Tendenzialmente tutti soffriamo di vittimismo; le ingiustizie sofferte, vere o immaginarie, sono il nostro pane quotidiano; siamo normalmente portati a ricordare più le cose brutte che quelle belle, preferiamo soffermarci più sul negativo, che guardare al positivo, alla gioia, al bene, alla fortuna, all'amore che c'è vicino a noi. Questa è la natura umana: ma noi cristiani non possiamo ingigantire e amplificare continuamente le disavventure, le disgrazie, le avversità, che purtroppo ci sono, e non accorgerci mai di tutta la luce e l'amore in cui siamo immersi. Equivarrebbe a non voler vedere, a non voler ammettere l’evidenza: una assurdità.
È questo, in estrema sintesi, il senso della preghiera di Gesù che il vangelo di oggi ci propone: più che una preghiera il suo è un grido di giubilo, uno slancio del cuore, un inno di gioia. Gesù si lascia andare, si lascia trasportare dalla gioia, dall’entusiasmo, dalla felicità, dallo stupore che ha dentro il suo animo, e lascia trasparire la sua vita piena di forza, di passione, di vitalità.
Non è una preghiera classica come la intendiamo noi. È una preghiera nel senso che Gesù sa distinguere l'agire di Dio, ben diverso dall'agire umano: Dio si beffa dei grandi e dei potenti, egli si cura dei piccoli, dei poveri, degli umili.
Gesù inizia dicendo: “Ti benedico”. Ma in greco benedire, rendere grazie (™xomologšw), vuol dire anche “riconoscere”. Allora qui potremmo tradurre: “Ti riconosco, Dio, quando tieni nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le riveli ai piccoli...”.
Ti riconosco, so che sei Tu. Ti riconosco, e so che non sei Tu, quando i sapientoni di questo mondo, con tutta la loro scienza e i loro sforzi pretendono di parlare di te senza possederti, senza averti dentro, senza sentirti vibrare nel loro cuore; io me ne accorgo, perché le loro sapienti parole sono vuote e inutili.
Ti riconosco, so che non sei Tu, quando dotti preti, frati, teologi, con tutto il loro parlare e disquisire di Dio, ti rendono confuso, difficile, complesso, riducendoti ad un potente da temere, ad un Dio di cui aver paura. Ti possiedono nelle loro parole ma non nel loro cuore.
Ti riconosco, so che sei Tu quando, dopo aver visto milioni di laureati, di specialisti, di esperti, guardo al più umile dei tuoi santi, di quei saggi che sanno poco o nulla di cultura umana. C'è chi nel cuore ha la scienza e chi ha l'amore.
Ti riconosco, so che non sei Tu, quando vedo le persone importanti, famose, quelle degli autografi, “i grandi” che nel loro intimo sono agitati, inquieti, vivono nell’ansia e non lo possono confidare a nessuno, perché loro sono grandi, hanno un’immagine da difendere.
Ti riconosco, e so che sei Tu, quando vedo che, di fronte alla morte, anche i tiranni, i re, i potenti, la gente senza cuore, quelli che feriscono e che uccidono, sono uguali alle loro vittime.
Si, o Dio, perché Tu ti riveli solo a chi ha il cuore umile, a chi è servo, a chi è discepolo, a chi cioè sa di non sapere e vuole imparare. Tutti gli altri, con tutta la loro gloria, non ti vedranno, non ti accoglieranno, non ti avranno.
Chi è attaccato ai soldi, fa fatica ad accettare Gesù. I ricchi, i politici, le potenze economiche, fanno fatica ad accettare Gesù. Chi lavora soltanto, perché deve produrre ricchezza e benessere senza guardare in faccia nessuno, fa fatica ad accettare Gesù. Chi non vuole cambiare, chi non vuole mettersi in gioco, fa fatica ad accettare Gesù. Per essi Gesù è ridotto a qualche preghiera, a qualche incontro, a un pellegrinaggio, a una bella liturgia, a qualche bel gesto di bontà. Un incontro “vuoto”, senza alcuna rilevanza né per se stessi, né per gli altri; fare qualche azione religiosa, ma non seguire Gesù, non è accettarlo; Gesù ti chiede tutta la vita, ma ti offre in cambio la vera vita, la vita profonda, di unione intima con Lui, la vita che non finisce. Chi vuole seguirlo, senza lasciarsi coinvolgere da Lui, vedrà solo vincoli e costrizioni.
L'invito odierno di Gesù è: “Lasciati stupire dalla vita, lasciati meravigliare, lasciati colpire serenamente dall’imprevisto”, perché la presenza di Dio si trova molto più nelle cose impreviste, spontanee, che in quelle previste, programmate.
Noi abbiamo una mente logica: programma, organizza, pianifica, tende a “cum-prendere” tutto, a mettere tutto insieme, ad abbracciare tutto. Ma ha i suoi limiti. Per legge fisica sappiamo che un contenitore grande può con-tenere una cosa piccola, ma non l’inverso. Dio è più grande della nostra mente. Come possiamo pretendere di “contenerlo”? Eppure molti falsi sapienti vorrebbero controllare Dio, vorrebbe possederlo, averlo “logico” nella mente. Può mai un bicchiere contenere l'acqua dell’oceano? A volerlo fare saresti uno sciocco perditempo: nuota, invece, gustati l'acqua, ammira l’azzurro del cielo che si fonde all’orizzonte col verde del mare, immergiti e lasciati cullare dal dondolio delle onde, ma non pretendere l’assurdo. Così nella vita di ogni giorno: vivi, canta, assapora, stupisciti e loda Dio, sappi che Lui è più grande di qualunque cosa, è l’incontenibile, ma soprattutto Dio non è programmabile non é prevedibile, perché egli è l'imprevisto. Gli ebrei aspettavano un Messia con gli eserciti, ed è arrivato Gesù. Imprevisto! Maria aveva programmato la sua vita ma è rimasta incinta inaspettatamente. Imprevisto! Gli apostoli conducevano tranquillamente la loro vita, poi un giorno è passato uno e ha fatto loro una proposta scandalosa. Imprevisto! I discepoli di Emmaus se ne vanno tristi perché credono di aver perso Gesù; ma... imprevisto! Le persone incontrano un uomo di nome Gesù e le loro malattie scompaiono. Imprevisto!
Ecco perché, fratelli, dobbiamo cambiare la nostra testa razionale, di adulti; per incontrare Dio, dobbiamo essere aperti all'imprevisto. La chiamata di Dio non è mai frutto di logica, di calcolo, di ragionamento mentale. È frutto di amore, è lo slancio di fronte a qualcosa che ti “ha preso l'anima”.
Chi non vuole o non può sperimentare quest'innamoramento, questo stupore, ben presto non ha più energia per andare avanti nel cammino di fede, le sue vie respiratorie e vitali si occludono. Molti vivono trincerati in loro stessi e temono troppo di lasciarsi andare, chiudono ogni porta, ogni spiraglio, perché hanno paura anche solo di sentire qualcuno o qualcosa. Tutto deve essere sotto controllo. Non piangono mai né si commuovono perché è imbarazzante; non si meravigliano mai; e così facendo credono di essere grandi, di saper gestire le situazioni; non hanno mai slanci troppo grandi, sono sempre misurati e pacati nelle loro cose: e ciò lo chiamano equilibrio; non fanno trasparire nessuna emozione, temono di diventare vulnerabili; sono sempre ingessati, non si lasciano mai andare a “qualcosa di pazzo”, ad un abbraccio forte, ad una “risata galattica”, ad un urlo di felicità, liberatorio e rinfrancante, non si abbandonano alla gioia intensa del sentirsi amati; non si stupiscono di fronte alla natura, al sorriso dei bambini, al volto degli uomini. E poiché l'esperienza e la chiamata di Dio sono un qualcosa di incontrollabile, di imprevedibile, Dio non avrà mai spazio in loro.
Dio è un tornado; Dio è un fiume in piena: non ci sono argini che tengano. Dio è uno tsunami che travolge tutte le tue idee precedenti: quando lo incontri, tutti i tuoi discorsi su di lui fanno semplicemente ridere. Dio è un fulmine che si abbatte sulla tua esperienza e “ti brucia”. Dio è un terremoto che mette la tua esistenza sotto sopra, a soqquadro, distrugge la tua vita. Dio è emozione pura che ti travolge e ti sconvolge. Dio ti fa innamorare e ti porta dove vuole Lui. Per questo prima di voler incontrare Dio dobbiamo prepararci seriamente, dobbiamo chiederci se siamo pronti, se siamo disposti a fare questa esperienza unica; perché chi incontra Dio, fratelli miei, non sarà mai più lo stesso.
L'incontro con Dio è così forte, potente e destabilizzante da provocare talvolta paura e sgomento, può far piangere o star zitti per giorni; nulla ha più importanza, tutto sembra inutile; in una parola ci può destrutturare.
L'esperienza di Dio è così grande che l'unico sentimento adeguato è lo stupore. Non ci sono parole. “Mistica”, in greco, vuol dire proprio questo: “Non ci sono parole, è troppo grande”. Lo stupore è fare l'esperienza che c'è un di più che ci supera e lasciare che ci entri dentro. Non è il saperlo con la mente, ma è il lasciarsi coinvolgere con il cuore. Il bambino vive di questo. Il bambino non sa che la mamma lo ama, lo sente.
Se tu lasci che il volto e il cuore di una donna ti entrino dentro, allora è amore.
Se tu lasci che il cielo o le stelle ti entrino nel cuore, allora è pienezza di vita.
Se tu lasci che la passione per una causa giusta ti invada, allora è avere significato.
Se tu ti lasci toccare dalle parole del fratello, allora è comunione.
Se tu ti lasci toccare dal pianto, dalla sofferenza del fratello, allora è umanità.
Se tu ti lasci toccare da ciò che vedi, da ciò che senti, da ciò che succede, non capirai Dio, perché nessuno lo può capire, ma saprai che c'è.
Se tu vivi così, ricevendo, accogliendo, imparando, la tua vita sarà ricca, sarà piena, sarà colma, sarà leggera; e per te vivere sarà veramente bello!
Gesù si rivolge a tutti gli affaticati e gli oppressi.
Gli affaticati e gli oppressi erano all’epoca tutta la povera gente che non riusciva a sostenere il culto pesante della legge ebraica con tutte le sue prescrizioni e le sue decime (per i poveri era impossibile essere bravi religiosi).
“Oppressi”: da quelle regole che ci incatenano, che non ci lasciano amare, che dopo certi errori ci condannano inesorabilmente. Invece anche se tutte le regole del mondo ci dovessero condannare, Gesù ci ama, ci chiama, ci accoglie per andare da lui. Lui aspetta proprio noi.
“Oppressi”: per molti è il non riuscire a venir fuori da certi tunnel; “oppressione” è il pretendere da sé stessi l'impossibile: quando ci sentiamo così, andiamo da Gesù. Lui ci accoglie sempre e da Lui possiamo trovare quella che ci rinfranca l’anima. Andiamo da Gesù: a Lui possiamo urlargli tutto il nostro sdegno; andiamo da Lui e sfoghiamo tutta la nostra rabbia; urliamogli che il nostro peso è insopportabile, piangiamo il nostro dolore, gridiamogli tutte le ingiustizie che abbiamo subito. Lui ci ascolterà; ci darà forza per andare avanti, luce per trovare altre soluzioni.
Gesù si definisce mite e umile di cuore.
Il mite, fratelli, non è colui che non si arrabbia mai; colui che non si esprime mai e che se ne sta lì, buono buono. “Mite” non è il nostro “bonaccione”, quello a cui va bene tutto. “Mite” significa “tenero”, saggio; la vera mitezza non è un dono naturale, indica sempre un processo di acquisizione: miti non si nasce, lo si diventa. Un po' come il grano che diventa fine dopo la macinatura. Mite, infatti, deriva da mola, la pietra del mulino. Mite è colui che ha sperimentato la crisi e la disperazione, le gole buie della vita e le altezze piene di luce; colui che ha combattuto i suoi difetti e le sue debolezze, che ha vinto e che spesso ha perso; a volte ha vinto i propri difetti, a volte no. In ogni caso è colui che si è sempre rialzato e in questo suo cadere e rialzarsi, ha conosciuto la vita. La macina della vita lo ha reso soffice, tenero, molle, saggio, elastico, plasmabile, perché nella sua vita ha sperimentato cosa vuol dire vivere.
Per questo il mite ha uno sguardo più benevolo con gli altri, è più lungimirante nelle situazioni. Non si lascia prendere dai facili entusiasmi e non cade in depressione di fronte alle difficoltà: non perché non le provi o non le senta, ma perché nelle sue esperienze di vita, nel suo essere macinato dagli anni, ha trovato una fiducia più profonda. Proprio perché ha macinato la vita, ora la conosce bene: è diventato saggio, mite.
“Umile di cuore” è una espressione dal significato molto vicino a quello di mite. Umile (humilitas) viene dal latino humus, terra: da cui “uomo” (homo). L'umiltà non ha nulla a che vedere con il dire sempre di sì, con il piegare il capo; umili non sono quelli che si fanno zerbino di tutti. L'umiltà è il coraggio di accettare la propria umanità (humanitas), la propria terra, la propria origine, il proprio essere: “Tu sei terra, hai bisogni e istinti terreni, limiti e zone d'ombra”. L'umiltà è quindi il coraggio di potersi vedere per quello che realmente si è, e come si è, senza sfuggirsi, senza mentirsi.
Umiltà è sapere che gli stessi abissi nei quali è caduto il fratello, ci sono anche in noi. Umiltà è non dire mai: “Io sono un altro; tutto questo non mi riguarda; io non lo farò mai”.
Chi di noi, fratelli miei, può dire in tutta onestà di non avere mai pensato una cosa simile?
Solo chi non conosce la propria anima, solo chi è insensibile, può dirsi esente da questo pensiero. Capite l’importanza dell’umiltà?
E concludo: noi, fratelli miei, siamo semplici uomini: amiamo, lottiamo, ci appassioniamo, ci stupiamo, piangiamo e ridiamo. Crediamo, ci disperiamo, abbiamo paura. Sentiamo in noi l'abisso e l'Altissimo. Sbagliamo, cadiamo e ci rialziamo; urliamo e cantiamo. Nella nostra vita c'è spazio per tutto questo e molto altro ancora.
Allora, viviamola questa vita, fratelli, viviamola semplicemente, umilmente. Assaporiamone tutta la felicità, perché la nostra vita è un dono. Sentiamoci grati a Dio di questo spazio, di questo tempo, onorati e riconoscenti per questa possibilità che amorevolmente ci è concessa: perché questo è un tempo, uno spazio, una possibilità di vita che porta il nostro nome e cognome. Amen.
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