Il miracolo raccontato dal vangelo di oggi, la moltiplicazione dei pani, è l'unico miracolo riportato da tutti e quattro gli evangelisti. Gli esegeti però concordano nel dire che più di un fatto storico, realmente accaduto, gli autori avrebbero voluto qui sottolineare la straordinaria distribuzione di pochissimo cibo ad una moltitudine eccezionale di persone; un po’ sulla falsariga di quanto già narrato per Eliseo: con la differenza che egli con venti pani aveva sfamato solo quattrocento persone (2Re 4,42-44), mentre Gesù, con un numero minore di pani e due soli pesci, sfama una folla nettamente superiore. Potenza del Messia! Inoltre chi ha raccontato questo brano dimostra di conoscere quanto è accaduto nell’ultima cena di Gesù, come lo rivelano le stesse parole usate (“prese i pani, pronunziò la benedizione, li spezzò e li diede ai discepoli). Pertanto il messaggio veicolato è: “Ogni volta che noi celebriamo l'eucarestia avviene questo miracolo: Dio si da a tutti e sfama tutti”.
Ma seguiamo il testo: Gesù cerca un luogo appartato. Pressato dalla gente e dal bisogno di stare un po’ da solo per ritemprarsi, per ascoltarsi, per riposare, sale su una barca e si allontana. Quando ritorna, la folla si era moltiplicata: una moltitudine enorme di gente lo stava aspettando: gente accorsa dalle città, che per vederlo aveva fatto tanta strada; e lo aveva aspettato. Dove c'è la verità la gente aspetta, si mette in coda e fa molta strada, cioè sacrifici, sforzi, chilometri, per ascoltarla. Perché la verità guarisce, e sazia. Ma sta sopraggiungendo la notte, il luogo è deserto, e un problema assilla i discepoli: “Qui si fa sera, la gente ha fame. Come facciamo?”. Ed ecco il miracolo. Una straordinaria moltiplicazione di cibo che ci dice anche: “più si condivide e più le cose si moltiplicano, bastano per tutti”. L'unione fa la forza. Condividiamo quello che abbiamo, quello che siamo, quello che conosciamo e tutto si moltiplicherà. Se ci mettiamo insieme, i miracoli avvengono. Se ognuno fa la sua parte, l'impossibile diventa possibile. In qualunque realtà sociale, lavorativa, religiosa, più ognuno mette a disposizione degli altri le proprie informazioni, le proprie capacità e risorse professionali, umane e spirituali, più quella realtà funzionerà, raggiungerà i suoi obiettivi. In una comunità, in una parrocchia, in una famiglia, più si condivide ciò che si vive, ciò che si prova, gli alti e i bassi delle proprie giornate, più l'unione si moltiplica, diventa forte, intima e profonda. Una gioia condivisa si moltiplica; un dolore condiviso si dimezza. In un pranzo, se ognuno porta qualcosa e poi si condivide, tutti mangiano a sazietà, e ne rimane ancora sempre tanto.
Mentre la società moderna tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a singolarizzarci, noi abbiamo bisogno di metterci insieme, di aiutarci, di condividere, di offrire ciascuno ciò che può offrire.
E questo è l’ulteriore significato del miracolo: “quel che sembra impossibile spesso non lo è”. “Essere credenti ─ scriveva in proposito padre Balducci ─ significa assumere l'impossibile come possibile”. Cinquemila uomini, un’impresa impossibile. Ma non per Gesù. Non per chi crede veramente. Le cose molte volte non sono impossibili; le immaginiamo tali, ma sono solo faticose: sono “impossibili” perché ci costringono a faticare, ci costringono a cambiare e a rivoluzionare la nostra vita. E questo ci spaventa, ci porta ad evitarlo.
Questo vangelo è un meraviglioso inno all'umiltà: “fidati di quel poco che sei, di quel poco che hai”. Cinque pani e due pesci è quello che siamo noi. Cosa siamo? Beh siamo proprio ben poca cosa; se guardiamo a quello che siamo dentro, alle nostre capacità, alle nostre doti, a ciò che possiamo fare o che siamo capaci di fare, beh siamo proprio ben poca cosa. E quante persone dicono: “Non sono capace di far niente! Come potrei realizzarmi nella vita con così scarse capacità?”
Ma è proprio questo il miracolo della vita e del vangelo, fratelli miei: ciò che per l'uomo è scarso, piccolo, limitato, per Dio è infinitamente grande, prezioso, senza limiti. E se ci fidiamo di quel poco che siamo, che Dio stesso ha creato, faremo sicuramente cose grandi.
A tutti noi piacerebbe avere doti straordinarie, essere bravi musicisti, atleti, simpatici ed empatici, avere doti fuori dal comune, essere abili nell'informatica, nelle lingue, profondi e sensibili con le persone. Ma se avessimo tutto questo ci crederemmo probabilmente “superiori”, dotati di poteri divini, altrettanti dei; e Dio, conoscendo bene questo pericolo, non ci ha dotati di troppe capacità, ci ha dato cinque pani e due pesci.
Se guardiamo a quello che abbiamo, a quello che siamo, allora ci deprimiamo, allora pensiamo che non andremo da nessuna parte nella vita, allora ci sentiremo dei falliti. Se guardiamo a quello che non c'è, a quello che dovremmo essere, a quello che non siamo, non faremo mai nulla. Ma è qui, fratelli miei, che deve emergere la nostra fede: guardiamo pure a quel poco che abbiamo, ma se avremo fede e ci fideremo di ciò che Dio ha messo nel nostro cuore, compiremo cose grandi e meravigliose.
Il vangelo, in particolare, di fronte al poco che c'è, ci presenta due atteggiamenti: quello dei discepoli, che disprezzano quel poco che hanno: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci”, come a dire, “ma cosa vuoi pretendere con questa miseria che c'è”; e quello di Gesù che, invece, prende quella miseria, guarda il cielo (cioè ringrazia Dio per quel che c'è) e la benedice.
Sono i due atteggiamenti che noi possiamo avere nei confronti della nostra vita: la possiamo disprezzare o benedire. Possiamo dire: “Non sono niente; ah, se avessi...; beati quelli...; perché Dio mi ha creato così povero”; oppure posso ringraziare e benedire per ciò che sono: “Dio mi ha dato questo e tocca a me sviluppare quello che sono. Quello che ho, quello che sono mi è stato dato perché io faccia miracoli”.
Ovviamente la maggior parte di noi crede che il fare miracoli sia riservato soltanto ad alcuni eletti, agli altri “piu” di noi, mai a noi stessi. La maggior parte di noi vive di un complesso di inferiorità cronico: “Sono meno degli altri; se avessi quello che hanno gli altri...”. E così facendo continuiamo a rincorrere, a volere, a desiderare ciò che non abbiamo, ciò che non siamo, piuttosto che far crescere e sviluppare quello che siamo. La maggior parte di noi vive di un complesso cronico di non accettazione: “Quello che sono non va bene; non sono niente”. Abbiamo il timore di essere brutti, inadeguati, inferiori. E siccome lo crediamo, piano piano, inesorabilmente, lo diventiamo.
Sentiamo ripetere ovunque la classica frase: “Accettati per quello che sei”. Ma la realtà è che quasi tutti noi non ci accettiamo, ci vorremmo diversi, più belli o più intelligenti, più simpatici o più atletici e quant'altro. Bene: questo vangelo ci dice che dobbiamo imparare ad accettarci per quello che siamo, dobbiamo prendere quei cinque pani e due pesci, che siamo noi. Amarsi vuol dire accettare ed essere felici per quello che siamo, così come lo siamo oggi.
Aver fede è prendere sul serio che quello che siamo viene dall'Alto, viene da Dio. Se veniamo da Dio, se è Lui che ci ha creati, allora in noi c'è la Sua forza. Voler essere diversi da ciò che siamo è dire a Dio che si è sbagliato con noi, che ha creato qualcosa di scarso e di fatto male. Aver fede è avere l'umiltà di credere che in questa piccola creatura che siamo, c’è veramente la sua grandezza e la sua forza.
Infine, questo vangelo ─ in questi giorni di affanno economico ─ ci dice: “anche se non sembra, ce n'è per tutti!”. Bisogna solo avere il coraggio di attuarlo. Non è un vangelo neutrale; ci costringe tutti a prendere una posizione: prendiamo la posizione che vogliamo, ma non possiamo lavarcene le mani, perché, il farlo, è già una posizione, una scelta. Non possiamo non scegliere: o ci mettiamo nella logica di condividere quello che c'è, tra tutti, e ce ne sarà per tutti; oppure ci mettiamo nella logica del profitto, dell’egoismo, dell'accumulo personale di ricchezze, e non ce ne sarà per tutti. La logica della vita, quanto mai attuale oggi, è: un po' meno per me, ma per tutti. Contrariamente alla logica della morte che dice: io mangio, produco, consumo, e degli altri “non me ne frega niente”. Ma un giorno dovremo rendere conto di tutti questi morti anonimi per fame: per il fatto che non li uccidiamo fisicamente o che non vediamo con i nostri occhi i corpi morti, non vuol dire che non ne siamo colpevoli o responsabili. E saranno proprio loro a giudicarci. Si, perché quel “distribuire a tutti il pane” vuol dire anche che siamo un'unica famiglia. È questo il vero concetto di globalizzazione. Siamo un'unica grande famiglia. Il bene, o è di tutta la famiglia, o tutta la famiglia ne soffrirà. Invece: “Tieni tutto per te... Tieni tutto per te... “ è quanto suggerisce l’egoismo. Riempiamo i nostri frigo di verdura, di frutta, carne e formaggi. Non diamoli a nessuno e non condividiamo con nessuno; non rischiamo che poi magari rimaniamo senza! Sapete cosa poi succederà? Che ne butteremo via un sacco. “Tieni il tuo tempo tutto per te...” non diamolo a nessuno, non facciamo niente per gli altri, e sapete che cos'accadrà? Accadrà che ci sentiremo completamente soli e inutili. “Tieni le tue cose tutte per te...” non prestiamole a nessuno perché ce le potrebbero perdere o rovinare. Sapete cosa accadrà? Accadrà che nessuno ci vorrà e che il nostro animo diventerà duro e sospettoso. Una statistica rivela che più si sale nella scala sociale (per ricchezza e status sociale) e più la gente è infelice e si suicida. “Tieni tutti i tuoi soldi per te... “e accumuliamo, accumuliamo, accumuliamo: sapete cosa accadrà? Un giorno verrà l'angelo della morte, porterà via tutto, lasciandoci senza niente, senza alcuna opera buona da presentare a Dio! Fratelli miei, che non ci succeda mai! Amen.
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