sempre già pronte le risposte ad ogni domanda, illudendoci di essere un po’ altrettanti Dio, lo ascoltiamo? Se il nostro problema è cosa diranno gli altri e quindi ci preoccupiamo più di noi che di lui, lo ascoltiamo? E se non lo sappiamo ascoltare, come possiamo dire di amarlo?
La comunità di Matteo, come qualunque altra comunità, non era certamente perfetta: c’erano senz’altro dei conflitti. Ecco perché egli sente la necessità di dire: «In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore». Anche oggi non esiste comunità, famiglia, in cui non ci siano tensioni, conflitti, scontri. Ora - lo ripeto - litigare, entrare in conflitto, non significa non amarsi: vuol dire solo che si è diversi. Litigare è inevitabile! Non fa problema; un problema serio è invece quando due persone non litigano mai, quando due persone si scoprono sempre all’unisono: vuol dire che una delle due ha rinunciato ad essere se stessa, si è “conformata”, almeno esteriormente, all’altra. Ma non è questa la vera prova d’amore; l’amore si dimostra soprattutto dal modo con cui vengono affrontati e risolti i problemi conflittuali. È così che dimostriamo la nostra maturità. È così che la nostra comunità (famiglia, parrocchia, luogo di lavoro, casa religiosa), dimostra di essere una comunità matura: perché, fratelli, la maturità non si conquista semplicemente con lo stare insieme, ma soltanto imparando a come stare insieme. Maturità è saper trasformare l’inevitabile conflittualità di un “con-fronto”, in un chiarimento di idee, in un ampliare le vedute, in un arricchimento reciproco.
Senza la conflittualità, senza le difficoltà, una comunità non cresce. Per questo è decisivo il modo con cui affrontiamo queste tensioni, questi conflitti, perché possono essere contemporaneamente causa di divisione o di comunione, di unione o di rottura, di separazione o di crescita.
Le situazioni, le difficoltà, non vanno mai ignorate, ma affrontate sempre nel modo giusto. Non c’è cosa peggiore che pretendere che tutto vada sempre bene, voler vedere solo tutto rosa, anche quando il nero è d’obbligo! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non paga mai.
Ancora: litigare, non significa essere ribelli, malvagi, come molti pensano: non è facendo valere le nostre ragioni che siamo cattivi, che offendiamo l’altro o gli manchiamo di rispetto: ma è il modo con cui lo facciamo. Non esprimere mai il proprio punto di vista, per finta modestia o mellifluità, significa adeguarsi passivamente, e talvolta irrazionalmente, alla volontà del proprio partner o del proprio leader; non significa essere buoni, quanto piuttosto spersonalizzarsi oltre ogni limite; non volersi mai misurare con l’opinione altrui, è indice di due situazioni: o si è una vittima che subisce passivamente, oppure un tiranno che comanda in maniera dispotica.
Ecco l’importanza del parlarne, fratelli: esponiamo all’altro le nostre difficoltà, ascoltiamo le sue, lasciandoci mettere in discussione dalle sue parole. Non è importante chi vince. Abbandoniamo l’istinto di dominare l’altro, di dimostrare ad ogni costo che noi abbiamo ragione. Un pensiero ci deve accompagnare sempre in questi casi: dove c’è uno che vince, c’è sempre un altro che perde, e chi perde si sente umiliato.
Ascoltiamoci dunque: ascoltiamoci nel modo giusto, perché “ascoltare” vuol dire “cerco di mettermi nei tuoi panni (em-patia). Mi spoglio delle mie idee, per sentire quello che senti tu e mettermi nel tuo stesso punto di vista. Se rimango nel mio, non ti ascolto”. Ascoltare vuol dire andare ben oltre le parole, per cogliere quello che l’altro vive.
Molti dicono con orgoglio: “Noi amiamo la gente, l’umanità intera; noi amiamo tutti gli uomini”, ma poi, in realtà, non amano nessuna persona in particolare. L’umanità, la “gente”, non esiste: esistono solo le singole persone, gli uomini concreti. Non basta dire che noi amiamo, così in astratto; dobbiamo dimostrarlo con i fatti, concretamente, nei confronti di persone concrete, perché è il modo con cui ci relazioniamo con gli altri, nell’ambito della comunità in cui viviamo, che rivela chi siamo realmente.
Dobbiamo quindi imparare a collaborare senza voler essere superiori agli altri, ad esprimere quello che abbiamo dentro, senza doverci sentire inferiori a nessuno; dobbiamo imparare l’empatia per ascoltare l’anima delle parole di chi abbiamo davanti, dobbiamo avere l’ascolto che non giudica, che non cambia, che non stravolge, che non vuole fagocitare l’altro. Dobbiamo imparare a non manipolare gli altri per i nostri scopi; dobbiamo imparare a gestire, a dominare, l’invidia, la gelosia, la competizione, i sentimenti inevitabili di odio, di rabbia o d’altro; tutti sentimenti molto comuni in una convivenza. Purtroppo, fratelli, per imparare bene tutto questo, non c’è una scuola specifica: per tutto c’è una scuola, ma non per imparare a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, una vita guidata dall’amore e dall’ascolto.
Quanti di noi, fratelli, contano migliaia di conoscenze, senza essere poi amici di nessuno. Lasciatemelo ripetere: è perché sono immaturi, non vivono un rapporto armonico con loro stessi, non hanno imparato ancora a conoscere se stessi, non sanno superare quello stadio primordiale dell’aggressività, in cui si tende a proiettare sugli altri i propri limiti, i propri conflitti, le proprie manie, le proprie tendenze aggressive.
Quanto consolanti e promettenti sono invece le parole conclusive della Parola di oggi: «Se due si accorderanno per domandare una cosa, il Padre ve la concederà».
“Ac-cor-dare” vuol dire letteralmente “avere il cuore che batte alla stessa frequenza dell’altro”; in greco è “sin-fonia”. L’accordo è formato da note diverse: ogni nota è diversa, ma insieme formano l’ac-cordo, la bellezza, la sublimità di un concerto. «Se due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Essere uniti è come cantare all’unisono, con lo stesso ritmo, con la stessa tonalità, trovarsi in perfetta sintonia; è quando due cuori, nelle rispettive profondità, nelle rispettive aspirazioni, si fondono in un unico slancio d’amore.
Ecco, fratelli: quando si realizza questa “simbiosi”, quando avviene questo “contatto”, sperimentiamo la forza irresistibile e traumatica della immediata presenza di Dio tra noi, nella nostra comunità; è questo, e questo soltanto, che ne suggella l’unione.
Dire un sacco di cose, essere iperattivi, apparire sempre e comunque spumeggianti, esibire la nostra modernità, non significa essere “in sintonia”, non vuol dire vivere una vera unione con gli altri: in questo modo non arriveremo mai a sperimentare la forza dell’amore, i nostri cuori non riusciranno mai a vibrare in profondità. Parlare di tutto quello che facciamo, del tempo, dei vicini, dei confratelli, del lavoro, è solo un diversivo, non basta a guarire i nostri rapporti di convivenza, non risana il nostro cuore, non ci fa incontrare nel vivo con l’altro.
Ciò che ci rende uniti, ciò che ci salva, non consiste nel “regalare” agli altri parole, ma regalando noi stessi, con semplicità, così come siamo, con la nostra vulnerabilità, con le nostre paure, con le nostre imperfezioni. L’unione vera nasce proprio da questo “metterci a nudo”, dal farci vedere e accettare per quello che siamo. Buttiamo alle nostre spalle pregiudizi, incomprensioni, orgoglio; armiamoci di coraggio e facciamolo, con serenità, con umiltà, senza temere di essere traditi, fidandoci dell'altro: e in questo caso avremo la sensazione inconfondibile che tra noi, nella nostra comunità, c'è anche Lui. E questo ci deve bastare per vivere sereni. Amen.

giovedì 25 agosto 2011

28 Agosto 2011 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno…».
Ad un certo punto della sua vita Gesù affronta decisamente il suo destino. La sua condotta di vita, troppo aperta, troppo chiara e manifesta, era già diventata pericolosa. Quello che diceva e quello che faceva era troppo provocante, troppo compromettente per la gente altolocata, per i ricchi del suo tempo, per i potenti, e di certo non gliel’avrebbero fatta passare liscia. Gesù era “troppo” per tutti, in tutti i sensi: non era l’uomo del compromesso, delle mezze misure, degli adattamenti o delle vie di mezzo. Il suo parlare era chiaro: “si si, no no!”.
Era inevitabile quindi che decidesse a questo punto di completare la sua missione, affrontando quella che sarebbe stata la svolta decisiva della sua vita, la grande sfida col mondo: andare a Gerusalemme. Finché viveva e predicava in Palestina tutto sommato non interferiva più di tanto con i grossi poteri. Ma andando a Gerusalemme si sarebbe scontrato inevitabilmente con gli interessi dei potenti, con le più alte autorità religiose. Prima di tutto con gli anziani: per loro Gesù era troppo infantile, troppo acerbo, troppo sognatore, un romantico idealista. Per il loro cuore di ghiaccio, razionale, rigido, un uomo così era pericoloso; un uomo che si stupiva degli uccelli del cielo o dei gigli dei campi; un uomo che accoglieva i bambini o che accarezzava le donne, cosa avrebbe potuto fare di buono?: “Che sono queste smancerie? Che sono queste effusioni amorose? Romanticismo, cose da poeti, da adolescenti, da femminucce”. E, infatti, lo condanneranno a morte. Poi si sarebbe scontrato con i sommi sacerdoti: per i loro cuori pieni zeppi di leggi, di tabù, di regole, di prescrizioni, di cose da osservare, Gesù era troppo libero. Annunciava un Dio troppo vicino, un Dio che non faceva paura, che si chinava amorevolmente sull’ uomo. Un Dio troppo progressista, sociale, vicino alla liberazione dell’uomo; un uomo che si crede in contatto con Dio, che gli parla, che rivendica la pretesa che Dio parli al suo cuore; un Dio amico, vicino, che si preoccupa dei lebbrosi, dei pagani, degli esclusi; un Dio che mette tutti sullo stesso piano: ma che Dio è questo? Come si permette quest’uomo di pretendere di sapere chi è Dio? Di Dio bisogna avere paura, bisogna temerlo, obbedirgli, non come fa quest’uomo che lo chiama papà! Gesù era per loro una rivoluzione: parlava di un Dio che non conoscevano, metteva in discussione e in dubbio ciò in cui avevano sempre creduto. E, infatti, lo condanneranno a morte.
Infine avrebbe avuto grossi problemi anche con gli scribi: per i loro cuori così pieni di arroganza, così pieni di sé e del loro orgoglio (loro erano gli unici interpreti della Scrittura, loro sapevano tutto, cos’altro poteva essere annunciato di nuovo?) Gesù era una bomba che sconvolgeva il loro mondo e la loro vita, e stravolgeva tutto il loro sistema, i loro credo, le loro interpretazioni bibliche. Per loro Gesù era troppo pericoloso; quest’uomo che parla della Bibbia in un modo totalmente distorto, chi si crede di essere? Questo uomo non ascolta i padri, la tradizione: come può pretendere di saperne più di noi, noi, gli unici custodi e interpreti della Parola e della tradizione? E, infatti, lo condanneranno a morte.
Gesù percepisce l’ostilità che sta montando intorno alla sua persona. Il suo modo di vivere tocca e mette in discussione troppe persone, troppi interessi e troppi cuori. Tutto quello che fa, è osservato, sezionato, e si cerca ogni pretesto per metterlo in cattiva luce, per avere da ridire su di lui, per trovare malignità contro di lui, per accusarlo. È la sorte dei grandi uomini: siccome non li si può attaccare nella verità, li si attacca con le menzogne.
Gesù lo sente, sa tutto questo, lo intuisce; percepisce che si sta organizzando il pretesto per imbavagliarlo, per contenerlo, per metterlo a tacere, per tendergli inganni: Egli sa di essere un uomo scomodo e poiché non sarebbero mai riusciti a imbavagliarlo, a farlo stare zitto, prima o poi avrebbero trovato l’occasione per zittirlo definitivamente, uccidendolo. Come puntualmente avvenne.
E lo dice ai discepoli: “Guardate, mi potrebbero uccidere. Potrebbe capitare: preparatevi. Andare a Gerusalemme sarà molto pericoloso. Ho paura, ma devo andarvi lo stesso; non posso tirarmi indietro, non posso abbandonare la mia missione. Non posso tradire il mio cuore, tutto quello che sento e provo, la mia missione, il mio Dio. Io devo andare”.
Questo è il messaggio che Gesù si preoccupa di trasmettere ai suoi; ma gli apostoli sono scettici, fanno fatica a credere e ad accettare la cosa. Non può essere. Come si può perseguitare un uomo come Gesù? Come si fa a voler del male ad un uomo così? Come si può anche solo pensare di togliere la vita ad uno che dà la vita? E Pietro, sanguigno come al solito, sbotta improvvisamente: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
Pietro qui fa da maestro a Gesù; i ruoli si capovolgono e gli si mette davanti. Il vangelo dice che “trasse in disparte” Gesù. Gesù ha deciso di seguire la sua strada; Lui ha una direzione ben precisa, ha la sua missione da compiere; Pietro invece vorrebbe distoglierlo, lo tira fuori, lo tira in disparte dal suo andare. Ma Gesù, che poco prima gli aveva detto “Tu sei la pietra su cui fonderò la mia chiesa”, lo redarguisce, gli risponde severamente: «Lungi da me, satana»; letteralmente: “Dietro di me, satana”. “Io vado dove devo andare: non distrarmi; non cercare di intralciarmi il passo, togliti da mezzo, mettiti dietro!”.
E qui c’è un primo importante messaggio per noi, fratelli. “Qualunque cosa succeda nella nostra vita, dobbiamo andare sempre avanti”. Non fermiamoci, non arrendiamoci, soprattutto non compiangiamoci! Dopo ogni sconfitta, dopo ogni fallimento, dopo ogni caduta, quando non sappiamo dove andare, quando ci verrebbe voglia di cedere, continuiamo ad andare sempre avanti; se siamo caduti, rialziamoci e proseguiamo!.
Parole che ci vogliono dire anche un’altra cosa: “Niente e nessuno si metta tra voi e il vostro cammino, nessuno osi intralciare il vostro cammino”. Satana, che cerca sempre di pararsi davanti a noi, deve invece stare dietro, non ci deve infastidire, non deve pretendere di guidarci, di portarci dove vuole lui: siamo noi che andiamo dove vogliamo e dobbiamo andare.
Ma chi è Satana? Qui Satana è Pietro, l’amico di Gesù. Sicuramente Pietro non voleva male a Gesù, anzi pensava di fargli cambiare idea proprio perché gli voleva bene. Satana, quindi, non è sempre colui che ci odia, quel demonio che ci fa paura, con le corna e il fuoco, contro cui dobbiamo andare dall’esorcista. Satana spesso è proprio uno che ci vuol bene, Satana sono i nostri cari, le persone amiche, chi ci è vicino; Satana è chiunque si mette davanti a noi e pretende di consigliarci quale strada fare, secondo il suo modo di vedere le cose. Satana siamo addirittura noi stessi quando per pigrizia, per non faticare, per non accettare la responsabilità di essere adulti, ci mettiamo comodamente a traino di qualcun altro, lo seguiamo passo dopo passo; facciamo per filo e per segno quello che gli altri ci dicono, ci conformiamo supinamente a ciò che gli altri hanno stabilito per noi: “Davanti a te nessuno”, dice Gesù. Satana quindi è chi ha le soluzioni per noi, chi ha le risposte per noi, chi ci dice cosa è bene e cosa è male per noi. Satana sono tutte quelle persone che con la loro posizione, con la loro autorità, con la loro influenza, tentano di gestirci, di manovrarci, di manipolarci. Satana è questa società che decide per noi come dobbiamo vestirci, cosa dobbiamo comprare, cosa mangiare, dove dobbiamo andare in vacanza, quali programmi guardare in tv, cosa fa tendenza (cioè cosa deve piacerci), insomma come e cosa devo pensare. Ma attenzione: se accettiamo che qualcuno si sostituisca a noi, che si metta davanti a noi sulla nostra strada, vuol dire che noi accettiamo di stargli dietro, vuol dire che ci sta bene seguire questo qualcuno: e quindi rinunciamo a fare la “nostra” strada, quella che magari abbiamo iniziato con tanto entusiasmo.
Gesù non fu certo succube di qualcuno, non fu vittima di una cieca fatalità, ma affrontò ad occhi aperti e con grande volontà la sua missione di amore e risurrezione attraverso il dolore e una morte straziante. Gesù era perfettamente consapevole di quello a cui andava incontro: sapeva perfettamente che la sua non era una sofferenza occasionale, gratuita. Egli non era venuto per soffrire senza motivo. Al contrario durante tutta la sua vita aveva predicato a tutti amore, felicità, amicizia, libertà; Gesù non voleva, né per sé, né per gli altri, la sofferenza, ma la gioia; non la morte, ma la vita.
Nella nostra vita dobbiamo invece fare i conti con due forze contrapposte: la fantasia e la realtà. Con la fantasia tendiamo a soddisfare tutte le nostre aspirazioni, immaginiamo e viviamo situazioni da cui possiamo trarre tutto il massimo piacere possibile. Ma sono fantasie, e devono fare i conti con i fatti, con la realtà, con la vita concreta; una vita, in cui purtroppo non è possibile avere tutto ciò che si desidera, in cui esistono limiti invalicabili. In questo mondo non siamo da soli; ben presto dobbiamo imparare che bisogna convivere con altre persone, con altri progetti, con altre situazioni che ci impongono spesso delle rinunce, anche molto pesanti; non dobbiamo mai dimenticare che la nostra esistenza ha delle regole e dei limiti: è essenziale. Perché l’unica certezza che abbiamo sulla nostra vita, è il suo limite temporale: noi non vivremo per sempre; non potremo mai realizzare tutti i nostri sogni, i nostri progetti: non possiamo sposare tutte le donne che vorremmo, e neppure abbracciare tutte le professioni che ci piacciono o seguire tutte le vocazioni verso cui siamo attratti: di tutte le possibili strade, dobbiamo percorrerne una, la nostra, con impegno, entusiasmo e fedeltà. Non possiamo ridurci a pensare che siano le ricchezze di questo mondo a renderci felici: e neppure credere che l’accumulare “giocattoli” (case, cellulari, auto, vacanze speciali, vestiti, oggetti da esibire) o addirittura il “possedere” le persone, ci dia l’amore e la felicità di cui abbiamo bisogno. Se crediamo questo, siamo rimasti bambini, non siamo ancora cresciuti, pensiamo che tutto il mondo continui a girare intorno a noi. Continuiamo a vivere nel mondo dei sogni, della fantasia.
Crescere è doloroso, é faticoso. Abbandonare le maschere e i sogni illusori è difficile per tutti. Guardare in faccia la realtà, e non quello che si vorrebbe essere o avere, è a volte tragico. Non illuderci, non ingannarci, è traumatico: è come una spada che ci taglia in due. Vedere che il tempo passa, che non si è più giovani, che non si è più atletici, belli, vigorosi come una volta, che le difficoltà aumentano, non ci fa certo piacere, ma è la realtà che dobbiamo accettare e con cui convivere serenamente. Anzi dobbiamo cogliere il senso di tutto questo: accorgerci che possiamo essere feriti, vulnerabili, rivedere nitidamente in un flash back tutti gli errori commessi a causa del nostro orgoglio, renderci conto che fino ad oggi abbiamo vissuto una vita vuota, di facciata, insulsa, tutto questo ci fa un male cane, è uno smacco tremendo, una occasione salutare che ci deve catapultare in una nuova esistenza. Nella realtà. Nelle nostre vere possibilità. Sulla strada autentica della nostra vocazione, quella in cui Dio ci vuole. Dobbiamo ridimensionare le nostre illusioni: dobbiamo rinunciare ad un sacco di idee, di chimere, di sogni irrealizzabili, di illusioni, di fantasticherie; dobbiamo fare i conti con la vita reale, perché, fratelli miei, la realtà non si cambia, si può solo viverla: anche se dobbiamo farlo con sofferenza, con quella sana sofferenza che è l’umile accettazione della Volontà di Dio. Perché lui solo vuole il nostro bene.
«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». Gesù è chiaro in proposito, e le sue parole ci devono portare alla logica conseguenza del “pensare secondo Dio” e non secondo gli uomini.
“Rinnegare”, in greco, significa “dire di no”. Non nel senso che dobbiamo sistematicamente rifiutare tutto, ma nel senso che dobbiamo dire dei “no” a certe illusioni di vita, traducendoli in altrettanti “sì” alla Vita. Dobbiamo rinnegare noi stessi, cioè dire di no alle nostre fantasie, a quelle maschere dietro le quali volentieri ci nascondiamo, per aderire generosamente a quelle situazioni in cui la Vita ci chiama.
Dobbiamo, dice il vangelo, “dire di no” a tutto ciò che non siamo noi, dobbiamo prendere la vita nelle nostre mani e viverla con maturità e sincerità. Perché la vita che abbiamo è unica, ed è un dono impareggiabile: dobbiamo prenderla e amarla così com’è. C’è un proverbio russo che dice: “Con le bugie giri tutto il mondo, ma non arrivi mai a casa”. Proprio così, fratelli miei! Chi mente a se stesso, chi si mostra all’esterno diverso da quello che è nel suo intimo, si allontanerà sempre di più da se stesso, dal suo bene.
“Chi vuol salvare la propria vita la perderà”: cioè, chi non vuole osare, chi non vuole rischiare di vivere in prima persona la sua vita, con tutto ciò che comporta, gioie, dolori, affanni, la perde. Solo chi è disposto a perdere le proprie convinzioni, le proprie idee, i propri egoismi, a mettersi in gioco, la trova. Perché per vivere autenticamente la nostra vita, dobbiamo in qualche modo “morire”. Chi vuol rimanere così com’è, perirà. Chi vuol fermare il tempo per non progredire, morirà; perché il tempo non si può fermare.
A che serve all’uomo vivere e fare un sacco di cose se poi perde la sua anima, la sua strada, se stesso? A che ci serve indossare una maschera e vivere una vita non nostra? A che ci serve ciò che facciamo, se poi non viviamo? Se poi non siamo felici? Se poi perdiamo Dio, la Speranza? Se poi perdiamo il dialogo profondo con chi amiamo? Se poi non riusciamo a esprimerci? Non è da sciocchi, da insensati? Lo sappiamo tutti che non funziona: nessuna maschera, nessuna vita non nostra, ci farà mai felici! Cosa possiamo sperare in cambio della nostra anima, della nostra vita? Quando abbiamo perso ciò che abbiamo dentro, abbiamo perso tutto. Ci siamo mai chiesti perché molte persone sono vuote, tristi, prive di vita? perché hanno perso l’unica cosa che non dovevano perdere, l’unica cosa che avevano: la loro anima, se stesse, la loro unicità. Ripeto: se dentro siamo vuoti, tutto ciò che ci circonda è vuoto.
E concludo: Dio dà a ciascuno secondo le sue azioni. Sì, è proprio così, fratelli. “Custodisci il tuo cuore perché da esso sgorga la vita”, dicono i Proverbi. Se corriamo dietro al mondo, all’effimero, avremo il mondo, l’effimero. Se seguiamo Gesù, avremo Gesù. Ognuno raggiungerà ciò che insegue. Se non inseguiamo niente, non arriveremo a niente! Chi insegue cose da poco, avrà poco; chi osa molto, avrà molto, magari non tutto ciò che insegue, ma sicuramente molto. Perché Dio ci dà in base alle nostre azioni, e non solo nel futuro, ma anche nel presente. In altre parole: la vita che viviamo dipende da noi, è nelle nostre mani: in fondo (e la cosa ci dà molto fastidio) ognuno è l’artefice della propria vita, della propria felicità o infelicità. Quindi non lamentiamoci, fratelli, perché, se la nostra vita è così, vuol dire che in qualche modo siamo stati noi a volerla così. Dice infatti il Siracide (15,17-18): “Davanti agli uomini ci sono la vita e la morte; a ognuno sarà dato quello che a lui piacerà”. Pensiamoci. Amen.

giovedì 18 agosto 2011

21 Agosto 2011 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore delle persone era infatti stimato in base a quello che diceva la gente: meno sull’essere, più sull’apparire. L'onore del clan, della famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle persone. Un metro di giudizio, fratelli miei, che non è molto lontano da quello imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea superevoluta. Anche oggi, la paura di non essere considerati è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. Indice della nostra insicurezza: e per questo siamo alla ricerca disperata di stima, di amore, di amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al nostro cuore, il nostro progetto, la nostra vocazione, ma conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente alla loro forma mentis; vuole essere in tutto come uno di loro. Era quindi naturale che il Maestro si preoccupasse di conoscere cosa pensassero di lui, della sua missione e della sua predicazione, le folle che lo seguivano, che crescevano numericamente giorno dopo giorno: e Gesù ha voluto mettersi in gioco anche su questo. Ovviamente senza rimanerne turbato o succube delle loro risposte.
I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di buono, uno che stava volentieri con le donne, che in alcuni casi dimostrava verso di loro qualcosa in più di una semplice amicizia; uno che assumeva atteggiamenti scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un "eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci altrettanto diffuse, che loro come anche Gesù stesso ben conoscevano. Egli, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona insignificante, anonimo, senza carismi, uno che ti lasciava indifferente; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non c’erano alternative. Gesù inoltre, prima di fare quella domanda, aveva già guarito centinaia di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato pane per migliaia di persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non era servito a fargli avere un generale riconoscimento, sincero e onesto. Cosa avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non nasce da ciò che si vede soltanto, ma da “come” si vede. Vedere così, semplicemente, senza coinvolgimento mentale, non porta automaticamente alla fede: bisogna guardare con interesse, con serietà, con apertura, con onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, con quelli della fede; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: è il risultato di una visione parziale e superficiale: ciò che dicono di lui è vero, ma non rispecchiano per intero la realtà. Sono supposizioni, opinioni, ragionamenti, ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi. Sono titoli, anche lusinghieri, elevati, ma non colgono nel segno, non dicono interamente chi è Gesù: “Giovanni Battista” era un grande asceta, uno che mirava alla perfezione. L'ascesi, il perfezionarsi, il combattere i difetti, i vizi, era importantissimo ma se l'ascesi diventava negazione della vita, se l'ascesi diventava rinuncia alla vita, allora si poneva contro la Vita. E Gesù non era questo. Anche oggi molte persone “perfette” sono cariche di aggressività: giudicano tutti e non usano nei confronti del prossimo né pietà né misericordia. La loro vita è un “no” alla vita. Dio invece chiama a dire "sì" alla vita, ad amare Lui, che è Vita perfetta. “Elia” fu il più grande profeta dell'Antico Testamento. Era così rigoroso che in un giorno solo uccise quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal. Essere combattivi e lottare, ieri come oggi, è molto importante, ma non è tutto: se si fa della vita una lotta continua, si diventa degli intransigenti perennemente arrabbiati. E Gesù non era questo. Chi fa dell'aggressività la loro arma per attaccare tutto e tutti, non si accorge che la vera guerra, quella che credono di combattere fuori, è invece dentro di loro. Infine “Geremia”: nella Bibbia è il simbolo del giusto che soffre. Gesù ha sofferto, tantissimo, ma non ha fatto solo questo. Ha portato anche la vera felicità, la gioia, l’entusiasmo. Per molti invece la vita è solo dolore, solo sofferenza, solo una “valle di lacrime”: perché in realtà si interessano solo della loro vita, non della Vita, non di Dio. Certo anche noi, nella nostra vita, incontriamo angosce e sofferenze, ma dobbiamo imparare a starci dentro, a viverle, non a fuggirle. La vita non è tutta qui. Gesù è venuto in questo mondo non per soffrire, o perché soffriva, ma per insegnarci a superare la sofferenza, il dolore, la paura; Gesù è venuto a portarci la buona novella, il “vangelo”, il lieto annuncio, messaggio di felicità e di speranza.
Questo dunque dice la gente: ma Gesù non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non gli interessa molto; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui. E corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E Pietro si lancia con la sua risposta, che gli sgorga dal cuore...
Ma noi, noi, chi diciamo che sia Dio? È una domanda che ci tocca direttamente e singolarmente. Conoscere ciò che gli altri pensano di Dio, non ci serve, non ci deve interessare; nella vita prima o poi arriva inesorabile il momento in cui noi, e solo noi, dobbiamo affrontare certe questioni vitali, e darci delle risposte; e allora, ciò che conta non è ciò che fanno o credono gli altri, ma ciò che facciamo, viviamo, crediamo noi; ciò che conta è la nostra decisione personale.
E dunque: conosciamo Dio? Lo sentiamo vicino? Lo sentiamo “nostro”? Ascoltiamo la sua voce che ci parla? Lo percepiamo? L’abbiamo mai “incontrato”? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai incontrato? E se lo abbiamo incontrato, cos'ha cambiato Cristo nella nostra vita? Cos'ha modificato nel nostro carattere, nella nostra persona? Nulla? Allora ci siamo illusi: non lo abbiamo mai incontrato e non lo conosciamo! Anzi non ci siamo mai preoccupati di incontrarlo e di conoscerlo; e questo vuol dire che per noi, Lui non conta niente, è irrilevante. Incontrarlo, invece, significa smettere di essere quelli di prima; lasciarlo entrare nel nostro cuore è come aprire le porte ad un uragano, lasciarsi travolgere da un vento impetuoso e irresistibile; è come innamorarsi perdutamente di qualcuno: una esperienza che ci cambia radicalmente la vita.
Ed è proprio per questo, fratelli, che molti lo evitano, che hanno paura di lui: perché Dio è un'esperienza forte, coinvolgente, radicale. Molti preferiscono imbalsamarlo, rinchiuderlo in certi schemi, in certi riti, in certe formule, pensando di poterlo gestire. Preferiscono incontrare i pensieri “su Dio” o le preghiere “a Dio”, piuttosto che incontrare Dio in persona. “Conoscere” Dio, come ho detto, vuol dire invece esserne stravolti, innamorati persi; non si tratta di una conoscenza razionale, di chi è sapiente, ma di una conoscenza d'amore, di chi ama, la conoscenza di chi è attratto da Lui, di chi vuol tuffarsi nell’oceano del suo amore. Dio è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare, non è riservata ai dotti e ai santi. E se lo incontriamo, ce ne accorgiamo subito: lo sentiamo istintivamente che c'è, perché ci cambia la vita, concretamente, visibilmente, ci fa vivere una nuova vita, ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo vegetato, dormito, abbiamo camminato col paraocchi. Un po’ come è successo a Pietro. Il Pietro del vangelo di oggi, non è un teologo, un filosofo che sentenzia. Pietro è l'istinto, l'intuizione, la passione. Dio non si coglie con la mente; Egli è un istante perennemente presente, un fulmine, una saetta. Come in amore: se siamo innamorati lo sentiamo, lo avvertiamo in maniera inequivocabile, ci fa battere il cuore e tremare le gambe. L'amore non è un sillogismo, un calcolo, un ragionamento. È un impulso del cuore, non un prodotto del pensiero. E Gesù lo conferma chiaramente quando, alla risposta di Pietro, gli dice: «Beato te, Pietro, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli».
Carne e sangue equivale qui a ciò che è umano, terreno, frutto del raziocinio. Cioè: “Non lo hai imparato a scuola, non te l'ha insegnato qualcuno, non l'hai imparato sui libri, ma è la tua anima, il tuo cuore, che l'hanno percepito, che l’hanno colto”.
Per gli ebrei “conoscere” vuol dire “sperimentare”, rapportarsi. Quando nella Bibbia un uomo “conosce” una donna vuol dire che è entrato nella sua intimità, ha avuto con lei rapporti sessuali; la “conoscenza” è “esperienza”: ora, un conto è sapere una cosa, un altro è percepirla, viverla, adattarla al proprio io; una cosa è essere andati a tanti incontri spirituali, a tante messe, un'altra è “sentire” la presenza di Dio; una cosa è sapere dell'amore, un'altra è amare; una cosa è chiacchierare sul progetto della nostra vita, della nostra vocazione, e una cosa molto diversa è attuarlo, viverlo. Nessuno si è mai ubriacato con la parola “vino” e nessuno si è mai riscaldato con la parola “sole”. Ripeto: Dio, fratelli miei, non è un pensiero, un progetto, ma una realtà, una “persona” concreta di cui inebriarsi, appassionarsi, innamorarsi.
Se dunque Dio non ci sconvolge l'esistenza, non ci fa più dormire la notte, non ci fa cantare di gioia infinita, non ci fa danzare esultanti anche col vento e la pioggia, se non viviamo il pianto consolatore del sentirci amati da Lui, non diciamo di aver conosciuto Dio. Assolutamente. Prima incontriamolo, e solo dopo potremo parlare di Lui. Succede anche che qualcuno si sposi senza amare l'altro, ma non definiamolo matrimonio; possiamo anche essere molto religiosi, essere dei consacrati a Dio, senza peraltro averlo mai incontrato né averlo mai sinceramente cercato; ma siamo onesti, fratelli: non chiamiamo queste pseudo esperienze “una vita per e con Dio”.
Un ultimo flash: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». La Chiesa è di Cristo. La Chiesa è Cristo. Ecco perché, fratelli, la chiesa deve essere il luogo dell'esperienza di Dio, dell'incontro con Lui. Altrimenti perde il suo centro, la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia o ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, ma se “tocchiamo” Dio, se lo incontriamo, se Lui ci tocca. Andare in chiesa, e non essere “toccati”, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio, non c’è vita. L'uomo di oggi ha un enorme bisogno di esperienze spirituali vere, di incontri profondamente autentici. Si copre di mille cose, riempie le case di oggetti, lavora senza sosta, si rifugia nella confusione, riempie le giornate di mille interessi: perché ha paura di incontrarsi, di sperimentarsi, di vedere quello che è nel suo intimo. Ha paura di scoprirsi sbagliato, fallito, inconcludente; ha paura di sentirsi giudicato anche dall'Alto oltre che dal basso (da sé e dagli altri). Per questo gli è indispensabile più che mai incontrare Dio, sperimentarlo in se stesso e negli altri, cantarlo, viverlo, sentirlo vibrare, fremere, nell’intera assemblea: nella sua Chiesa. La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, sia dunque anche per noi il luogo dove si è toccati da Dio, dove possiamo piangere, ridere, sentirci a casa (non giudicati), sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a quello che abbiamo dentro, anche perché se non lo facciamo lì, rischiamo di non farlo da nessun'altra parte.
Amiamo allora la nostra Chiesa, fratelli: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di proteggere il fuoco sacro che c'è dentro ognuno di noi; è la casa dell'anima e di tutto ciò che vive nell'anima. È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti quei modelli che ci fanno ammalare, dai comportamenti devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessività, ecc) che purtroppo abitano dentro di noi, da tutte le paure che ci impediscono di esprimerci e di essere veramente noi stessi; in una parola è Lei che ci affranca da tutti i condizionamenti che ci soffocano il cuore e l’anima. Non dimentichiamolo, fratelli: se siamo legati a Cristo, siamo sciolti da tutto il resto; se siamo legati al resto, purtroppo siamo sciolti da Lui. Soltanto chi è legato a Cristo e alla sua Chiesa, è veramente libero. Sempre. Ecco: se la Chiesa non sarà tutto questo per noi, fratelli, la nostra vita sarà inutile, insignificante, totalmente vuota e superflua. Amen.

martedì 9 agosto 2011

14 Agosto 2011 – XX Domenica del Tempo Ordinario

Il vangelo racconta di una madre che è in ansia per la sorte della figlia. Gesù ha appena concluso una discussione con i farisei su che cosa sia puro o impuro. I farisei ne facevano una questione formale, di regole, di leggi, e Gesù aveva tagliato corto: “Non sono le cose o i comportamenti che sono puri o impuri, è il cuore, è l'intenzione con cui fai le cose che le rende pure o impure”. In altre parole, riferito ai nostri giorni, frequentare la chiesa non è determinante per stabilire se siamo o non siamo buoni cristiani: tutto dipende dalle nostre intenzioni, dal nostro cuore, da ciò che abbiamo dentro, da ciò che viviamo. Un principio che Gesù verifica subito anche nei confronti della donna del vangelo di oggi.
Siamo in territorio pagano, nella zona di Tiro e di Sidone. Lungo la strada Gesù incontra dunque questa donna che gli chiede aiuto, ma Egli sembra non accorgersene, non si degna neppure di ascoltarla e continua per la sua strada. Strano comportamento, non vi pare? Decisamente inconsueto per Gesù. Con gli stessi discepoli che gli chiedono di esaudire velocemente le richieste della donna, quantomeno per farla smettere di seguirli e di gridare, Gesù adotta un modo di esprimersi in stridente contrasto con le sue abitudini.
Beh, noi ci saremmo senz’altro aspettati che Lui la ascoltasse secondo il suo solito, che accogliesse le sue richieste, che fosse più buono con lei. E invece no! Gesù vede le cose con altri occhi rispetto ai nostri: e ce lo fa capire subito, tornando al senso della discussione con i farisei di poco prima: non basta cioè desiderare di cambiare, di uscire da certe situazioni, avere ottime intenzioni. Bisogna essere convinti, consapevoli di ciò che si vuole o non si vuole, essere pronti ad accettare tutte le conseguenze e quindi agire coerentemente. Il desiderio, anche se forte, non basta, non è sufficiente.
Se Gesù avesse esaudito subito questa donna, nessuno avrebbe capito se era sincera o meno, se voleva a tutti i costi la guarigione della figlia, oppure se si comportava così, tanto per mettere Gesù alla prova; se aveva fede a sufficienza, se era pronta ad affrontare qualunque contrarietà, qualunque umiliazione, pur di ottenere quello che chiedeva. Per questo Gesù esaspera qui la situazione: adotta cioè lo stesso modo di ragionare del suo tempo, secondo cui i pagani (e questa donna era pagana) rispetto agli ebrei, “popolo eletto”, erano né più né meno dei “cani”, una razza inferiore, passibili quindi di ogni disprezzo. Ecco l’insegnamento: come ebreo, Gesù ha voluto premettere alla sua successiva azione salvifica, un richiamo esplicito a tale mentalità preconcetta ribadendo appunto che la sua opera messianica era riservata esclusivamente “alle pecore perdute della casa d’Israele” per dimostrane poi con i fatti l’assoluta incongruenza. Come se volesse dire: “È chiaro fin qui? Sono in linea con le Scritture e la tradizione? Bene: da qui in poi vi dimostro il nuovo della mia missione: per me, pagano o ebreo che sia, non fa alcuna differenza; tutti meritano la mia attenzione, ma ad una condizione: che le loro parole siano coerenti con quello che pensano; tutti sono uguali ai miei occhi; ma l’importante, l’essenziale, è che lo spirito con cui essi si rivolgono a me nell’affrontare i casi della vita, sia sincero, senza secondi fini; perché è il loro retto comportamento, le loro oneste intenzioni, la sincerità dei loro cuori che li rendono graditi ai miei occhi”. Ecco la spiegazione. Gesù è un uomo libero, assolutamente libero: libero di mettere in discussione la propria tradizione, sia religiosa che sociale. E ne dà immediatamente la prova: appena la donna ha superato l’esame sulla sua sincerità, e tutti i presenti hanno potuto constatarne la “purezza”, la grande fede, udendo la sua risposta sui “cagnolini” che si accontentano di ricevere anche solo le briciole che cadono dalla tavola degli “eletti”, Gesù cambia improvvisamente atteggiamento: sembra quasi sorpreso, colpito, meravigliato. Come se dicesse: “O donna, mi hai conquistato, non l’avrei mai pensato, non l'avrei mai detto. Forse mi sono sbagliato sul tuo conto; sia fatto come tu chiedi”. La prova della donna è superata. La misericordia di Dio ha trionfato ancora una volta.
Possiamo cogliere qui, per inciso, un altro insegnamento di Gesù: Fratelli miei, se c'è da cambiare idea (e qui Gesù ha fatto vedere di averla cambiata!), se c’è da ricredersi rendendosi conto di aver sbagliato, ebbene, bisogna farlo! Non dobbiamo essere come quelli che rimangono sempre caparbiamente sulle loro posizioni, che non accettano mai, per principio, la possibilità che le cose possano essere diverse, che i tempi cambino, che le stesse persone e le loro opinioni cambino. Chi non cambia mai, non va mai a fondo nelle cose, vive in superficie. Le sue corte radici non lo alimentano, non vuole fare la fatica di cambiare. E così la sua mente muore. Morte infatti vuol dire rigidità, staticità, sepoltura, significa imbalsamare tutto, cose e persone. La vita invece è mutazione, è scorrere, é divenire. Niente è mai tutto uguale. Oggi non è ieri. Quest'estate non è quella dell'anno scorso. Nessun albero è uguale ad un altro. Chi ci sta vicino, genitori, figli, conoscenti, amici, confratelli o consorelle, a guardarli attentamente, non sono più quelli di sei mesi fa. Tutto diviene. Crescere è lasciarsi mettere in discussione. Chi cambia è sempre giovane. Chi cambia non si annoierà mai. Chi rimane sempre lo stesso è già vecchio. Chi rimane sempre lo stesso troverà scontata e insignificante la sua esistenza.
Ma torniamo al personaggio centrale del vangelo, alla donna Cananea, una donna straziata dalla sofferenza, che ci offre la chiave per altre considerazioni. La donna va da Gesù perché sua figlia è ammalata. Si sente in ansia per sua figlia. Questa donna ama sua figlia, non c'è dubbio, ma l'amore non basta. Bisogna fare qualcosa, bisogna far vedere praticamente come si ama. La figlia è ammalata e la madre dice a Gesù: “Pietà di me!”. La madre chiede perdono di sé o per sé? O questa madre è semplicemente stanca della vita d’inferno che la malattia della figlia gli ha creato? Oppure chiede perdono perché si rende conto che se sua figlia è così, lei in qualche modo ne è colpevole, lei c'entra? Queste parole ci fanno pensare proprio questo, che l'origine o la causa della malattia risieda nella madre. Del resto, quante madri si colpevolizzano per i fallimenti dei figli! E pensano: Se e quando la madre guarisce, quando la madre sarà perdonata per le sue deficienze e potrà guarire, anche i figli guariranno, perché è giusto che la persona che ne ha causato la malattia, sia la stessa che li porta anche a guarigione.
La donna cananea è decisa, forte, cocciuta, determinata. Va da Gesù e gli grida dietro. Ma lui si gira dall’altra parte e se ne va per la sua strada. Forse a noi sarebbe bastato questo rifiuto per desistere. Ma a lei no, lei continua a seguirlo e a gridare. I discepoli la giudicano con sufficienza e fastidio. Chi non si sarebbe sentito umiliato e svergognato, offeso e indignato? Ma lei non si arrende. Raggiunge Gesù, si butta a terra e implora. E lui le dice ancora di no. “Ma cosa vuoi da me?”. A questo punto delusione, rabbia, umiliazione, disperazione, avrebbero invaso il cuore di chiunque. Ma lei continua. Questa donna non teme il giudizio, non teme l'impopolarità, non teme la derisione. Questa donna è un gigante, un'eroina, una donna selvaggia che non si arrende e che per questa sua energia otterrà ciò che vorrà. È perché vuole con tutta se stessa la guarigione della figlia che alla fine l'avrà. È perché è disposta a tutto, anche di cambiare radicalmente, che sua figlia guarirà. Capito il messaggio?
Nel Padre Nostro, fratelli, Gesù ci raccomanda di pregare: “Sia fatta la tua volontà”. Ma di fronte a tanta fede, a tanta perseveranza, Gesù capovolge tutto: “Donna, sia fatta la tua volontà. Ti sia fatto come desideri”. Perché, come ho detto, desiderare è volere, è provarci con tutte le forze, è agire, muoversi, è fare tutto ciò che è possibile fare; è, come per questa donna, non vergognarsi di perdere la faccia; è cambiare idea su di sé, è trovare soluzioni creative, è vincere la paura di essere rifiutati (da Gesù), è piegare il destino, è credere fino in fondo, costi quel che costi. L’importante non è tanto “se” ci crediamo, ma “quanto” ci crediamo! Facciamo tesoro, fratelli, di questo importante e vitale insegnamento. Perché Gesù ci accorderà sempre quello che chiediamo, in base però a “quanto” e a "come" noi lo desideriamo e lo chiediamo. Amen.

mercoledì 3 agosto 2011

7 Agosto 2011 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

Il testo del vangelo di oggi segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani di domenica scorsa. Saziata la folla Gesù, con fare deciso, costringe i discepoli a salire sulla barca per fuggire proprio da quella folla che, dopo il portentoso miracolo cui aveva assistito, lo considerava sempre di più un “uomo-mito”. Gesù sapeva perfettamente quanto fosse pericoloso il consenso generale e il successo, conseguiti oltretutto in un contesto di così grande emozione. Certo, essere importante, essere famosi, ci fa piacere, ci fa sentire qualcuno, ci fa sentire amati, voluti, desiderati. Ma insegna Gesù bisogna fare attenzione, perché il successo può dare veramente alla testa: si rischia di stravolgere la propria vita, di non vivere più come siamo, o come dovremmo essere, per finire di vivere unicamente condizionati dall’idea fissa di mantenere e accrescere il successo ottenuto, la fama, la gloria. Per questo Gesù, senza frapporre indugi, ordina ai discepoli di abbandonare la scena: e lui stesso si ritira in un luogo appartato, per pregare in solitudine.
E qui appare immediatamente una contrapposizione: Gesù se ne sta da solo mentre i discepoli sono insieme; Lui è sulla terra ferma, sul solido, sul sicuro, mentre loro sono nell'acqua, nell'instabilità, nella insicurezza. Lui è calmo, tranquillo, sereno nella sua immobilità, mentre loro si agitano, si affannano e lottano senza combinare nulla.
Una contrapposizione che si risolve in un evidente invito: in altre parole il vangelo ci dice: “ritagliatevi del tempo per voi e vivetelo in solitudine; non abbiate paura di restare da soli, di fronte a voi stessi.
Nella vita assistiamo a due forme di solitudine: una, che è frutto di isolamento, di incapacità di relazionarsi, di dirsi e di aprirsi; una solitudine che è frutto di caratteri difficili, egocentrici, narcisisti, di coloro che vedono solo loro stessi al centro dell'universo, e per questo vengono abbandonati, lasciati da soli, isolati, da quanti li circondano; una solitudine che si chiama “chiusura”. Ma c'è anche una solitudine buona, anzi necessaria. È quando l'uomo si mette di fronte a se stesso, davanti a quello che lui realmente è, a quello che è il mondo, al vero senso della vita, alle sue paure, al suo desiderio di infinito; e questa solitudine è “preghiera”.
L'uomo matura soltanto nella solitudine, solo mettendosi di fronte a se stesso e guardandosi in faccia, guardandosi negli occhi, scrutandosi nel profondo del suo cuore, sinceramente, senza nascondersi la verità. Può essere un momento molto duro e doloroso ma è il momento della verità. È il silenzio, il deserto, lo smarrimento, quando finalmente smette di raccontarsi bugie, di illudere se stesso.
Noi amiamo la confusione: quella illusoria della televisione o il frastuono assordante di una discoteca, delle piazze o degli stadi; noi amiamo il caos, le strade affollate, il rumore, la moltitudine di gente. Gesù invece se ne va da solo in montagna, in luoghi solitari, separati e isolati. Ed è questa la solitudine che ci dà solidità, che ci permette di non girare a vuoto spiritualmente, che ci fa sentire bene con noi stessi. Noi abbiamo molta paura di fermarci e di guardarci in faccia. Siamo ancora dei bambini, siamo infantili e immaturi; non riusciamo a vivere senza che ci sia qualcuno al nostro fianco, abbiamo costantemente bisogno di presenze, di appoggi, di conferme, di assensi, di lodi e di riconoscimenti. Stiamo insieme ad altri non per amore, ma perché non riusciamo a stare da soli, per egoismo. E questo, fratelli miei, è indice di malessere, perché chi non si inserisce nella comunità, chi non sta bene col suo prossimo, chi è “chiuso”, è un uomo che non sta bene neppure con sé stesso.
Per gli ebrei, popolo legato alla terra, le acque erano il simbolo del caos, del pericolo, dell'ignoto, di tutto ciò che fa paura, del disordine, della confusione, del buio all'inizio della creazione. Il potere di Dio, invece, è quello di dominare le acque. Giobbe descrive Dio come “colui che ha camminato (calpestato) la schiena del mare”(Gb 9, 8). Il grande evento del popolo ebreo è il passaggio del Mar Rosso: Dio domina le acque e le divide. Il Siracide descrive Dio che cammina sulle acque del mare (Sir 24, 5-60).
Anche noi siamo come i discepoli sulla fragile barca, al largo della nostra vita: le acque agitate sono i nostri problemi, le nostre paure; rappresentano cioè tutto quello che non siamo in grado di dominare e di controllare. Anche noi, di fronte a tali situazioni incontrollabili, ci sentiamo smarriti come e più di loro: ci sentiamo nella bufera, e per quanto ci impegniamo di remare, di “governare” la barca, ci rendiamo conto che non basta. Sentiamo improvvisamente di non farcela; sentiamo di non essere più in grado di gestire o di controllare le cose. A noi piace gestire sempre tutto, tenere tutto sotto controllo, avere la vita nelle nostre mani: ma non è così. In certe situazioni ci sembra di affogare, di annegare, di colare a picco. Che fare allora? Ci dobbiamo fidare. Come Pietro, abbiamo paura di non farcela. Spinti dalla necessità, magari proviamo anche di uscire dalla nostra barca, di avventurarci, facciamo pure qualche passo, ma poi ci assale il dubbio, la paura, il terrore… e affondiamo!
Con Pietro diciamo a Gesù: “Signore, se sei tu, comandami di venire da te…”.Ma è proprio quel “se sei Tu” che rivela il nostro dubbio, che lascia trasparire le nostre ansie, le nostre paure, le nostre deficienze: ce la faremo a resistere una vita? Diventeremo ciò che “dobbiamo” diventare? Riusciremo a cambiare? Saremo felici? Arriveremo fino in fondo? Perderemo la fede? Ci accontenteremo? Ci adatteremo? Pietro e noi affondiamo perché dubitiamo. Affondiamo perché cerchiamo la sicurezza, la certezza; vorremmo controllare tutto, vorremmo garantirci prima di iniziare il viaggio, vorremmo non aver paura. Ma non è possibile. Allora ci sono due alternative: cedere al dubbio o aprirsi alla fiducia. Se guardiamo solo a noi, affondiamo. Non dobbiamo guardare alle nostre forze personali, a quello che siamo capaci di fare, a ciò che siamo: dobbiamo invece soprattutto cominciare: dobbiamo buttare tutto alle nostre spalle, continuare a camminare, andare avanti, tenendo lo sguardo fisso su di Lui, su Dio. Fidiamoci di Dio, di Lui che è Vita e… vedrete: cammineremo sulle acque, passeremo attraverso il fuoco, affronteremo l’impossibile.
Nella barca il più delle volte stiamo bene, ci sentiamo protetti, crediamo di essere al sicuro. Ma ad un certo punto però, la vita ci impone di uscire, ci chiede di fare delle scelte insondabili, non possiamo più tergiversare: allora prendiamo tutte le nostre forze, usciamo dalla sicurezza, dalle certezze, e andiamo dove il Signore ci chiama. In quel momento, fratelli, non siamo più sulla barca, camminiamo sulle acque, siamo soli. Non ci sono più i nostri appigli, le nostre solide prese, i genitori, gli amici, i confratelli, a cui ricorrere. Dobbiamo arrangiarci, dobbiamo farcela ad ogni costo, dobbiamo galleggiare altrimenti affondiamo. E se alla sera ci assale la nostalgia, sentiamo la precarietà del nostro camminare, siamo tentati di tornare indietro; quando sentiamo l’atrocità del dubbio invadere i nostri cuori, quando non crediamo più in noi stessi, quando tutto ci apparirà impossibile, e ci volgiamo a guardare indietro, ecco: questo è il momento in cui affondiamo, è il momento in cui sprofondiamo. Che fare allora? Come ha fatto Pietro: perché è questo, fratelli, il momento di guardare a Gesù, è questo il momento di tendergli le mani: fidiamoci di Lui, ascoltiamo la sua voce che ci sussurra: “Coraggio, non aver paura, ci sono io; esci pure dalla barca delle tue sicurezze e vieni tranquillamente verso di me”. Bene, fratelli: buttiamoci tranquillamente allora; e vi assicuro che ce la faremo. Perché solo così impareremo cosa vuol dire la fiducia e la fede; capiremo allora di aver avuto sempre solo paura (che noi chiamavamo religiosità) che ci tratteneva e ci bastava; constateremo che Lui non ci abbandona mai; lo incontreremo e gli daremo la mano, facendo finalmente esperienza diretta di Dio perché fino ad allora, forse, dentro la nostra barca, Lui non c'era. E impareremo che fede è rischiare, osare, uscire dalle certezze, fidarsi, affondare ed essere salvati.
E concludo: stendiamo la nostra mano verso Gesù: se guardiamo alle nostre forze non possiamo che dubitare di noi e ne saremo sommersi. Se guardiamo alle nostre forze non possiamo che dire: “ Non ce la faremo mai, non ne siamo capaci”. Se guardiamo al mare, ai problemi, ci spaventiamo, ne saremo terrorizzati e angosciati. Se guardiamo al vento, agli ostacoli, alla gente e agli eventi sfavorevoli, ci demoralizziamo e affondiamo. Guardiamo invece Gesù. Confidiamo in Lui. Chiediamo aiuto a Lui. Noi non possiamo, ma Lui può. Stendiamo la nostra mano, Lui stenderà la sua. Se di fronte ad un problema noi abbiamo dei dubbi, pensiamo forse che Dio non possa farcela? Allora: confidiamo in Dio, non guardiamo né il mare, né il vento: guardiamo solo a Lui e camminiamo. Teniamo il nostro sguardo su di Lui, teniamo la nostra mano nella Sua, e avverrà il miracolo: anche noi cammineremo sulle tue acque. Amen.


mercoledì 27 luglio 2011

31 Luglio 2011 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Il miracolo raccontato dal vangelo di oggi, la moltiplicazione dei pani, è l'unico miracolo riportato da tutti e quattro gli evangelisti. Gli esegeti però concordano nel dire che più di un fatto storico, realmente accaduto, gli autori avrebbero voluto qui sottolineare la straordinaria distribuzione di pochissimo cibo ad una moltitudine eccezionale di persone; un po’ sulla falsariga di quanto già narrato per Eliseo: con la differenza che egli con venti pani aveva sfamato solo quattrocento persone (2Re 4,42-44), mentre Gesù, con un numero minore di pani e due soli pesci, sfama una folla nettamente superiore. Potenza del Messia! Inoltre chi ha raccontato questo brano dimostra di conoscere quanto è accaduto nell’ultima cena di Gesù, come lo rivelano le stesse parole usate (“prese i pani, pronunziò la benedizione, li spezzò e li diede ai discepoli). Pertanto il messaggio veicolato è: “Ogni volta che noi celebriamo l'eucarestia avviene questo miracolo: Dio si da a tutti e sfama tutti”.
Ma seguiamo il testo: Gesù cerca un luogo appartato. Pressato dalla gente e dal bisogno di stare un po’ da solo per ritemprarsi, per ascoltarsi, per riposare, sale su una barca e si allontana. Quando ritorna, la folla si era moltiplicata: una moltitudine enorme di gente lo stava aspettando: gente accorsa dalle città, che per vederlo aveva fatto tanta strada; e lo aveva aspettato. Dove c'è la verità la gente aspetta, si mette in coda e fa molta strada, cioè sacrifici, sforzi, chilometri, per ascoltarla. Perché la verità guarisce, e sazia.
Ma sta sopraggiungendo la notte, il luogo è deserto, e un problema assilla i discepoli: “Qui si fa sera, la gente ha fame. Come facciamo?”. Ed ecco il miracolo. Una straordinaria moltiplicazione di cibo che ci dice anche: “più si condivide e più le cose si moltiplicano, bastano per tutti”. L'unione fa la forza. Condividiamo quello che abbiamo, quello che siamo, quello che conosciamo e tutto si moltiplicherà. Se ci mettiamo insieme, i miracoli avvengono. Se ognuno fa la sua parte, l'impossibile diventa possibile. In qualunque realtà sociale, lavorativa, religiosa, più ognuno mette a disposizione degli altri le proprie informazioni, le proprie capacità e risorse professionali, umane e spirituali, più quella realtà funzionerà, raggiungerà i suoi obiettivi. In una comunità, in una parrocchia, in una famiglia, più si condivide ciò che si vive, ciò che si prova, gli alti e i bassi delle proprie giornate, più l'unione si moltiplica, diventa forte, intima e profonda. Una gioia condivisa si moltiplica; un dolore condiviso si dimezza. In un pranzo, se ognuno porta qualcosa e poi si condivide, tutti mangiano a sazietà, e ne rimane ancora sempre tanto.
Mentre la società moderna tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a singolarizzarci, noi abbiamo bisogno di metterci insieme, di aiutarci, di condividere, di offrire ciascuno ciò che può offrire.
E questo è l’ulteriore significato del miracolo: “quel che sembra impossibile spesso non lo è”. “Essere credenti scriveva in proposito padre Balducci significa assumere l'impossibile come possibile”. Cinquemila uomini, un’impresa impossibile. Ma non per Gesù. Non per chi crede veramente. Le cose molte volte non sono impossibili; le immaginiamo tali, ma sono solo faticose: sono “impossibili” perché ci costringono a faticare, ci costringono a cambiare e a rivoluzionare la nostra vita. E questo ci spaventa, ci porta ad evitarlo.
Questo vangelo è un meraviglioso inno all'umiltà: “fidati di quel poco che sei, di quel poco che hai”. Cinque pani e due pesci è quello che siamo noi. Cosa siamo? Beh siamo proprio ben poca cosa; se guardiamo a quello che siamo dentro, alle nostre capacità, alle nostre doti, a ciò che possiamo fare o che siamo capaci di fare, beh siamo proprio ben poca cosa. E quante persone dicono: “Non sono capace di far niente! Come potrei realizzarmi nella vita con così scarse capacità?”
Ma è proprio questo il miracolo della vita e del vangelo, fratelli miei: ciò che per l'uomo è scarso, piccolo, limitato, per Dio è infinitamente grande, prezioso, senza limiti. E se ci fidiamo di quel poco che siamo, che Dio stesso ha creato, faremo sicuramente cose grandi.
A tutti noi piacerebbe avere doti straordinarie, essere bravi musicisti, atleti, simpatici ed empatici, avere doti fuori dal comune, essere abili nell'informatica, nelle lingue, profondi e sensibili con le persone. Ma se avessimo tutto questo ci crederemmo probabilmente “superiori”, dotati di poteri divini, altrettanti dei; e Dio, conoscendo bene questo pericolo, non ci ha dotati di troppe capacità, ci ha dato cinque pani e due pesci.
Se guardiamo a quello che abbiamo, a quello che siamo, allora ci deprimiamo, allora pensiamo che non andremo da nessuna parte nella vita, allora ci sentiremo dei falliti. Se guardiamo a quello che non c'è, a quello che dovremmo essere, a quello che non siamo, non faremo mai nulla. Ma è qui, fratelli miei, che deve emergere la nostra fede: guardiamo pure a quel poco che abbiamo, ma se avremo fede e ci fideremo di ciò che Dio ha messo nel nostro cuore, compiremo cose grandi e meravigliose.
Il vangelo, in particolare, di fronte al poco che c'è, ci presenta due atteggiamenti: quello dei discepoli, che disprezzano quel poco che hanno: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci”, come a dire, “ma cosa vuoi pretendere con questa miseria che c'è”; e quello di Gesù che, invece, prende quella miseria, guarda il cielo (cioè ringrazia Dio per quel che c'è) e la benedice.
Sono i due atteggiamenti che noi possiamo avere nei confronti della nostra vita: la possiamo disprezzare o benedire. Possiamo dire: “Non sono niente; ah, se avessi...; beati quelli...; perché Dio mi ha creato così povero”; oppure posso ringraziare e benedire per ciò che sono: “Dio mi ha dato questo e tocca a me sviluppare quello che sono. Quello che ho, quello che sono mi è stato dato perché io faccia miracoli”.
Ovviamente la maggior parte di noi crede che il fare miracoli sia riservato soltanto ad alcuni eletti, agli altri “piu” di noi, mai a noi stessi. La maggior parte di noi vive di un complesso di inferiorità cronico: “Sono meno degli altri; se avessi quello che hanno gli altri...”. E così facendo continuiamo a rincorrere, a volere, a desiderare ciò che non abbiamo, ciò che non siamo, piuttosto che far crescere e sviluppare quello che siamo. La maggior parte di noi vive di un complesso cronico di non accettazione: “Quello che sono non va bene; non sono niente”. Abbiamo il timore di essere brutti, inadeguati, inferiori. E siccome lo crediamo, piano piano, inesorabilmente, lo diventiamo.
Sentiamo ripetere ovunque la classica frase: “Accettati per quello che sei”. Ma la realtà è che quasi tutti noi non ci accettiamo, ci vorremmo diversi, più belli o più intelligenti, più simpatici o più atletici e quant'altro. Bene: questo vangelo ci dice che dobbiamo imparare ad accettarci per quello che siamo, dobbiamo prendere quei cinque pani e due pesci, che siamo noi. Amarsi vuol dire accettare ed essere felici per quello che siamo, così come lo siamo oggi.
Aver fede è prendere sul serio che quello che siamo viene dall'Alto, viene da Dio. Se veniamo da Dio, se è Lui che ci ha creati, allora in noi c'è la Sua forza. Voler essere diversi da ciò che siamo è dire a Dio che si è sbagliato con noi, che ha creato qualcosa di scarso e di fatto male. Aver fede è avere l'umiltà di credere che in questa piccola creatura che siamo, c’è veramente la sua grandezza e la sua forza.
Infine, questo vangelo in questi giorni di affanno economico ci dice: “anche se non sembra, ce n'è per tutti!”. Bisogna solo avere il coraggio di attuarlo. Non è un vangelo neutrale; ci costringe tutti a prendere una posizione: prendiamo la posizione che vogliamo, ma non possiamo lavarcene le mani, perché, il farlo, è già una posizione, una scelta. Non possiamo non scegliere: o ci mettiamo nella logica di condividere quello che c'è, tra tutti, e ce ne sarà per tutti; oppure ci mettiamo nella logica del profitto, dell’egoismo, dell'accumulo personale di ricchezze, e non ce ne sarà per tutti. La logica della vita, quanto mai attuale oggi, è: un po' meno per me, ma per tutti. Contrariamente alla logica della morte che dice: io mangio, produco, consumo, e degli altri “non me ne frega niente”. Ma un giorno dovremo rendere conto di tutti questi morti anonimi per fame: per il fatto che non li uccidiamo fisicamente o che non vediamo con i nostri occhi i corpi morti, non vuol dire che non ne siamo colpevoli o responsabili. E saranno proprio loro a giudicarci. Si, perché quel “distribuire a tutti il pane” vuol dire anche che siamo un'unica famiglia. È questo il vero concetto di globalizzazione. Siamo un'unica grande famiglia. Il bene, o è di tutta la famiglia, o tutta la famiglia ne soffrirà. Invece: “Tieni tutto per te... Tieni tutto per te... “ è quanto suggerisce l’egoismo. Riempiamo i nostri frigo di verdura, di frutta, carne e formaggi. Non diamoli a nessuno e non condividiamo con nessuno; non rischiamo che poi magari rimaniamo senza! Sapete cosa poi succederà? Che ne butteremo via un sacco. “Tieni il tuo tempo tutto per te...” non diamolo a nessuno, non facciamo niente per gli altri, e sapete che cos'accadrà? Accadrà che ci sentiremo completamente soli e inutili. “Tieni le tue cose tutte per te...” non prestiamole a nessuno perché ce le potrebbero perdere o rovinare. Sapete cosa accadrà? Accadrà che nessuno ci vorrà e che il nostro animo diventerà duro e sospettoso. Una statistica rivela che più si sale nella scala sociale (per ricchezza e status sociale) e più la gente è infelice e si suicida. “Tieni tutti i tuoi soldi per te... “e accumuliamo, accumuliamo, accumuliamo: sapete cosa accadrà? Un giorno verrà l'angelo della morte, porterà via tutto, lasciandoci senza niente, senza alcuna opera buona da presentare a Dio! Fratelli miei, che non ci succeda mai! Amen.

martedì 19 luglio 2011

24 Luglio 2011 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile...» Matteo nel vangelo di oggi ci spiega ancora, mediante tre parabole molto concise, a cosa sia paragonabile il Regno dei cieli: questa volta ad un tesoro, ad una perla e infine ad una rete. Solo lui ha queste parabole e forse non è un caso: lui era un ex pubblicano, un uomo d'affari, per anni aveva inseguito il sogno di diventare ricco, una vita di tesori, e improvvisamente aveva trovato, incontrando Gesù, l’unico tesoro della vita. Ciò che accade nelle prime due parabole è quantomeno un po’ strano: chi è che trova un tesoro per caso? È rarissimo, ma forse per quei tempi la cosa poteva essere più realistica: non c'erano né banche né casse di risparmio, allora; per custodire denaro e preziosi, l’unico modo sicuro era quello di nasconderli in un posto segreto. Comunque sia qui ci troviamo di fronte a due uomini particolarmente fortunati: il primo è il classico baciato dalla fortuna, che per puro caso si imbatte in un tesoro; il secondo invece è un ricercatore di fortune, di tesori, un professionista, uno che lo fa per mestiere. Entrambi comunque, di fronte all’improvvisa ricchezza, colgono l'occasione e si mettono in gioco a modo loro. E fanno bene: perché certe situazioni, certe opportunità, si verificano una volta sola nella vita, non si ripetono più, e bisogna saperle cogliere al volo. La vita infatti, di tanto in tanto, ci chiama a fare delle scelte radicali: scelte che mettono in discussione tutte le nostre abitudini, scelte che ci cambiano completamente le carte in tavola, che ci spiazzano; e a questo punto è necessario rischiare e puntare tutto lì. Bisogna essere determinati, avere le idee chiare.
I due uomini del vangelo invece, per chi li vede da fuori, non sembrano molto furbi: infatti, come si fa a giustificare uno che vende tutti i suoi averi per comprare un pezzo di terreno incoltivabile, arido e sassoso come quelli della Palestina, basandosi solo sulla speranza di trovare altri tesori? E quell’altro che vende tutto il suo patrimonio per comprare una pietra preziosa? Per quanto possa essere preziosa, che se ne fa? con che cosa campa? E spostiamo il discorso pure sugli uomini che seguono Gesù: lasciano tutto, lavoro, famiglia, averi, mettendosi al seguito di uno, senza arte né parte, che se ne va in giro senza meta, a predicare tutto il giorno. Sono tutti dei folli, degli sprovveduti? No, fratelli, solo apparentemente: perché sono essi che ci danno il vero significato delle parabole. Parabole che sono di grande attualità: perché anche noi siamo nella stessa loro situazione: tutti noi abbiamo il nostro tesoro, il nostro ideale, il nostro “Dio”; per raggiungerlo anche noi siamo disposti a fare di tutto, a sacrificare tutto, perfino l’impossibile. E se non riusciamo a farlo nostro, oppure se trovatolo lo perdiamo, ci disperiamo, cadiamo in depressione. Questa è la realtà, fratelli miei.
Gesù diceva: “Dov'è il tuo tesoro lì c'è il tuo cuore”; e diceva una grande verità. È una legge della natura. La cosa a cui più pensi, che più ti ritorna in mente, che più desidereresti nel tuo intimo, quella che sogni continuamente, beh, proprio quella è il tuo “tesoro”, è il tuo Dio. Non quello che sei incerto se volere o meno, non quello che dici di desiderare, ma quello che ti è diventato un’idea fissa, un’ossessione, quello di cui parli in continuazione: ecco quello e solo quello è il tuo “tesoro”. Per alcuni questo tesoro può essere l’onore, o un determinato altro valore; per altri una persona; per altri ancora il benessere, la bella vita, una bella casa. Infine, per i più fortunati, il tesoro più prezioso è Dio, la sua amicizia, il suo amore.
Ma questa parabola non si ferma qui: oltre che identificare Dio nel “tesoro” più prezioso, dice anche che tutti noi siamo un “tesoro”: un tesoro nascosto. Siamo dei tesori, ma nessuno se ne accorge: e quando poi finalmente qualcuno ci nota, ci scopre, ci tira fuori dal nostro nascondiglio, dal nostro camuffamento, ci offre la nostra grande opportunità, ci dà una seconda vita. Sì, perché noi, fratelli, abbiamo proprio bisogno che qualcuno ci scopra, che qualcuno metta in luce la nostra positività, che ci faccia sentire importanti, che ci faccia sentire unici; abbiamo bisogno che qualcuno creda in noi: se nella nostra vita ciò non dovesse mai succedere, possiamo pure coprirci di ori, di soldi, di gioielli, di titoli, di perle e di preziosi, ma non servirebbe assolutamente a nulla, perché non saremmo felici, ci sentiremmo comunque dei falliti, dei perdenti. Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci dica: «Sei il mio “tesoro”; sei la cosa più cara che ho». Abbiamo bisogno di sentire che per qualcuno siamo davvero importanti, speciali, unici e insostituibili. Abbiamo bisogno di qualcuno che, fra i tanti, scelga proprio noi e nessun altro. Ecco: noi non ce ne rendiamo conto, ma nella nostra vita questo qualcuno c’è già: è Dio. Noi siamo il suo “tesoro”, siamo noi il “tesoro” di Dio, fratelli. Egli ci riempie di attenzioni, non ci lascia mai soli, previene ogni nostra necessità; in una parola ci riempie di un amore costante, incomprensibile e quasi irrazionale. Noi siamo importanti per Lui; per questo dobbiamo sentirci impegnati nei suoi confronti: dobbiamo capire che non possiamo buttar via la nostra vita, perché è troppo preziosa per Lui, visto che è Lui stesso che ce l’ha data. Se capiamo questo, non avremo più bisogno di nulla, non ci servirà più l’ammirazione degli altri, non avremo più bisogno che gli altri ci ripetano quanto siamo bravi, belli e buoni. Siamo il “tesoro” di Dio e questo ci basterà. I riconoscimenti del mondo saranno inutili, un nulla.
Ci siamo mai chiesti perché la gente si lascia andare, perché si abbandona, perché invece di vivere, sopravvive? Perché cade in depressione? Perché “tira avanti”? Perché molti si tolgono la vita? Perché molti giovani finiscono ai margini della società, nella delinquenza, nell’alcool, nella droga? È perché si sentono nessuno, inutili, una nullità; perché nessuno li apprezza, nessuno li ha mai fatti sentire unici, speciali, dei veri “tesori”. E poiché si sentono una schifezza, si buttano via: cosa che invece non si pone neppure, per chi si sente prezioso agli occhi di Dio!
È naturale. Ci siamo mai chiesti perché, quando rimoderniamo casa, o la mettiamo in ordine, buttiamo via le vecchie cianfrusaglie e non i monili d'oro altrettanto vecchi? Perché l’oro ha un suo valore, un valore duraturo. E perché la gente si butta via? Perché non capisce di avere un valore altrettanto duraturo, e nessuno glielo dice, nessuno glielo spiega. Allora andiamo dalle persone che amiamo, e facciamo capire loro cosa vuol dire: “Tu sei il mio “tesoro”. Tu non sai quanto sei prezioso per me”. Andiamo dai nostri figli, dai nostri cari, dalle persone care, dagli amici veri, e non vergogniamoci di riconoscere apertamente quanto teniamo a loro, quanto sono importanti per noi. Alcuni non si rendono conto di quanto, il loro esistere, il fatto che loro siano lì, sia importante per altri fratelli. Non sanno di essere considerati degli angeli, dei riferimenti, dei rifugi per la vita di queste persone. Non sanno di avere un grandissimo valore per gli altri. Lo saprebbero soltanto se qualcuno, se noi, una buona volta glielo dicessimo!
Per questo i racconti delle parabole sono dei programmi di vita per tutti noi, sono delle vere e proprie “chiamate”. Tutti siamo invitati a cercare il tesoro, il bene, il positivo che c'è in noi e nelle persone che ci sono vicine. Quando Michelangelo fece la Pietà e gli fui chiesto come avesse fatto a scolpire un capolavoro simile, lui rispose di aver soltanto tirato fuori l'immagine che era imprigionata dentro il marmo. L'aveva vista, l'aveva scoperta e l'aveva tirata fuori. In ognuno di noi c'è un tesoro, c'è qualcosa di bello, di meraviglioso. Sta a noi cercarlo e tirarlo fuori.
Ognuno trova ciò che cerca: se ci mettiamo a cercare il male che c'è nel mondo, beh ne scopriamo tantissimo, e tanto altro ci aspetta per essere scoperto; se ci mettiamo a scoprire quanta bontà c'è nel mondo, beh ce n'è altrettanta e sicuramente ancora di più aspetta di essere scoperta; se cerchiamo le imperfezioni del nostro corpo ne troveremo a migliaia; se cerchiamo i nostri peccati ne troveremo tanti, proprio tanti; e se domani cerchiamo ancora, ne troveremo sempre di nuovi. Se quando ci guardiamo allo specchio cerchiamo brufoli o rughe, stiamone certi che li troveremo. Così pure se cerchiamo nel nostro prossimo degli occhi, occhi sinceri, limpidi, occhi in grado di amare o di appassionarsi, li troveremo sicuramente. Perché noi troveremo sempre quello che cerchiamo veramente. Tutto dipende da cosa e come cerchiamo. Spesso molti si chiedono: “Come mai c'è così tanto male nel mondo?”. Raramente si chiedono: “Come mai c'è così tanto bene?”. Se cerchiamo il male e il negativo lo troviamo. Se cerchiamo il bene e il positivo, lo troviamo. Perché quando guardiamo dentro le anime, noi troviamo sempre quello che vogliamo trovare.
Quando Gesù guardava Maria Maddalena, mentre tutti vedevano in lei una donnaccia o una pazza, lui vedeva il suo valore, le sue potenzialità. Gesù la faceva sentire importante, preziosa; Gesù con i suoi occhi, con le sue parole e con i suoi gesti le diceva: “Tu sei un tesoro nascosto. Ma io ti ho vista”. E con questo la salvò. Pietro, Matteo e tutti gli altri erano gente comune, persone che si sentivano insicure e inadeguate. Ma lui li valorizzò, Lui li amò, Lui credette in loro. E loro si sentirono dei “tesori” importanti, e si comportarono di conseguenza.
La gente è portata a sopravvalutare tutto quello che fa, perché dentro si sente vuota, e così racconta delle “panzane” pur di sentirsi qualcuno; attacca gli altri perché si sente trascurata o ferita, perché si sente inferiore a loro, senza valore; fa uso di antidepressivi, o peggio di droghe, perché non riesce ad esprimere i suoi veri sentimenti. Insomma: non crede, non sa, non è convinta di essere una persona meravigliosa, una persona dalle mille risorse.
Queste due parabole ci dicono, concludendo, di iniziare a considerare noi stessi e il nostro prossimo come degli autentici “tesori” da scoprire. Siamo tutti delle belle persone. Cerchiamo, troviamo e scopriamo (portiamo cioè alla luce) la bellezza e il tesoro che ciascuno custodisce. Noi abbiamo un tesoro, meglio, siamo un tesoro. Se cerchiamo, lo troviamo, anzi ci troviamo. Ma se non ci crediamo, se non siamo convinti, questo tesoro non lo troveremo e non ci troveremo mai. Amare significa far uscire ciò che c'è di buono in noi; amare il prossimo, i fratelli, significa far uscire, mettere in luce, tutto ciò che di buono c'è in loro.
Il Libro della Sapienza dice: “Se Dio non avesse voluta una cosa non l'avrebbe neppure creata”. Quindi: se Dio non ci avesse voluti, non ci avrebbe mai creati. Traiamone allora le dovute considerazioni.
Infine c'è la parabola della rete; in pratica ci dice: ognuno, ad un certo punto, deve fare il bilancio della propria vita. La rete è il nostro esame, il mettere sotto osservazione la nostra vita; i pesci sono le nostre scelte, tutto quello che abbiamo fatto. I pesci buoni, li mettiamo da parte, perché servono, ci fanno più forti, ci maturano. Quelli cattivi, invece, li rigettiamo in mare perché non ci servono, non riescono a migliorare la nostra vita, non la maturano. E quando nel momento cruciale della vita, alla fine dei nostri giorni, ognuno dovrà tirare le conseguenze di ciò che ha pescato, costruito, investito, osato, allora, fratelli miei, non servirà più lamentarci per la bonaccia o per la tempesta! Quello che è fatto, è fatto. Allora potremo contare soltanto sulle riserve, sulle nostre risorse positive, su quei pochi pesci che abbiamo messo da parte, quelle buone azioni che, durante la nostra vita, abbiamo “pescato” e messo nel “congelatore”. Se nella nostra rete non abbiamo di queste risorse, se in vita non abbiamo messo paletti, se non abbiamo saputo controllare la nostra rabbia o vivere il dolore, se non abbiamo saputo esprimere i nostri sentimenti di carità, se non abbiamo punti di forza, allora, come da un’onda “anomala” verremo spazzati via dal ponte della nostra nave. Dovevamo pensarci prima! Dovevamo costruire prima! Fratelli miei, il futuro della nostra vita è solo nostro, è nelle nostre mani. Tutto quello che facciamo, quello che diciamo, l’intero nostro vivere, è esclusivamente nelle nostre mani, nelle scelte che facciamo: per favore non deleghiamo, non scarichiamo le nostre responsabilità sugli altri e, soprattutto, non atteggiamoci a vittime illustri e imcomprese. Amen.