mercoledì 31 agosto 2011

4 Settembre 2011 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra. Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita. Ecco allora che il senso profondo della Parola di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante e per nulla scontato: nei nostri rapporti con gli altri, dobbiamo usare umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.
Se noi siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non dalla quantità delle nostre preghiere o dalla frequenza con cui invochiamo il suo nome, ma da come ci comportiamo nelle nostre relazioni interpersonali, dai nostri rapporti con le persone che ci stanno vicino, da come stiamo con gli altri.
“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima che dobbiamo seguire sempre fedelmente. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, anche in quei momenti, non dobbiamo mai dimenticare di amare. Sì, fratelli. Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella nostra vita possiamo anche non litigare mai, essere sempre ossequiosi con tutti, ma nonostante ciò, non amare nessuno; al contrario possiamo anche litigare spesso con i nostri fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Come è possibile? Il “litigio”, il nostro scambio “robusto” di opinioni, deve poggiare su una reale onestà mentale, sulla carità, sull’amore verso l’altro: ogni “scontro” ci deve lasciare ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso l’altro, e non totale chiusura nelle nostre posizioni, nel nostro astio. Ci sono persone che per anni litigano sempre per la medesima e identica cosa: vuol dire che non hanno mai saputo imparare, capire. Che serve allora litigare? Non serve, è inutile, fa solo male: se per principio non si vuole imparare, non si crescerà mai. Non riduciamoci a un dialogo tra sordi.
Ma l’insegnamento di oggi va oltre: in una controversia, due sono le cose importanti: la prima è di evitare di pubblicizzarla, di mettere in piazza la lite, di dare in pasto all’opinione pubblica i dissapori; la seconda è un maggiore esercizio dell’amore. Se un nostro fratello sbaglia, se c’è un problema tra noi, dobbiamo sapere che in quel preciso momento egli ha ancor più bisogno del nostro amore: dobbiamo quindi agire nei suoi confronti con maggior delicatezza, con maggior gentilezza, con maggior attenzione. In una parola con grande carità e discrezione. Ce lo sottolinea in apertura il vangelo di oggi: «Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo»; e lo fa in aperto contrasto con quanto la legge antica imponeva: «Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era normale denunciare apertamente l’operato di una persona: se sai una cosa dilla a tutti. Gesù, invece, propone una cosa del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo. C’è qualcosa che non va fra te e qualcuno? Va da lui e diglielo. Se ci vai, conoscerai personalmente il suo punto di vista: forse ti ricrederai, forse non era come tu pensavi. Va dunque e senti di persona: soprattutto non basarti su quello che dice la gente.
Se ci aprissimo lealmente, fratelli, potremmo sicuramente capirci, potremmo aiutarci, venirci incontro e smettere di giudicarci: perché quando le persone fanno qualcosa, molto spesso lo fanno per dei buoni motivi che noi non conosciamo. Spesso infatti le persone agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza, non per cattiveria.
Noi, invece, cosa facciamo? Se abbiamo un problema, un contrasto, un’opinione contraria con qualcuno, piuttosto che chiarire con lui, corriamo subito a sparlare e a malignare su di lui con i nostri “confidenti”. I quali si sentono immediatamente in dovere di mettere a loro volta al corrente della cosa i loro di “confidenti”, innescando così una reazione a catena di chiacchiere senza costrutto, il più delle volte crudeli, false e ingiuste.
Smettiamola fratelli, di creare incomprensioni di questo genere: comportiamoci da adulti! Ascoltiamo soprattutto! Per quattro volte il vangelo ci ripete il verbo “ascoltare”. «Se ti ascolterà avrai guadagnato… se non ascolterà prendi ancora… se poi non ascolterà costoro…, se non ascolterà neanche la comunità…». Una insistenza con la quale vuole quasi imporci la condizione per un nostro corretto comportamento con gli altri: ascoltare, ascoltare, ascoltare, ascoltare.
Come lo viviamo noi, fratelli miei, questo “ascoltare”? Ascoltiamo veramente? Ascoltiamo le parole false e volubili o la voce profonda e veritiera del nostro cuore? Cosa intendiamo esattamente per ascoltare? Se abbiamo già deciso a priori che il nostro fratello ha sbagliato, come facciamo ad ascoltarlo? Se rimaniamo caparbiamente attaccati al nostro parere preconcetto, lo ascoltiamo? Se non accettiamo vedute diverse dalle nostre, possibilità e modi diversi dai nostri, lo ascoltiamo? Se alcune cose le vogliamo sentire e altre no, lo ascoltiamo? Se quello che ci dice ci ferisce, “ci manda in bestia” e ci chiudiamo nel nostro silenzio oppure tiriamo su un muro tra noi, oppure “non vogliamo sentire ragioni”, come facciamo ad ascoltarlo? Se mentre lui parla noi pensiamo soltanto a cosa ribattergli, lo ascoltiamo? Se abbiamo sempre già pronte le risposte ad ogni domanda, illudendoci di essere un po’ altrettanti Dio, lo ascoltiamo? Se il nostro problema è cosa diranno gli altri e quindi ci preoccupiamo più di noi che di lui, lo ascoltiamo? E se non lo sappiamo ascoltare, come possiamo dire di amarlo?
La comunità di Matteo, come qualunque altra comunità, non era certamente perfetta: c’erano senz’altro dei conflitti. Ecco perché egli sente la necessità di dire: «In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore». Anche oggi non esiste comunità, famiglia, in cui non ci siano tensioni, conflitti, scontri. Ora - lo ripeto - litigare, entrare in conflitto, non significa non amarsi: vuol dire solo che si è diversi. Litigare è inevitabile! Non fa problema; un problema serio è invece quando due persone non litigano mai, quando due persone si scoprono sempre all’unisono: vuol dire che una delle due ha rinunciato ad essere se stessa, si è “conformata”, almeno esteriormente, all’altra. Ma non è questa la vera prova d’amore; l’amore si dimostra soprattutto dal modo con cui vengono affrontati e risolti i problemi conflittuali. È così che dimostriamo la nostra maturità. È così che la nostra comunità (famiglia, parrocchia, luogo di lavoro, casa religiosa), dimostra di essere una comunità matura: perché, fratelli, la maturità non si conquista semplicemente con lo stare insieme, ma soltanto imparando a come stare insieme. Maturità è saper trasformare l’inevitabile conflittualità di un “con-fronto”, in un chiarimento di idee, in un ampliare le vedute, in un arricchimento reciproco.
Senza la conflittualità, senza le difficoltà, una comunità non cresce. Per questo è decisivo il modo con cui affrontiamo queste tensioni, questi conflitti, perché possono essere contemporaneamente causa di divisione o di comunione, di unione o di rottura, di separazione o di crescita.
Le situazioni, le difficoltà, non vanno mai ignorate, ma affrontate sempre nel modo giusto. Non c’è cosa peggiore che pretendere che tutto vada sempre bene, voler vedere solo tutto rosa, anche quando il nero è d’obbligo! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non paga mai.
Ancora: litigare, non significa essere ribelli, malvagi, come molti pensano: non è facendo valere le nostre ragioni che siamo cattivi, che offendiamo l’altro o gli manchiamo di rispetto: ma è il modo con cui lo facciamo. Non esprimere mai il proprio punto di vista, per finta modestia o mellifluità, significa adeguarsi passivamente, e talvolta irrazionalmente, alla volontà del proprio partner o del proprio leader; non significa essere buoni, quanto piuttosto spersonalizzarsi oltre ogni limite; non volersi mai misurare con l’opinione altrui, è indice di due situazioni: o si è una vittima che subisce passivamente, oppure un tiranno che comanda in maniera dispotica.
Ecco l’importanza del parlarne, fratelli: esponiamo all’altro le nostre difficoltà, ascoltiamo le sue, lasciandoci mettere in discussione dalle sue parole. Non è importante chi vince. Abbandoniamo l’istinto di dominare l’altro, di dimostrare ad ogni costo che noi abbiamo ragione. Un pensiero ci deve accompagnare sempre in questi casi: dove c’è uno che vince, c’è sempre un altro che perde, e chi perde si sente umiliato.
Ascoltiamoci dunque: ascoltiamoci nel modo giusto, perché “ascoltare” vuol dire “cerco di mettermi nei tuoi panni (em-patia). Mi spoglio delle mie idee, per sentire quello che senti tu e mettermi nel tuo stesso punto di vista. Se rimango nel mio, non ti ascolto”. Ascoltare vuol dire andare ben oltre le parole, per cogliere quello che l’altro vive.
Molti dicono con orgoglio: “Noi amiamo la gente, l’umanità intera; noi amiamo tutti gli uomini”, ma poi, in realtà, non amano nessuna persona in particolare. L’umanità, la “gente”, non esiste: esistono solo le singole persone, gli uomini concreti. Non basta dire che noi amiamo, così in astratto; dobbiamo dimostrarlo con i fatti, concretamente, nei confronti di persone concrete, perché è il modo con cui ci relazioniamo con gli altri, nell’ambito della comunità in cui viviamo, che rivela chi siamo realmente.
Dobbiamo quindi imparare a collaborare senza voler essere superiori agli altri, ad esprimere quello che abbiamo dentro, senza doverci sentire inferiori a nessuno; dobbiamo imparare l’empatia per ascoltare l’anima delle parole di chi abbiamo davanti, dobbiamo avere l’ascolto che non giudica, che non cambia, che non stravolge, che non vuole fagocitare l’altro. Dobbiamo imparare a non manipolare gli altri per i nostri scopi; dobbiamo imparare a gestire, a dominare, l’invidia, la gelosia, la competizione, i sentimenti inevitabili di odio, di rabbia o d’altro; tutti sentimenti molto comuni in una convivenza. Purtroppo, fratelli, per imparare bene tutto questo, non c’è una scuola specifica: per tutto c’è una scuola, ma non per imparare a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, una vita guidata dall’amore e dall’ascolto.
Quanti di noi, fratelli, contano migliaia di conoscenze, senza essere poi amici di nessuno. Lasciatemelo ripetere: è perché sono immaturi, non vivono un rapporto armonico con loro stessi, non hanno imparato ancora a conoscere se stessi, non sanno superare quello stadio primordiale dell’aggressività, in cui si tende a proiettare sugli altri i propri limiti, i propri conflitti, le proprie manie, le proprie tendenze aggressive.
Quanto consolanti e promettenti sono invece le parole conclusive della Parola di oggi: «Se due si accorderanno per domandare una cosa, il Padre ve la concederà».
“Ac-cor-dare” vuol dire letteralmente “avere il cuore che batte alla stessa frequenza dell’altro”; in greco è “sin-fonia”. L’accordo è formato da note diverse: ogni nota è diversa, ma insieme formano l’ac-cordo, la bellezza, la sublimità di un concerto. «Se due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Essere uniti è come cantare all’unisono, con lo stesso ritmo, con la stessa tonalità, trovarsi in perfetta sintonia; è quando due cuori, nelle rispettive profondità, nelle rispettive aspirazioni, si fondono in un unico slancio d’amore.
Ecco, fratelli: quando si realizza questa “simbiosi”, quando avviene questo “contatto”, sperimentiamo la forza irresistibile e traumatica della immediata presenza di Dio tra noi, nella nostra comunità; è questo, e questo soltanto, che ne suggella l’unione.
Dire un sacco di cose, essere iperattivi, apparire sempre e comunque spumeggianti, esibire la nostra modernità, non significa essere “in sintonia”, non vuol dire vivere una vera unione con gli altri: in questo modo non arriveremo mai a sperimentare la forza dell’amore, i nostri cuori non riusciranno mai a vibrare in profondità. Parlare di tutto quello che facciamo, del tempo, dei vicini, dei confratelli, del lavoro, è solo un diversivo, non basta a guarire i nostri rapporti di convivenza, non risana il nostro cuore, non ci fa incontrare nel vivo con l’altro.
Ciò che ci rende uniti, ciò che ci salva, non consiste nel “regalare” agli altri parole, ma regalando noi stessi, con semplicità, così come siamo, con la nostra vulnerabilità, con le nostre paure, con le nostre imperfezioni. L’unione vera nasce proprio da questo “metterci a nudo”, dal farci vedere e accettare per quello che siamo. Buttiamo alle nostre spalle pregiudizi, incomprensioni, orgoglio; armiamoci di coraggio e facciamolo, con serenità, con umiltà, senza temere di essere traditi, fidandoci dell'altro: e in questo caso avremo la sensazione inconfondibile che tra noi, nella nostra comunità, c'è anche Lui. E questo ci deve bastare per vivere sereni. Amen.

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