giovedì 29 novembre 2007

2 Dicembre 2007 - I DOMENICA DI AVVENTO


Uno preso, l’altro lasciato

É che Dio arriva quando meno ce l’aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci passa addosso. È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora. È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Oggi inizia l'avvento. E tra 23 giorni è Natale.E abbiamo urgente bisogno di capire come possiamo trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Vogliamo poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono pochi 23 giorni, lo so. Ma vogliamo provarci ancora. Perché possiamo celebrare cento natali senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori. Come dice splendidamente Bonhoeffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sapesse che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Oggi Iniziamo a leggere Matteo. Il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione.
Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave grottesca. Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani. E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera. A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. Alcuni tra voi riescono a prendersi una domenica pomeriggio per fare un paio d'ore di silenzio e di preghiera, altri fanno una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. E ci tocca combattere anche contro la secolarizzazione del Natale, contro il suo svilimento, contro quel Natale finto che tanti vivono.
Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta dalla frenesia di un buonismo natalizio falso. È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio presente e di un uomo assente. Non c'è proprio nulla da festeggiare, non abbiamo fatto una gran bella figura, la prima volta. Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi.
Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione. Quindi: viva i regali, viva la festa. Ma che sia autentico ciò che facciamo, che sia presente il festeggiato, Dio, alle nostre ipercaloriche cene, che i bimbi capiscano che è il suo compleanno: a lui spetterebbero i regali, non a noi!
C’è anche il Natale per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, un Natale che diventa ricordo e sofferenza insostenibile. Di fronte alle immagini stereotipate della famiglia felice intorno all'albero e armonia e canti di angeli che ci propinano i media, chi vive affettività fragili e solitudini, è travolto da un insostenibile dolore. E questo deve farci pensare. Il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene purtroppo sostituto dal Dio piccino del nostro buonismo posticcio. Se i nonni soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace.
In questo tempo di Avvento Dio si pone ancora in cammino verso di noi, è Lui che viene, è Lui che prende l'iniziativa verso di noi, è una nuova occasione di salvezza, è un nuovo avvento straordinario.
Egli sta alla porta e bussa, attende che qualcuno gli apra. Motivo della sua visita? Offrirci la possibilità di rinnovare e consolidare il nostro rapporto di amicizia e di comunione con lui, con il Padre, con i nostri fratelli.
«Credo in un Dio che non si nasconde dietro ad un mistero, che non seduce con un miracolo, che non mi opprime con la sua autorità. Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, ma che mi pone di fronte alla scelta del bene o del male; che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi Lo segue. Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette le cose a posto dall'alto, che non esercita la giustizia degli uomini. Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio 'no' risponde con un bacio silenzioso e credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto. Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e non fa quello che voglio io: un Dio scomodo che non si può né vendere, né comperare. Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole, indifeso, perché non debba salire troppo in alto per poterLo incontrare. Credo in un Dio che a volte gioca a nascondino, perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo. Credo in un Dio che si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice: "Ti amo", un Dio che si può solo amare». (Ester Abattista).

giovedì 22 novembre 2007

25 Novembre 2007 - Cristo, Re dell'Universo


Il regno di Dio è dentro di noi…

Il senso della festa di Cristo re dell’universo è quello di farci guardare altrove, in avanti, di chiederci, seriamente, dove stiamo andando a finire. Le ragioni per scoraggiarci non mancano, e la nostra fragile storia fatta di armi e di violenza, continua a dettare legge. No, non è cambiato molto in questi duemila anni di cristianesimo, il Regno sembra essere un bel progetto rimasto sulla carta.
Ma non è così: la festa di oggi ci richiama ad una verità di fede che sfida la nostra tiepida contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti. Cristo re vuol dire che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, sulla mia storia personale.
Dire che Cristo è re, significa non arrendersi all'evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo, credere che il mondo non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire agli smarriti di cuore: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui noi comunità guardiamo avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Chiediamocelo noi, pastori, consacrati, preti e monache, laici “professionisti” del sacro: nelle nostre comunità, nei nostri Consigli Pastorali, nelle nostre programmazioni pastorali, è sempre evidente che tutto ciò che facciamo, dalla catechesi alla carità, sia veramente necessario per essere trasparenza della regalità di Cristo?

Già, perché questa riflessione ci mette in crisi. Quando una proposta o un progetto non vuol decollare, ci siamo mai chiesto se siano veramente consoni all'edificazione del Regno?...
Ma c'è di più: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra comune visione di Dio, di un Dio glorioso e trionfante.
Perché questo Dio è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato.
Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio sconfitto.
Non un Dio vittorioso, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che, per Lui, è un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo.
Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. “No, grazie!”.
Forse preferiamo un Dio un po' severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono.
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.

La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il dover dipendere dagli altri.
Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, può permettersi di pensare solo a sé, ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri.
Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo riuscito, ricco e sicuro: allora cerchiamo di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.

Si apre a noi perché noi dobbiamo essere discepoli. Guardiamo i due ladroni: sono appunto la sintesi del diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso (di nuovo!) e noi, e me. Concepisce Dio come un re di cui essere suddito. Ma a certe condizioni, ottenendo in cambio ciò che desidera: una redenzione in extremis. Non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come - spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è solo stupito. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Ecco l'icona del discepolo: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione e che il vero volto dell'uomo è la tenerezza e il perdono. Nella sofferenza possiamo cadere nella disperazione o ai piedi della croce e confessare: davvero quest'uomo è il Figlio di Dio.
Che re fuori da ogni buonsenso, fratelli. Un re che indica un altro modo di vivere, che contraddice il nostro “salvare noi stessi” per salvare gli altri o – meglio – per lasciarci salvare da Lui.
Siamo onesti, fratelli. Luca ci lascia con una domanda da porci seriamente: lo vogliamo davvero un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? È questo, davvero, il Dio che vorremmo? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? Di quale re vogliamo essere sudditi?
Non diamo risposte affrettate, per favore: altrimenti ci tocca convertirci per davvero, vivere Cristo in tutti i sensi, e non “in comodato” come troppo spesso ci succede!!.

Ricordate?
“Con me regnare vuol dire servire, chi vuol essere il primo si faccia l'ultimo” e così via.
Anche Ponzio Pilato glielo chiese con un tono sorpreso: “Ma tu, sei proprio un re?” E si divertì a rivestirlo del mantello rosso, a mettergli in testa la corona (di spine!), a dargli uno scettro in mano (era una canna), a metterlo sul trono (era una croce insozzata).
È una storia che sappiamo a memoria… ma in fondo ci resta sempre una domanda: “ Che Re sei tu, se i grandi non ti degnano di uno sguardo, se l'odio, la guerra, la disonestà imperano, se la vita viene impedita con strani artifici, se non ci sono regole morali, se è preferita l'istintività alla razionalità?... “
Sei il Re dei diseredati, dei falliti, dei nullatenenti, dei destinati a morire, dei non emergenti, dei delusi, dei non-importanti, di quelli che non contano, di chi non sa dove sbattere la testa... sei contornato da una folla di sudditi, che però non tratti come tali, ma come amici, ai quali rivolgi i discorsi più confortanti: “Beati voi” e le tue promesse profetiche fanno vibrare l'intimità dei cuori: “Non temete, voi valete più dei passeri del cielo, dei fiori del campo. .. Non abbiate paura, vado a prepararvi un posto presso il Padre. .. “
Sei un Re immischiato nel presente e nel futuro, nelle cose terrene e nell'al di là, un Re a tutto campo, che è sconfitto con gli sconfitti, che sta con i ricchi per ricordare loro i fratelli poveri…
Un Re che non cavalca destrieri, ma cammina con i piedi per terra, che non cerca i consensi, che non tiene le distanze, che sa attendere, che si avvicina con rispetto in punta di piedi, bisbiglia, parla al cuore...
Un Re facilmente sopprimibile, evitabile, ma che continua ad incrociare il suo cammino con il nostro; invisibile, ma con il quale è bene che tutti ci incontriamo; che non si impone, ma le cui proposte hanno valore perenne; trascurabile, ma la cui essenzialità sconvolge le false sicurezze... Un Re che non dà fastidio alle potenze di questo mondo, perché il suo Regno non è di qui: un Regno che offre beatitudine a tutti, un Regno che sarà l'unica autentica vita per tutti.
Non serve che il Vangelo sia strombazzato superficialmente sulle piazze, ma occorre che fermenti nella nostra intimità, come quel pizzico di lievito che fermenta tutta la massa.
E allora, “Non uscire da te. Entra in te stesso, perché nell'uomo interiore abita la Verità” (Sant' Agostino).
Perché… “Il regno di Dio è dentro di voi...”

giovedì 15 novembre 2007

18 Novembre 2007 - XXXIII Domenica del T.O.


Alzate lo sguardo.
«Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta».
A livello più profondo, dentro di noi, di fronte a tutti gli eventi negativi che succedono nel mondo, può emergere talvolta una domanda impertinente: e se ci fossimo davvero sbagliati? E se Dio si fosse sbagliato? E se la vita che viviamo fosse davvero un coacervo inestricabile di luce e di tenebre che mastica e tritura ogni emozione e ogni sogno? E se Dio avesse esagerato con l'idea della libertà degli uomini e del fatto che l'uomo può farcela da solo? E se tutto andasse in fumo? Non possiamo fidarci di nessuno?
No, dice Gesù, state sereni.
Non sono questi i segni della fine, come qualche predicatore catastrofico insiste nel dire.
Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già il Signore ha dovuto confrontarsi con questa follia, in un mondo - il suo - ben più aggressivo del nostro.
"Nemmeno un capello del vostro capo perirà..."
E, sorridendo, ci dice: cambia il tuo sguardo.
Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona, al Regno di Dio che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato.
Guarda a te stesso, fratello mio, a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda a Lui e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere l'occasione di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il tuo sguardo si rende più trasparente, diventi testimone di Dio quando ti giudicano, diventi santo davvero e non te ne accorgi, ti scopri credente.
Se il mondo ci critica e ci giudica, se ci attacca, non mettiamoci sulle difensive, non ragioniamo con la logica di questo mondo: affidiamoci allo Spirito.
Quando il mondo parla troppo della Chiesa, la Chiesa deve parlare maggiormente di Cristo!
È vero: queste cose non ci piacciono….
Preferiamo crogiolarci nelle nostre vere o presunte disgrazie, preferiamo lamentarci di tutto e di tutti, vivere nella rabbia cronica. Preferiamo cento volte lamentarci del mondo brutto, sporco e cattivo ed eventualmente costruirci una piccola setta cattolica molto devota in cui tra pochi ci troviamo bene, piuttosto che immergerci nella nostra comunità.
Preferiamo fare a modo nostro, non c’è dubbio!
Ma se proprio dobbiamo fare come vogliamo, allora, Signore, sii paziente e misericordioso con noi, libera il nostro cuore dal peso del peccato, dall'incoerenza profonda e dalla tendenza all'autolesionismo che ci contraddistinguono, e rendici liberi, leggeri, comunque in grado di guardare in alto e di volare da te, in attesa del tuo Regno.

giovedì 8 novembre 2007

11 novembre 2007 - XXXII Domenica del T.O.

Il Vivere da vivi
Levirato è una norma mosaica difficile da capire nella nostra sensibilità contemporanea. Talmente forte era il senso di appartenenza in Israele, che un cognato era tenuto a dare un figlio alla vedova del proprio fratello, se questi era morto senza lasciare discendenza. Il figlio nato dall'unione avrebbe preso il nome del defunto, garantendo una discendenza alla famiglia.
Questa norma, ancora praticata in ambienti ultraortodossi in Israele, dà l'occasione ai sadducei di mettere in difficoltà Gesù. L'occasione – che novità – è una discussione tra Gesù e i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice d'Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, di cui si parla nella prima lettura, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosé.
Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato pongono a Gesù un caso paradossale, la famosa storia della vedova "ammazzamariti". Il caso è ridicolo: una donna resta vedova sette volte, senza discendenza; una volta risorta, di chi sarà moglie? Gesù pone la riflessione su un piano diverso, invita gli uditori ad alzare lo sguardo da questa visione che proietta nell'oltre morte, di fatto, le ansie e le attese della vita terrena.
È una nuova dimensione quella che Gesù propone: la resurrezione, in cui Gesù crede, non è la continuazione dei rapporti terreni, ma una nuova dimensione, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), e ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
In settimana abbiamo celebrato la memoria dei nostri cari defunti, sovrapposta e confusa con la splendida e gioiosa Solennità dei Santi. Il nostro tempo tende a dimenticare e banalizzare la morte: ogni giorno ci vengono proposte decine di morti, vere o finte, dagli schermi televisivi ma, in realtà, riflettiamo sulla morte solo quando ci tocca sulla pelle. La Scrittura ha lungamente riflettuto sulla morte, giungendo alla dottrina dell'immortalità. Siamo stati creati immortali: il nostro corpo, da custodire e preservare, conserva una parte più spirituale, interiore, che i cristiani chiamano "anima". L'anima è la sorgente del pensiero, la custode dei sentimenti, la dimora della mia identità e diversità. L'anima sopravvive alla morte e raggiunge Dio, per presentarsi al suo cospetto.
Dio non ha che un desiderio: la nostra felicità, la nostra pienezza. Ma ci lascia liberi di scegliere. Questa vita, che ci è data per scoprire la nostra chiamata, per scovare il tesoro nascosto nel campo, può essere giocata nella consapevolezza e nell'amore di Dio, o nella dimenticanza. Di fronte a Dio, se vorremo, ci verrà dato un tempo per imparare ad amare, o verremo abbracciati e ricolmati dalla totalità di Dio o – Dio non voglia – lasciati liberi di rifiutare la luce. Al ritorno del Messia, alla pienezza dei tempi, ritroveremo i nostri corpi trasfigurati, che ora conserviamo con dignità in luoghi chiamati "dormitorio", in greco "cimiteri".
L'eternità è già iniziata, posso vivere e gioire di questa dignità, riconoscerla e svilupparla, o mortificarla sotto una coltre di polvere e preoccupazioni...
Il Dio di Gesù è il Dio dei viventi, non dei morti. Io credo nel Dio dei vivi? E io, sono vivo?
Credo nel Dio dei vivi se per me la fede è ricerca, non stanca abitudine, doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere, slancio e preghiera, non rito e superstizione. È vivo – Dio – se mi lascio incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, che, dopo il suo incontro con Cristo, ci dice che nulla è più come prima. Credo in un Dio vivo se accolgo la Parola (viva!) che mi sconquassa, m'interroga, mi dona risposte. Credo nel Dio dei vivi se ascolto quanti mi parlano (bene) di lui, quanti – per lui – amano.
Un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Io sono vivo (lo sono?) se ho imparato ad andare dentro, se non mi lascio ingannare dalle sirene che mi promettono ogni felicità se possiedo, appaio, recito, produco, guadagno, seduco eccetera, se so perdonare, se so cercare, se ho capito che questa vita ha un trucco da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della mia storia.
Vogliamo dunque anche noi diventare discepoli di un Dio vivo? Viviamo – finalmente – da vivi!
Oggi purtroppo non siamo aiutati a "credere nella vita eterna"; si va dietro all'immediato, al superficiale, si vuole evitare il pensiero salutare della morte, quando addirittura non la si banalizza. Si finisce poi tante volte per essere disperati di fronte alla morte delle persone care o alla propria morte; si finisce per essere anche causa di morte senza farsene troppi problemi.
Ora, pensare a queste cose non è per renderci tristi, ma per camminare sulla strada della gioia vera; uno che non ci pensa, non è più felice, è più sciocco (il vangelo dice stolto). E chi crede di andare chissà dove impostando la vita solo in senso materiale, non va da nessuna parte; si troverà con le mani vuote. La dottrina cristiana ci insegna che il pensiero della morte ci aiuta a costruire bene la vita e che l'attesa e la preparazione alla vita eterna, non solo non indebolisce ma addirittura intensifica l’impegno umano e cristiano nelle realtà terrene: basta pensare alle parabole della vigilanza, dei talenti, del giudizio finale. "Vieni servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo Signore, perché ho avuto fame e mi hai dato da mangiare". "Entra nella gioia del tuo Signore" è la grazia che chiediamo per i nostri defunti e anche per tutti noi, quando saremo chiamati ad essere sempre con il Signore. E allora capiremo che le "sofferenze della vita presente non sono paragonabili alla gloria della vita futura", "perché grande è la ricompensa nei cieli".

"La mia immortalità è indispensabile, perché Dio non commetterebbe iniquità e non spegnerebbe completamente il fuoco dell'amore dopo che questo si è acceso per lui nel mio cuore... Iniziai ad amarlo e mi sono rallegrato col suo amore. Sarà possibile che mi spenga e che la mia gioia si trasformi in niente? Se Dio esiste, anch'io sono immortale!" (Dostoevskij).

mercoledì 31 ottobre 2007

4 novembre 2007 - XXXI Domenica del T.O.


Oggi, la salvezza in casa tua.

Zaccheo è un manager scaltro, riuscito: ha fatto soldi a palate, grazie all'appalto delle tasse dall'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della nostra attuale finanza: al centro di tutto il solo profitto, il guadagno: il resto è relativo.
Zaccheo è rispettato, temuto dai suoi concittadini: basta un suo gesto e i soldati romani intervengono; forse, nella sua spregiudicatezza si sarà pure vendicato delle prese in giro, dei sorrisetti di compassione, a causa della sua statura. Si, perché Zaccheo è rimasto basso, piccolo; contrariamente alla sua ricchezza e al suo potere; e ora, coloro che lo irridevano, abbassano lo sguardo quando lo incrociano. Ma è rimasto solo. La ricchezza e il potere sono avari di amici e di gratuità.

Zaccheo ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta. Si dice che passerà da Gerico, l'antichissima città che sorge sulle rive del Mar Morto. Zaccheo è dunque piccolo: di statura, certamente, ma soprattutto di cuore, e per vedere Gesù deve salire su un albero. Meglio, così potrà vedere senza essere visto... Ha una vita di fede, Zaccheo? Non ci viene detto ma, a naso, possiamo dire che Dio non è il suo principale problema. C'è movimento, la folla si agita, vede le braccia che si alzano al cielo, le grida dei bambini. Stringe gli occhi, ora lo vede, il Nazareno è proprio lì, a qualche metro da lui. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te.
Zaccheo è interdetto: come fa a conoscere il suo nome? Cosa vuole da lui? Forse lo ha confuso con qualcun altro? Non importa, Zaccheo scende, di corsa.
Perché? Il fascino di Gesù lo ha riempito? Intuisce qualcosa?
Una cosa lo colpisce: Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: vuole andare in casa sua; si ferma da lui, gli porta salvezza.
Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua.
Si sente rovesciato come un calzino, Zaccheo.
Si, perché Gesù cercava lui; non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito. A questo punto Zaccheo fa un proclama che lo porterà alla rovina (restituisce quattro volte ciò che ha rubato!), ma che importa? È salvo ora. Non più solo sazio, solo temuto, solo potente.
No, è salvo, è discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è finalmente discepolo. Che grande è Dio!

Zaccheo siamo noi: travolti dal delirio quotidiano, concentrati a riuscire, frustrati perché non riusciti.
Zaccheo siamo tutti noi che diamo retta alle sirene che ci stanno intorno, sirene che ci chiedono sempre di più, sempre il massimo: a casa, al lavoro, nella carriera, nell'aspetto fisico.
La fede non ci importa poi molto: sì, un po' di curiosità, qualche spolveratina di spiritualità orientale, o di New Age, che tratta Dio come una serva e mette noi, l’io, l’ego, sempre al centro dell'universo.
Eppure Dio ci ripesca proprio lì, dove crediamo di essere arrivati. Dio ci stana, ci rincorre, ci tampina. Perché ci ama, davvero: Lui sì ci ama come siamo!

Prima di tutto è Lui che ci cerca, è Lui che prende l'iniziativa. Noi cerchiamo, quando cerchiamo, Colui che ci cerca.
Come sempre, quando meno ce lo aspettiamo, arriva la crisi esistenziale: perché siamo al mondo? A cosa serviamo? Dove andiamo a finire? A chi va quello che abbiamo accumulato? Cosa abbiamo fatto di buono? Cosa c'è dopo la morte? E tutto il resto… Quando cominciamo a farci di queste domande non le fermiamo più. Bisogna trovare delle risposte, una per volta. La matassa è ingarbugliata, la testa va in ebollizione, i vecchi ragionamenti non tengono più, ci ritroviamo nella nebbia fitta senza il senso dell'orientamento. L'età cresce, l'epoca dei colpi di testa è crollata e nelle mani ci troviamo un pugno di mosche! Che momenti drammatici!
C'è chi si dà all'alcool, chi alla droga, chi ad emozioni di ogni tipo, chi pensa al suicidio!
Ma Gesù non ci giudica... Egli ci aspetta.
Da qualche parte Egli passa, e per ogni piccolo uomo come noi c'è una pianta per arrampicarsi per vederlo passare e poi iniziare a scendere a terra, nella vita normale, nella quale e per la quale Gesù vuole essere il nostro Salvatore. Smettiamola di correre da maghi, guaritori, cartomanti, imbonitori, truffatori, anche se hanno lo studio pieno di santi, madonne, crocefissi, candele; liberiamoci dal giogo di chi ci sfrutta, ci succhia i soldi e la vita. Andiamo da chi può dirci: Oggi la salvezza entra nella tua vita, perché hai scoperto che sei figlio di Dio.

L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama perché siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona, dona senza condizioni. Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero. No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del nostro pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta a conversione. Eccoci dunque fratelli: è arrivato il nostro momento.
Chi vuole seguire Gesù si decida, scenda dall'albero, si schieri.
Non importa chi egli sia, né quanta strada abbia fatto o che errori porti nel suo cuore.
Non importa se scruta il passaggio di Gesù soltanto per curiosità. Non importa nulla di nulla: perché oggi, oggi stesso, in questo momento, Lui vuole entrare nella sua casa.

martedì 9 ottobre 2007

28 ottobre 2007 - XXX domenica del T.O.

Guardarsi dentro
La preghiera è una questione di fede: credere che il Dio che invochiamo non è una specie di sommo organizzatore dell'universo che, se da noi corrotto, potrebbe anche concederci ciò che chiediamo. Dio non è un potente da blandire, non un sottosegretario da cui farsi raccomandare, ma un padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno. Se la nostra preghiera fa cilecca, sembra suggerirci Gesù, è perché manca l'insistenza, o manca la fede. Oggi, con la parabola del pubblicano e del fariseo, ci viene suggerita un'altra pista di riflessione.
I due personaggi, il fariseo e il pubblicano, sono due modi diversi di essere discepoli.
Modi molto diversi. Il fariseo - leggete - dice il vero, tutto sommato: vive la fede con entusiasmo, pratica la giustizia, è un fedele modello, e sa di esserlo. Prega anche nel modo giusto: ringrazia Dio, subito, prima di chiedere qualcosa. Ma presume d'essere giusto e disprezza gli altri, ha un nemico, fuori di sé. Guarda con disprezzo il pubblicano (che è davvero peccatore!) e ne prende le distanze. Il pubblicano - invece - non osa alzare lo sguardo: conosce il suo peccato, non ha bisogno di fare l'esame di coscienza: glielo ha già fatto il fariseo! Solo chiede pietà. Succede anche a noi: facciamo fatica a guardarci dentro con equilibrio. Fatichiamo a non deprimerci nei momenti di difficoltà, in cui emergono più evidenti i nostri limiti e i nostri difetti. Fatichiamo a non tentare di mostrare il nostro "meglio" quando stiamo con gli altri. Ma soprattutto fatichiamo a paragonarci agli altri in maniera serena. Se capissimo di essere unici, imparagonabili! Se sapessimo amarci come Dio ci ama, senza eccessi! No, non abbiamo bisogno di guardare al peggio o al meglio di chi sta intorno per esaltarci o deprimerci, specialmente nella fede. L'errore del fariseo è questo: è giusto e sa di esserlo, ma non ha compassione né misericordia. Misericordia e compassione che - invece - Dio ha verso il pubblicano, che esce cambiato. Ecco una buona battaglia per noi discepoli: l'equilibrio in noi stessi: senza trovare colpevoli "fuori", senza autolesionismo depressivo. Consapevoli della nostra fragilità e della nostra grandezza, perdonati che sappiamo perdonare, pacificati che sappiamo pacificare.
Tutti dobbiamo avere il coraggio di fare un passo indietro! Di scendere dal piedistallo che ci costruiamo per crescere in umanità e verità! Il nemico è dentro, non fuori. È il nostro egoismo, la parte peggiore di noi, che deve essere illuminata dal Vangelo; è scoprire l'altro, accoglierlo e accoglierci. Iniziamo a costruire la pace dall'unica persona su cui abbiamo influenza: noi stessi. Quanta più armonia ci sarebbe nella coppia con un po' più di umiltà e verità, con qualche "scusami" in più...
E la Chiesa, comunità di credenti, è popolo di perdonati, non di perfetti. Le paranoie, le prese di distanza dalla Chiesa che sentiamo in giro (non vado più a quella messa perché Tizio è veramente insopportabile; non mi va di incontrare Caio perché in chiesa si dà un sacco di arie... ma scusate, ma di quale "chiesa" si tratta? Giusto di quella che immaginiamo nella nostra testa!), il più delle volte si basano su questo equivoco di fondo: il mio fratello che si professa cristiano, deve essere irreprensibile, deve essere “santo”… dentro e fuori la chiesa! È vero. Ma solo in parte. E non facciamo gli ipocriti! Il cristiano è e resta peccatore, ma è un peccatore toccato dalla tenerezza del perdono. E come tale, con grande umiltà, deve comportarsi...
Noi tutti ci troviamo in chiesa non per lucidarci l'aureola, o per guardare in cagnesco i fratelli che non riteniamo alla nostra altezza.
Ma ci troviamo tutti insieme per celebrare coralmente quella misericordia divina che ci ha cambiato.
Non è splendido?

21 ottobre 2007 - XXIX domenica del T.O.

Troverò la fede sulla terra?
Di interrogativi Gesù ne ha posti a sufficienza, nel suo ministero. Ma quello di oggi ci fa veramente pensare. Gesù, con un velo di tristezza chiede: "Quando tornerò, ci sarà ancora fede sulla terra?". Attenzione, non dice: "Ci sarà ancora un'organizzazione, la gente andrà ancora a Messa, si farà ancora l'elemosina?". No, Gesù è angosciato perché vede che, troppe volte, la nostra religione è senza fede, la nostra preghiera è senza fede, la nostra lotta per un mondo diverso è senza fede. Davanti al grido della vedova invadente che chiede giustizia, simbolo del grido dell'oppresso di tutti i tempi, la fede vacilla.
Come può Dio permettere la sofferenza, la guerra, la malattia? Davanti agli avvenimenti che percepiamo "ingiusti", la nostra fede vacilla, retrocede. Il dubbio ottenebra il nostro cuore, perché credere è difficile. La sofferenza dell'innocente è e resta la più grande obiezione dell’uomo della strada alla bontà di Dio: intuisce che sotto sotto c'è una risposta, ma gli sfugge.
La sofferenza che esiste nel mondo, più che mettere in discussione Dio, coinvolge e responsabilizza ciascuno di noi. Noi facciamo le guerre e Dio le deve fermare! Bella pretesa!Al grido dell'oppresso, davanti alla violenza, davanti agli uomini che si massacrano, gridiamo: "Dio dove sei?" E Dio ci risponde: "Tu dove sei?". Il Signore ci ha consegnato un mondo che potrebbe essere un capolavoro di misericordia e di fraternità. Noi lo abbiamo ridotto a un covo di malfattori, di indifferenza, di ingiustizia. La nostra preghiera, spesso, cade nel vuoto perché, semplicemente, non facciamo nulla perché si realizzi. Dio infatti fa prontamente giustizia, afferma Gesù alla fine della parabola della vedova... Sì, mi fido, lo credo! Stento a capire, ma mi ci metto, ci sto, lavoro!
Devo credere in un mondo in cui la giustizia inizia dal mio cuore, per poi uscirne e contagiare il mondo. Nella lotta per la giustizia, per creare spazi e luoghi di amore solidale, abbiamo bisogno di fede per pregare, abbiamo bisogno di costanza per tenere le braccia alzate durante la battaglia. Solo la preghiera autentica, profonda, incarnata, ci può sostenere nella conversione del mondo che parte da me. Non esiste dualismo tra vita interiore e impegno sociale: l'uno scaturisce a approda all'altro. Un mondo che cambia necessita di interiorità; un'interiorità che non diventa impegno, è sterile devozione. Nella lotta della vita, dobbiamo osare la preghiera.
Mosé che tiene le braccia alzate, per far vincere il suo popolo, è l'immagine di come la preghiera ci porti in una dimensione nuova, capace di vincere la lotta della vita.
Chiediamoci se l'insistenza della vedova è la nostra insistenza, se la sua costanza è la nostra, quando si tratta di rendere giustizia, di dare una testimonianza di trasparenza nel nostro essere "prossimo". C'è purtroppo il rischio di stancarci, per strada, c'è il rischio di lasciar cadere le braccia, perché stanchi di pregare.
Allora, com'è successo a Mosé, saranno i fratelli vicini, quelli della nostra comunità, ad aiutarci a tenere alzate nella preghiera le nostre braccia.
La dimensione comunitaria, che ancora tanto dobbiamo scoprire, è questa volontà, questa capacità di camminare insieme, di lasciarci anche trasportare dalla preghiera della Comunità. L'Eucarestia, allora, diventa il momento in cui ci raduniamo per tenere le braccia alzate gli uni per gli altri, e invocare la benedizione di Dio su noi e sul nostro cammino.
Allora potremo rispondere al Signore Gesù convintamente: "Signore, oggi se verrai, troverai ancora fede sulla terra.
Si, Signore: la mia, quella della comunità in cui vivo, quella di altri milioni di fratelli sparsi nel mondo".