giovedì 15 giugno 2023

18 Giugno 2023 – XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 9,36-10,8: 
In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!». 
Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì. Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

È una constatazione, quella di Gesù: la gente che lo segue per le strade della Palestina è cresciuta a vista d’occhio, è diventata “le folle”: egli tuttavia vede chiaramente in ciascuno dei presenti, le loro sensazioni, la loro stanchezza, il malessere, la delusione, la sfiducia. È gente che per qualche ragione si sente tradita, gente che per cui la vita non ha più un significato, gente che si sente inutile. Gesù vede tutte queste persone sofferenti, si rende conto delle loro necessità e, rivolto ai discepoli, scosso, preoccupato, si lascia andare dicendo: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi!”. Di fronte a quella povera gente, capisce che in futuro, per arrivare a tutto e a tutti, ha bisogno di collaboratori, di persone che continuino ciò che lui ha iniziato, che sostengano il suo progetto di “chiesa”.
A questo punto che fare? chiama il gruppo dei discepoli che già lo seguivano, e tra loro ne sceglie dodici, ai quali conferisce la nomina di “apostoli”, persone incaricate cioè a scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d'infermità. 
Nel vangelo di oggi Matteo, nel comunicare i loro nomi , cita anche sé stesso: quel pubblicano di nome Levi, esattore delle tasse per conto dei Romani, malvisto dal popolo per le tangenti che incassava con la sua attività; solo che, nel momento in cui scrive, Levi il pubblicano non esiste più, è diventato Matteo, l’apostolo: un giorno infatti egli aveva incontrato quel Nazareno, ospite di Pietro e Andrea, e aveva visto in Lui la possibilità di un suo riscatto, di condurre una vita diversa, libera, nuova, conquistato soprattutto dalla misericordia, dalla bontà, dall’amore, che trasparivano dallo sguardo sereno di Gesù. Quando inserisce il suo nome tra i dodici, sono passati trent’anni da quell'incontro, ma l’emozione a quel ricordo è ancora la stessa. 
La lista dei dodici “apostoli” è formata da nomi che in parte già conosciamo: “Pietro”, qualificato come “primo” come “capo” (ciò conferma che all’epoca in cui è avvenuta la stesura del Vangelo, Pietro ricopriva già il ruolo di guida, di responsabile del gruppo), e suo fratello “Andrea”; poi “Giacomo e Giovanni”, due fratelli dal carattere focoso, irascibile, soprannominati per questo i “Boanèrghes” cioè i “figli del tuono”. Queste due coppie di fratelli sono stati gli amici più intimi, i confidenti di Gesù, quelli che lui chiamava sempre al suo fianco nei momenti critici, decisivi. Quindi, anche Gesù, pur amando tutti indistintamente, aveva anche lui qualcuno con cui si trovava meglio, di cui si fidava di più, con cui si confidava maggiormente. Ancora: “Filippo” di Betsaida e “Bartolomeo” un ebreo. Quindi “Tommaso”, detto “Dìdimo”, cioè “gemello, duplice”, a causa del suo carattere: uno che non si fermava mai al primo sguardo, ma voleva vedere sempre il rovescio della medaglia. “Matteo” (l’ex pubblicano usuraio Levi). “Simone il Cananeo”, un nazionalista Zelota, antiromano per eccellenza; “Giacomo”, cugino di Gesù (figlio di Alfeo, fratello di san Giuseppe); “Taddeo” (detto anche Giuda di Giacomo) e infine Giuda Iscariota che sarà il traditore. 
Si tratta di un gruppo eterogeneo, formato un po' da tutti i tipi: nazionalisti, pubblicani, peccatori, incolti, istruiti, poveri, ricchi. Ma Gesù non si ferma in superficie, al semplice apparire, o addirittura al “si dice” della gente: egli vede e legge le persone nel profondo del loro cuore, della loro anima; conosce l’infinito bisogno di felicità che ogni uomo porta scolpito nel proprio cuore. È un po’ quello che succede anche oggi: Gesù conosce perfettamente anche tutti noi: le nostre preoccupazioni, la difficoltà di trovare risposte adeguate ai nostri problemi. Egli sa che siamo disposti a vendere anche l’anima per avere un po’ di amore, di serenità, di pace; per sentirci accolti, stimati, considerati, amati.
Ebbene: è proprio questo identico bisogno di felicità, di amore, di pace, innato in ogni uomo, che ci rende tutti simili, che ci unisce, in ogni tempo, in una fratellanza universale.
Gesù vede tutto questo, vede che siamo amareggiati, insoddisfatti, che, pur non ammettendolo, sentiamo un profondo bisogno di Lui, del suo amore, di quella felicità che solo Lui può dare. 
Sì, perché nella delirante e disonesta epoca in cui viviamo, la felicità che cerchiamo è rara, introvabile, viene venduta a prezzo esorbitante, assurdo, incalcolabile; e noi, instupiditi, spaesati, confusi, ingannati, ci adeguiamo all'offerta, finendo col seguire purtroppo le prospettive più seducenti, più luccicanti, più immediate, quelle che sembrano poter appagare il nostro incolmabile bisogno di bene e di verità.
Gesù è lì, fermo, immobile, guarda le folle di allora, le folle di oggi, di domani, e si commuove vedendo quanto devono faticare tutti, per trovare la vera felicità. Il Padre stesso, forse, è stato preso da qualche “perplessità”: in effetti, non era questo il suo progetto quando ci ha donato la libertà, dono molto difficile da gestire, superiore alle nostre forze, per cui troppo spesso deleghiamo le nostre scelte all’imbonitore, all'incantatore di turno.
Pecore senza pastore”: è così che vede le folle il Maestro, commuovendosi. E nel suo amore infinito decide di agire. E come al solito ci spiazza: la pagina del vangelo finisce nel modo più inatteso, più incredibile. Tutti ci saremmo aspettati un Gesù che, mosso dalla compassione, si sarebbe immediatamente offerto Lui, come Buon pastore, come solutore di ogni problema.
Invece no: Gesù, commosso per lo stato precario degli uomini, dispersi nel mondo, inventa la Chiesa! Sceglie cioè dodici persone per iniziare la costruzione del Regno di Dio: dodici che, istruiti da Lui, siano in grado, durante la sua assenza materiale, di condurre i greggi del mondo, a quei pascoli erbosi, nei quali loro stessi per primi, desiderano entrare.
Non sono perfetti, sono purtroppo degli uomini. Ma Egli vede in ognuno di essi, oltre le inevitabili deficienze, la determinazione, la voglia, di trasformarsi in combattenti, in autentici eroi, per la Sua causa. Nella loro poliedrica diversità, nella loro sgangherata unione, rappresentano infatti l'intera umanità.
Nessuno mai si sarebbe sognato di mettere insieme dodici persone così radicalmente diverse per realizzare un progetto divino così impegnativo: riportare al Padre l’umanità peccatrice! Nessuno, eccetto Gesù. E sarà poi Lui, che li illuminerà, li unirà, li indirizzerà, li compatterà in quell’unica realtà della Chiesa nascente, destinata a proiettarsi nel tempo, fino alla fine dei secoli.
Questa è, e rimane, la Chiesa, il paradosso di Cristo! All'umanità ferita e fragile che necessitava di una guida sicura, inflessibile, inossidabile, Gesù ha posto un condensato di umanità, altrettanto fragile e ferita. Ma nonostante le sue carenze, i secoli bui, i suoi alternanti alti e bassi, la barca di Pietro è giunta fino ad oggi, con l’immutata determinazione di continuare il suo mandato nei secoli futuri, grazie all’assicurazione del suo Fondatore e sposo, che l’avrebbe protetta contro ogni ostilità della cattiveria umana.
Questo sicuramente è il suo punto di forza, questo il segreto della sua immortalità, della sua invulnerabilità.
Oggi, però, con rammarico, dobbiamo riconoscere che la Chiesa voluta da Cristo ha cambiato fisionomia: il tentativo di rinfrescarle il volto, di farle rinnovare l’antica veste nuziale, ha prodotto purtroppo degli strappi sostanziali non solo al suo incedere, ma anche alla sua sostanza: ha perduto la sua brillantezza, la sua autorità, la sua intoccabilità magisteriale; si presenta disunita, superficiale, incoerente: troppe le fragilità, troppe le contraddizioni, troppe le omissioni, troppe le svalutazioni dottrinali, troppe le infedeltà. In essa folle intere di cristiani vivono ignorando cosa significhi “credere”. Sono troppi quelli che non condividono certe sue iniziative, apertamente disallineate dall’originale mandato di Cristo, di insegnare, promuovere, difendere con carità ma con fermezza tutti i valori fondanti del suo Vangelo.
I suoi “apostoli”, inoltre, di fronte alla crescita esponenziale dei greggi, sono oggi numericamente insufficienti, burocratizzati, stanchi: si sta riproponendo in maniera più tragica, la stessa situazione lamentata da Gesù: "La messe è molta, ma gli operai sono pochi!”.
E ripropone anche a noi quel suo pressante invito: “Rogate Dominum messis”, implorate il Padrone del raccolto, perché mandi operai che se ne prendano cura!
In questo particolare periodo di smarrimento, di opacità e sofferenza, la Chiesa ha realmente bisogno di nuovi operai, nuovi “apostoli”, nuove guide: ha urgente bisogno di testimoni “credibili”, di pastori motivati per poter radunare tutti i greggi dispersi nel mondo e ricondurli compatti all'ovile del Padre. È un dato incontrovertibile.
Ma noi cristiani della domenica, che possiamo fare? Certo, non mancano i soliti adulatori idioti, che, forti di tale situazione, ci blandiscono: “Tu, uomo o donna, puoi essere un grande animatore nella chiesa; sei intelligente, preparato, se vuoi, puoi risolvere tanti problemi, datti da fare! Insegui le tue aspirazioni, realizzati, vai e raccogli tutti quegli onori e riconoscimenti che meriti!”. 
Non cadiamo in così false, sciocche, e stupide fantasticherie! Il nostro filiale, rispettoso, personale disappunto sull’attuale cammino della Chiesa, è ben lontano dall’essere motivato da un ipotetico inserimento in una delle tante sue nuove iniziative pastorali molto ambite, ma spiritualmente inutili, religiosamente aride! 
Noi cristiani dobbiamo ascoltare una voce soltanto, quella di Cristo, il buon Maestro: Egli solo riesce a vedere in noi quelle potenzialità operative che noi non possiamo vedere e neppure immaginare: attività che, con determinazione, Lui sfida i suoi nuovi collaboratori a praticare: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!”. 
È evidente che per il nostro “nulla”, tali “operazioni” sono non solo impossibili, ma addirittura improponibili. È però altrettanto vero che, sempre a questo proposito, Gesù ha detto anche che “tutto è possibile” a chiunque abbia un minimo di fede, grande almeno “quanto un granello di senape” (Lc 17,6)
Che fare allora? Nulla, facciamo come il giovane Samuele, che nella solitudine della sua camera alla chiamata di Dio risponde: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!” (1Sam 3,10). Abbandoniamoci alla Sua Parola, buttandoci alle spalle ogni nostro dubbio, ogni perplessità: e come Pietro, dopo una nottata di lavoro inutile, obbediamo, prendiamo il largo e gettiamo anche noi le reti! (Lc 5,8).
Se lo hanno fatto gli “apostoli”, trasformati dalla fede, lo possiamo fare anche noi cristiani, chiamati da Dio e guidati dallo Spirito: possiamo cioè anche noi, nel nostro piccolo, correre in aiuto a questa Chiesa debilitata e spoglia; possiamo anche noi rassicurare e “radunare” da ogni angolo della terra, tutte le sue pecore lontane, non con fiumi di parole, ma con una esemplare vita cristiana: perché in realtà è sempre Lui che opera servendosi di noi, è sempre Gesù, l’unico e vero Pastore, che sul nascere del nuovo giorno guiderà le sue pecore ai pascoli erbosi della salvezza: sarà sempre Lui, lo sposo, che condurrà la Chiesa, sua sposa, alla vittoria finale sul male: quella stessa Chiesa che, nel frattempo, noi a gran voce continueremo a proclamare al mondo, con orgoglio e senza timori di “
autoreferenzialismo”, Una, Santa, Cattolica e Apostolica! 
Dio non ha mai “obbligato” nessuno a coprire il ruolo di “pastore” nella sua Chiesa: Egli chiede, chiama, invita, e attende. Siamo noi che accettiamo di diventare degli “strumenti” nelle Sue mani; non ha mai chiesto a nessuno dei suoi “apostoli”, dei suoi collaboratori, interventi gravosi, eccessivi, impossibili; per cui, se un giorno decidesse di chiederci qualche piccola collaborazione, asteniamoci anche noi dal fargli in contropartita richieste impossibili; non pretendiamo mai nulla in cambio. Stare al suo servizio è un dono, un dono elettivo! Non cerchiamo riconoscimenti, pubblicità, onori, non chiediamo corrispettivi! In particolare, se nella piccola comunità in cui viviamo, già prestiamo una nostra modesta collaborazione, evitiamo di primeggiare, di esibirci, di trasformarci in promotori, moderatori, guide di “gruppetti scelti”: perché tali realtà, qualunque sia il loro settore di impiego, grazie ad un loro connaturale spirito elitario, finiscono puntualmente col diventare invalidanti per la normale attività comunitaria della Chiesa. 
Ascoltiamo invece, e mettiamole in pratica, le sagge parole che Pietro, il primo Papa, rivolgeva alla giovane Chiesa nascente: “Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 4,11). 
Sempre e in ogni caso, continuiamo il nostro cammino spirituale con grande responsabilità, perché il “servizio” con cui ci siamo obbligati con Cristo e la Chiesa mediante il battesimo, costituisce già da solo un grande impegno: esso infatti riassume l’intera nostra missione di cristiani, la passione, la gioia, l’amore per la nostra vita di fede. Dio non ci chiede nient’altro: viviamola, dunque, questa nostra umile disponibilità con Dio, facendo il bene, con semplicità e fedeltà, come Lui ci ha insegnato; e soprattutto continuiamo a pregarlo insistentemente, perché mandi nella sua Chiesa dei “veri” operai, gente innamorata di Lui, valida, esperta, e soprattutto santa. Amen

 

giovedì 8 giugno 2023

11 Giugno 2023 – CORPO E SANGUE DI CRISTO


Gv 6,51-58

“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». 
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.

La solennità liturgica di oggi ci ricorda che quando nella celebrazione Eucaristica ci accostiamo all’altare per “assumere” l’ostia consacrata, in realtà noi “mangiamo” il Corpo e il Sangue di Cristo. Ci immedesimiamo in Lui. Ci apriamo a Lui, mettiamo il nostro corpo a sua disposizione, perché diventi la sua dimora. Diventiamo, come dice Paolo “tempio dello Spirito Santo”. E poiché il nostro corpo è di Dio, chi non lo “ama”, chi non lo rispetta, non ama e non rispetta neppure Dio. 
Una volta si diceva: “Tutto ciò che è materia, che è corpo, che è umano, è negativo, indegno, spregevole, è peccato. Soltanto ciò che è spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo mortificare il più possibile la materia”. Chi ambiva seguire Cristo, doveva reprimere il suo lato materiale, fustigare il proprio corpo; in nome di Dio doveva purificarlo da ogni godimento mondano.
Poi finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio anche un corpo, inscindibili l’uno dall’altro: non esiste infatti nessun corpo umano senza un’anima, senza uno spirito, come non esiste nessun’anima, nessuno spirito, senza un proprio corpo; ogni uomo è costituito da questi due elementi inseparabili: quando stiamo male nel corpo, anche lo spirito soffre, sta male; al contrario quando lo spirito sta bene anche il nostro corpo sta bene. Ogni diversa emozione spirituale ci fa vivere esperienze corporee diverse!
Ecco perché dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo conoscere e rispettare i suoi limiti, i suoi ritmi, le sue possibilità; dobbiamo amarlo, dobbiamo volergli bene.
Ovviamente senza oltrepassare i limiti del buon senso e della morale naturale: perché oggi, dal disprezzo pressoché totale di una volta, siamo passati alla più sfrenata esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio, oggetto di latria, di culto. Qualunque sua imperfezione determina la discriminazione della persona. L’amore che gli viene tributato è purtroppo ben lontano dal rispetto, dalla cura, che ci ha insegnato Gesù: l’amore con cui egli ama il nostro corpo è completamente diverso, è pura “agape”, amore disinteressato, immenso, smisurato.
Quando andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo di Cristo”; e noi rispondiamo “Amen!”, cioè gli confermiamo che “è vero, è così, sto veramente per mangiare il Corpo di Gesù”.
È l’istante del nostro incontro materiale con Dio: il Divino si umanizza in noi col suo corpo. In quell’istante il nostro cuore, in un impeto di gratitudine, gli offre in umile preghiera il nostro misero benvenuto: “Ecco, Signore, questo è il mio di corpo: te l’offro come tua abitazione: entra tranquillo, farò di tutto per rendere confortevole la tua presenza!”; e la voce Gesù di rimando: “Amen; lo so, va bene, tranquillo, mi piaci così come sei: non ti preoccupare, insieme faremo grandi cose!”.
Se solo sapessimo ascoltarci con fede! Sicuramente sentiremmo queste o simili parole: perché incontrarsi attraverso l’Eucaristia è senz’altro motivo di conforto, un dono incommensurabile, un’immensa prova d’amore, una gioia profonda, reciproca, quella di Dio e quella nostra!
Lui, il Dio onnipotente, non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, piagato da mille contraddizioni; anzi entra nella nostra umanità proprio per amarla, valorizzarla, ristrutturarla, difenderla; viene perché è felice di stare “a tu per tu” con noi; viene per identificarsi con noi: Corpo nel corpo.
E, diciamolo, lo fa anche per necessità, perché egli ha bisogno di noi, del nostro corpo; dopo la sua ascesa in cielo, infatti, il nostro corpo gli è indispensabile: per muoversi, per operare, per continuare a parlare, per catechizzare questo mondo ostile; egli ha bisogno di suoi alter ego, e durante la nostra vita, siamo noi i suoi sostituti: siamo noi la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il suo cuore.
Un compito altamente impegnativo, che ci responsabilizza, una missione per la quale dobbiamo prepararci seriamente: nel senso che dobbiamo “santificare” questo nostro corpo, dobbiamo averne cura, non esporlo mai al pericolo del male, non asservirlo irresponsabilmente al peccato.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a mangiare e a nutrirci della sua santità, della sua giustizia? Perché, invece del suo sangue, non ci dice di bere la sua innocenza, la sua mitezza? perché non ci dice di prendere dalla potenza divina tutto il suo vigore? Invece si limita a dire: “Prendete e mangiate la mia carne!”. Non vi sembra incredibile? Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del suo corpo umano!
Avrebbe potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto lasciarci un segno straordinario della sua potenza, della sua gloria, un segno evidente e definitivo per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo corpo, con la sua persona, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, sublime trasparenza di quello del Padre.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore significa nutrirsi dell'Amore ardente di Cristo, significa assimilare la linfa della sua Vita immortale, significa scoprire che Dio desidera stare in intimità con noi più di quanto riusciamo ad immaginarlo.
La festa dell’Eucaristia è pertanto un chiaro invito ad abbandonare definitivamente il nostro comportamento da “uomo vecchio”, a scuotere con vigore quel desiderio, ormai per lo più spento, di unirci intimamente a Cristo. Risvegliamolo allora questo desiderio, recuperiamo la nostra dignità di figli di Dio, abbandoniamo il nostro “io”, uniformiamoci a “Lui”, spogliamoci della nostra misera identità, innestiamoci nel Corpo di Cristo assumendo la sua identità divina.
Questo dev’essere il nostro traguardo, questo il nostro grande ideale di cristiani.
Certo, “mangiare” la carne di Cristo, non è così semplice e naturale come con qualsiasi altro cibo: tant’è che Giovanni, nel riportare il termine mangiare pronunciato da Gesù, usa il verbo “trògo” che richiama vagamente il ruminare degli animali, un “masticare” lento, ripetuto, prolungato, meticoloso: un verbo che introduce l’idea di voler ottenere i massimi benefici dal cibo; quindi, nel nostro caso, “assumere l’Eucaristia” non deve consistere in una semplice e veloce “ingestione”, fatta distrattamente, pensando ad altro; ma deve essere una vera e propria “communio”, un reale, sensibile, personale incontro con Cristo, evento che richiede appunto una predisposizione, una “ruminatio” intima, lunga, paziente, consapevole.
In pratica, cosa vuol sottolineare Giovanni con questo? che “colui che mangia” (ò trògon) la carne di Gesù (tèn sàrka mou), se vuole il completo, totale assorbimento con Lui e in Lui nella vita eterna (zoèn aiònion), deve necessariamente affrontare un lungo lavorio interiore, una lunga “masticazione”, una potente “triturazione” degli esempi di vita di Gesù, del suo Vangelo, dei suoi insegnamenti: deve cioè decidersi a modificare concretamente le proprie abitudini negative, ad essere più sensibile alla voce della coscienza, a riprogrammare l’esistenza con autentici valori “cristiani”.
Se scorriamo le pagine dei Vangeli, infatti, possiamo notare che tutti coloro che hanno “incontrato” Cristo, che lo hanno spiritualmente “trasferito” in loro, non sono stati più gli stessi di prima. La loro esperienza personale è stata unica, radicale, sconvolgente, risolutiva.
Se invece ci fermiamo ad esaminare noi stessi, i nostri incontri con Dio, cosa possiamo dire a questo proposito?
Ben poco o nulla: non siamo migliorati, non ci siamo realmente convertiti, la nostra fede è rimasta debole, continuiamo a seguire stupide ideologie, non percepiamo la reale presenza di Dio in noi, anzi che ci sia o non ci sia, per noi è irrilevante, ci lascia indifferenti: talvolta può succedere anche di ascoltarlo, ma ogni sua Parola, ci scivola subito via.
Ecco perché, se veramente siamo interessati alla “vita eterna”, non possiamo assolutamente ridurre il nostro “incontro” con Gesù Eucaristia, ad un semplice sgranchirci le gambe, ad una “passeggiata” per la chiesa, ad un distratto e superficiale adeguarci al “così fan tutti!”; ma al contrario deve essere un evento straordinario, carico di devozione e umiltà; un voler entrare in sintonia, in “comunione” con Cristo; un ricreare con Lui la nostra vita interiore, la reale e totale “purificazione” dell’anima: convinti che con la sua potenza risanatrice, Egli riempirà il nostro nulla, e ci trasformerà da “esseri carnali”, in “esseri spirituali”; diventeremo cioè “nuove creature”, in grado di poter un giorno vivere e godere eternamente del suo infinito amore e della sua Vita immortale.
Preghiamo allora il Signore, in questa particolare occasione, perché si attui veramente tale conversione in noi e nel mondo, affinché ogni cristiano, ogni discepolo, ogni uomo, chiamato ad agire nel Suo nome, diventi sempre più “immagine autentica” di Dio. Non spegniamo mai l’azione dello Spirito di Dio che abita in noi! Lasciamo che la Sua grazia e il Suo amore operino liberamente e silenziosamente nel mondo e nella società, dentro e fuori di noi, e trasformino radicalmente la nostra anima, il nostro cuore, l’umanità intera. Amen!

 

  

giovedì 1 giugno 2023

04 Giugno 2023 – SANTISSIMA TRINITÀ


Gv 3,16-18
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio»

Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità, un Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo. Un mistero, quello trinitario, che è al centro della vita cristiana, e che noi ricordiamo continuamente anche nel farci il semplice segno della croce, anche se è un gesto che ripetiamo ormai meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo, a cosa diciamo, e soprattutto a come lo facciamo.
Dobbiamo riconoscere che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi purtroppo non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e sociale degli stessi cristiani.
Eppure la Trinità divina ─ almeno a livello di semplice “intuizione” ─ non ha bisogno di uno “sforzo speculativo” di equilibrismi intellettuali per essere afferrata dalla nostra mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; consiste infatti nel fare una conoscenza “vissuta” di Dio, quella stessa conoscenza acquisita senza problemi dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali; e cioè: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio; e nella realtà si comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un mondo infinito di amore, di comunione; constatarono in Lui una vita “divina” talmente grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare innato, connaturale: e collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di “famiglia”, composta da un Padre-madre, da un Figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unicum” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, nato come noi, che si chiama Figlio, compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo” (dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theòs” = “il dio dentro”), come creatività, come forza, amore, passione, energia: il Dio, in una parola, che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana che, come ho detto, è la prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte (Padre-madre), si fondono in unità nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale esistenza di questo “amore”, come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare quindi evidente.

Noi tutti sicuramente abbiamo avuto modo, almeno una volta, di vivere, magari inconsapevolmente, una certa esperienza “trinitaria”: per esempio, quando eravamo ancora nel grembo materno, inconsciamente sentivamo di essere una realtà unica, indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, completamente fusi con lei: oltre noi due non c’era nessun altro, noi due eravamo il “tutto”. Poi, una volta entrati nel mondo, ci siamo accorti che non era proprio così: oltre noi e la mamma, c'era anche un Papà, e tantissime altre persone; ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; ognuno era “unico” in sé stesso, ma allo stesso tempo era in “comunione” con gli altri; abbiamo scoperto che qualcosa ci univa, ci legava, si intesseva con le nostre vite, e che, maturando, abbiamo individuato come legame spirituale, amicizia, rispetto, amore. Venire al mondo, uscire dal nostro involucro materno, nascere, è stato sicuramente il dono più bello che l’amore potesse riservarci; è stato scoprire il senso della vita, ma è stato anche il momento che ci ha resi però più indifesi, più deboli, perché in quello stesso istante siamo diventati “altri”: ognuno, da solo che era, ha dovuto confrontarsi con tanti altri, ha dovuto cioè “altrificarsi”.
Un fenomeno che, con la crescita, non tutti accettano come dono meraviglioso: per molte persone, infatti sentirsi “altre”, sentirsi cioè diverse - da “di-vertere”, separarsi, seguire vie differenti, avere scopi disuguali - diventa un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, a combattere, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode. Molte altre invece, vivono al contrario la loro “alterità” come “competizione”, un doversi continuamente confrontare con gli “altri”: la loro vita si trasforma in una “lotta” permanente, impegnata a stabilire la loro superiorità, puntualizzare il loro assolutismo, chiarire che non temono confronti; il che, purtroppo, riduce la loro vita solo ad un affrontarsi, a farsi guerra, a considerare stupidamente l'altro come un nemico, un pericolo incombente per il loro ego smisurato.
Il mondo familiare, il mondo del lavoro, e a volte anche le nostre comunità cristiane, sono purtroppo piene di queste particolari personalità, che vivono in continua tensione nei confronti degli altri, in lotte estremamente feroci, ancorché silenziose, intime, segrete, in cui l’altro è un “nemico” che va costantemente zittito, eliminato, ucciso, certo non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i “giudizi” taglienti. Giudicare, dal greco “krino”, vuol dire infatti “dividere”, “separare”. Solo che un tale comportamento dimostra chiaramente la totale mancanza di amore sia per gli altri che per sé stessi; colui infatti che si ritiene strutturalmente “diverso, superiore”, non ama, non accetta gli altri, perché non accetta neppure sé stesso, non si ama così com’è, pretende sempre molto di più, è insofferente, intollerante; per cui sparla, trancia giudizi velenosi, riserva solo maldicenze e cattiverie, dimostrando nei fatti la propria nullità esistenziale.
Certo, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza trinitaria di reciproche “alterità” che vengono armonizzate in un unico spirito d’amore, c’è ancora molta strada da fare: c’è bisogno soprattutto di tanta umiltà, di tanta pazienza, di tanto rispetto delle identità diverse: perché solo così l'incontro con Dio nella profondità delle anime dei fratelli, riuscirà a fonderci insieme, tramite quell’amore unico, vero, creativo, “oblativo”, che Lui ci ha lasciato in eredità.
Dio è Amore donato: ecco perché anche il nostro amore deve diventare dono, “relazione”: tra noi, i fratelli e Dio, deve pertanto attuarsi una speciale pericoresi trinitaria: vale a dire quella compenetrazione reciproca di tre entità separate e distinte che si offrono, si donano, e si ricevono, confluendo unite nell’amore dell’unico Dio e Padre di tutti.
Inondati dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire al Dio Trinità, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato con la sua stessa vita: quel Dio che ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”, imprimendo dentro di noi il suo DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio per vivere appunto in comunione la sua stessa vita d'amore, di fraternità, di condivisione.
Festeggiare la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo faticosamente la nostra vita di cristiani. Amen.



  

mercoledì 24 maggio 2023

28 Maggio 2023 – SOLENNITÀ DI PENTECOSTE


Gv 20,19-23
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

 Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro una specie di grembo materno, si sentono avvolti, protetti, nascosti, al sicuro. Nei cinquanta giorni successivi alla Pasqua, hanno ricordato le parole di Gesù, hanno cercato in esse un senso, hanno rivissuto tutti quei momenti nei quali egli cercava di prepararli, di educarli al “dopo”: ma ancora non capiscono completamente, sono ancora vittime della loro profonda e sofferta delusione interiore. 
Improvvisamente un terremoto, un vento impetuoso si abbatte su di loro: lo Spirito di Dio è sceso dal cielo e invade i loro cuori, spazza via dalle loro menti la paura, la debolezza, lo sgomento: i pensieri, le certezze, la vita, all’istante cambiano; con la presenza spirituale di Gesù in loro, si sono trasformati, sono diventati irriconoscibili, sono “altri”. 
Ora parlano una lingua “nuova, diversa”, che però tutti capiscono, perché lo Spirito fa da interprete simultaneo tra loro e gli altri. Prima Gesù stava materialmente con loro, aveva un corpo, mangiava e parlava con loro, trascorrevano insieme le giornate intere. Dopo essere salito al cielo, Gesù è tornato per stare stabilmente con loro, non corporalmente, ma spiritualmente, dentro di loro: essi ora lo sentono più forte e chiaro, potente e presente, e quel che conta, capiscono immediatamente il significato delle sue parole. Il loro terrore di perderlo, di rimanere soli, si è trasformato nella certezza che niente e nessuno avrebbe mai potuto privarli della sua presenza. 
Ecco questa è la Pentecoste degli apostoli, questa è la Pentecoste della Chiesa: un evento straordinario che deve segnare anche per noi cristiani, l’irruzione dello Spirito dentro di noi, una nuova forza che sconvolge la nostra tiepidezza, che rovescia, rigenera, infonde nuovo vigore, proprio a quell’iniziale “soffio” di vita con cui Dio ci ha generati, a quell’anima, cioè che noi troppo spesso dimentichiamo, per la quale purtroppo proviamo un certo interesse solo in rare occasioni. 
Essere dello Spirito, allora, essere veramente “spirituali”, non vuol dire pregare molto, frequentare assiduamente la chiesa compiere azioni, buone, pie, religiose; questi sono gli effetti, le conseguenze positive della sua presenza; essere “spirituali”, vuol dire invece, “appartenere” allo Spirito, essere un tutt’uno con Lui; vuol dire che se noi esistiamo, è solo grazie a Lui. 
Quando guardiamo una persona, noi in genere ci fermiamo al solo aspetto esteriore. Ma è qui che sbagliamo, perché dobbiamo andare oltre, dobbiamo guardare l’anima delle persone, dobbiamo vedere Dio in loro, proprio come faceva Gesù: Lui fu l’uomo che ha sempre guardato oltre le apparenze, oltre la realtà materiale di chi gli stava davanti, guardava insomma il “modo di vivere” della persona: Egli “vedeva” i sofferenti, i poveracci, i bisognosi, e mentre tutti cercavano di evitarli, Egli li avvicinava, li abbracciava, coglieva il loro bisogno d’amore, donava amore; vedeva i peccatori e mentre tutti li consideravano nemici di Dio, Egli entrava dentro la loro anima, ne coglieva la luce nascosta, la loro forza, il desiderio nuovo, intimo, profondo, di rinascere; vedeva in loro il tocco creatore del Padre, quelle creature cioè che il Padre stesso gli aveva affidato per essere riscattate e ricondotte al suo amore eterno.
Oggi dunque è Pentecoste, è la festa dello Spirito: preghiamo allora Dio, nostro Padre, perché mandi su tutti i popoli della terra il suo Spirito, il Consolatore, l’Avvocato: perché oggi, più che mai, abbiamo tanto bisogno di Lui, della sua Pentecoste!
Viviamo infatti in una società in cui i valori universali stanno scomparendo definitivamente: valori come giustizia, amore, famiglia, obbedienza, carità, sacrificio, sono stati cancellati dai vocabolari della nostra cultura, relegati ad una interpretazione personale, limitativa, utilitaristica.
C’è un mondo che si rifiuta di elevarsi a Dio, una cultura che rigetta l’idea di Dio, una società ottenebrata, che irride all’aspirazione di stabilire una “connessione” stabile con il “Padre celeste”, dimostrando di non capire che senza di essa la vita non sarà mai vita, che qualunque aspirazione, qualunque progetto, continueranno ad essere motivo di prevaricazione, odio, egoismo.
La Chiesa stessa, che dovrebbe apertamente, coraggiosamente, difendere i valori inalienabili, fondamento della nostra fede cattolica, oggi è spaesata, confusa, disorientata: il suo magistero, una volta potente, compatto, corale, autoritario, oggi è quasi completamente afono: le chiese sono sempre più deserte, i cristiani latitano: iniziative come quella recente di inviare quanti le sono ancora fedeli “in tutti i crocicchi delle strade” per attirare più gente possibile alle “nozze” con lo Sposo celeste, non potrà essere risolutiva, perché oggi nessuno più parla dell’obbligo conseguente di indossare la “veste nuziale”; oltretutto, nessuno più si espone a spiegare cosa realmente verrà offerto di “regale” nel banchetto ecclesiale, poiché nel frattempo le celebri e ricche risorse, lasciate in consegna da Cristo stesso, si sono deteriorate, avariate, ammuffite.
Questa, Signore, è la situazione che tu ben conosci: questo è il motivo per cui umilmente ti chiediamo una nuova, urgente Pentecoste: abbiamo veramente bisogno che il tuo Spirito scenda ancora dal cielo, e col suo fuoco ardente bruci gli ammassi di sterpaglie ideologiche che paralizzano ogni tentativo dei fragili credenti di elevarsi a Te; e soprattutto, ripeta ancora una volta il miracolo delle lingue: sì, perché, in questa nostra convivenza sociale non c’è più dialogo, non ci sono più parole di bontà e di perdono, non c’è più condivisione di amore sincero, di gioia spirituale.
Per questo, Signore, ti pregiamo: “Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Lava ciò che è sordido, irriga ciò che è arido, guarisci ciò che sanguina. O luce beatissima, dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni! Amen.

 

  

giovedì 18 maggio 2023

21 Maggio 2023 – ASCENSIONE DEL SIGNORE


Mt 28,16-20
Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 Il vangelo di oggi offre alla nostra meditazione le ultime raccomandazioni di Gesù, prima del suo commiato definitivo da questa terra. Egli se ne va e lascia ai discepoli, i più stretti collaboratori, il suo testamento spirituale, le sue parole più preziose.
Parole solenni, importanti, che rimarranno per sempre a conforto e guida anche di quanti nei secoli vorranno mettersi al suo servizio. A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Con queste parole, Gesù mette in chiaro le sue credenziali: dice chi è, quali sono i suoi poteri, quale il suo campo d’azione: Egli se ne va, ma continua a rimanere il Signore della storia, ad avere il potere assoluto sulle cose, sugli eventi, su ogni uomo. Egli è la salvezza per tutti gli uomini, nessuno escluso: è e sarà sempre di tutti, per tutti: Padre misericordioso, ma anche giudice giusto e imparziale.
Oggi, Gesù dunque sale al cielo, e lascia gli Apostoli sulla terra. Prima era Lui che si occupava di annunciare la buona Parola, il messaggio del suo Vangelo; ora lui non c'è più; è rimasta la Chiesa, ci siamo noi. Siamo noi i nuovi responsabili. Da questo momento in poi, non possiamo lasciare più nulla al caso; la nostra vita non può più essere la stessa; dobbiamo diventare “spirituali” e insieme “materiali”, dobbiamo cioè vivere nella contemplazione di Dio, nella preghiera, nella meditazione, prenderci cura dei fratelli, trasmettere loro i suoi insegnamenti, accoglierli col battesimo nella sua Chiesa, e allo stesso tempo occuparci concretamente delle loro esigenze materiali.
Sappiamo bene che il mondo è molto più soddisfatto quando vede che ce ne stiamo per conto nostro, rinchiusi nelle nostre Chiese, impegnati nelle nostre preghiere, nelle nostre liturgie: l’importante per lui è che ce ne stiamo lì, buoni, che non pretendiamo di immischiarci nei “suoi” problemi, nei suoi affari, nei suoi equilibrismi; non sopporta cioè che la Chiesa si impicci di politiche sociali, di tipologie di “famiglie”, di unioni omosessuali, di trasformazioni genetiche, di sfruttamento dei minori, di malcostume imperante. Solo in questo modo possiamo venir tollerati dai potenti della terra, da chi domina finanziariamente il mondo.
Ma Gesù non vuole dei fantocci, non vuole che stiamo zitti: vuole che ci comportiamo come Lui: la sua voce di condanna si è sempre espressa chiaramente contro ogni sopruso, contro ogni male, e questo deve essere anche il nostro unico criterio di azione, perché siamo noi i Gesù di oggi, i “messia” di questo nostro tempo: non dimentichiamolo mai!
Lui non c'è più, è vero, ma al suo posto ci siamo noi; noi, scelti a mandati in questo mondo per trasmettere il suo Vangelo, per illustrare a tutti, con la nostra vita, la bontà del suo messaggio.
Questa è la nostra missione di cristiani: questa è la volontà di Gesù, espressa chiaramente prima di partire: se non ci sta bene, se non ci interessa, se non proviamo alcun entusiasmo, smettiamo di definirci cristiani, di farci passare per “discepoli del Maestro”: smettiamo di ingannare noi stessi e gli altri, ricordandoci però che lontani da Lui, siamo soltanto delle nullità, dei falliti, siamo una sua immagine sbiadita, completamente disallineati dal suo Spirito.
Tradiamo in pieno il suo importante messaggio: “Apritevi, Andate, Fate discepoli, battezzate!”.
Una fede chiusa, circoscritta, è infatti una fede morta. La vera fede, al contrario, è aperta, dinamica, in continua crescita, in costante progressione e affermazione.
La fede della Chiesa non può sopravvivere vivendo da sola, alimentandosi della sua storia, immergendosi soltanto nel suo vissuto secolare: il vangelo, la tradizione, il magistero, che costituiscono la sua spina dorsale, devono rimanere sempre il suo motore trainante, la forza che la spinge in avanti, a conquistare, a farsi conoscere dal mondo. Perché la vera Chiesa di Cristo, per dare copiosi frutti spirituali, oltre che “cristiana”, legata cioè indissolubilmente a Cristo, deve essere soprattutto “cattolica”, cioè universale, deve aprirsi a tutti gli uomini, al mondo intero, senza mai perdere la sua brillantezza, la sua originalità, la sua fedeltà.
Noi chiesa, nei confronti di chi è lontano per errore o per scelta, dobbiamo essere i maestri autentici, i trascinatori, quelli che si sentono incaricati ufficialmente da Cristo di rappresentarlo, di combattere per Lui, per trasmettere quanto Lui ci ha comandato.
Purtroppo, abbiamo un nemico sempre pronto a debilitarci: con il passare del tempo, come tutte le cose, anche il nostro entusiasmo, la nostra fede ardente, sono destinati a mutare, ad affievolirsi, deteriorarsi, per poi scomparire: anche se all’esterno tutto può sembrare identico, immobile, invariato, nella realtà, nel profondo, tutto cambia: anche la nostra risposta alla chiamata di Dio, anche il nostro rapporto d’amore con Lui. Ecco perché dobbiamo avere la costanza di alimentare continuamente la nostra fede, ecco perché dobbiamo averne la massima cura: se non la custodiamo gelosamente, se non l’approfondiamo, se non la purifichiamo, se non la difendiamo da ogni attacco del mondo contro la sua originale purezza e integrità, col tempo anch’essa si ammutolirà, perderà ogni fascino, e alla fine la perderemo inesorabilmente.
Di fronte alle nuove sfide innovative che si materializzano continuamente, alle nuove battaglie culturali e religiose, di fronte ai tanti virus letali delle false ideologie che quotidianamente si impongono, la nostra fede, la fede della Chiesa, deve essere sempre vigorosa, pronta a combattere, a difendere la sua indipendenza, la sua originalità, la sua divinità.
Non dobbiamo pensare che questa sia una possibilità molto remota: è infatti evidente a tutti che anche nella nostra cattolicissima Italia, l’autentica fede cristiana è ormai disorientata, allo sbando: debilitata, trascurata, fagocitata dalle subdole ideologie imperanti, ha smarrito il suo entusiasmo vincente, ogni sua vitalità appassionante, coinvolgente.
Sarebbe ingeneroso scaricare come al solito l’intera responsabilità di tale situazione sui preti, sulla Chiesa, sul magistero: la colpa principale, questa volta, è soprattutto nostra, di noi cristiani, tiepidi, indifferenti, senza orgoglio; cristiani completamente apatici, senza stimoli religiosi; cristiani che ambiscono magari di “esibirsi” in particolari ambiti clericali per proprio insensato prestigio, piuttosto che offrire umilmente a Dio un valido e decoroso servizio alla sua Chiesa.
Grazie a Dio, in questo triste disorientamento, Cristo continuerà a rimanere sempre l’unico vincente, continuerà ad essere per noi, per la chiesa intera, l’instancabile Paraclito, il solerte e infallibile Avvocato: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Ecco: questa certezza che Dio è sempre con noi - ieri, oggi, domani - è la nostra polizza di assicurazione sulla vita: è quel “vento” salutare dello Spirito, che soffiando su di noi ridà energia e vigore al fuoco languente della nostra fede. Amen.

 

  

giovedì 11 maggio 2023

14 Maggio 2023 – VI DOMENICA DI PASQUA


Gv 14,15-21 
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Giovanni continua oggi a riferirci il discorso di addio di Gesù iniziato domenica scorsa: i particolari da chiarire sono ancora molti e importanti, perché devono essere capiti bene.
Siamo ancora nel cenacolo: Gesù ha appena annunciato il suo prossimo ritorno al Padre, in quel luogo dove non c'è più nulla da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, unico e insostituibile, un posto che lui stesso sta andando a prepararci.
Egli torna dunque a parlare ai discepoli di questa sua partenza, di questo suo distacco: ma nello stesso tempo assicura loro che il Padre non li avrebbe lasciati soli, avrebbe assicurato la presenza di un “Paraclito” che sarebbe rimasto per sempre accanto a loro, e quindi a noi, Chiesa di ogni tempo: anche se materialmente nessuno potrà più vedere il suo volto, Egli continuerà a rimanere con il suo Spirito con noi, in noi, in maniera diversa, in maniera spirituale. 
“Il Padre vi darà un altro Paraclito. In greco, “Paràcletos” significa “Avvocato”: avremo cioè un “professionista” che ci difenderà contro le insidie del male, che ci assisterà quando siamo in pericolo, quando ci sentiremo soli, deboli, impotenti; uno che ci suggerirà sempre cosa dobbiamo fare, come comportarci al meglio. Ma “Paràcletos” significa anche “Consolatore”: avremo sempre cioè uno che ci capisce, che condivide i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre paure; uno che ci consola quando pensiamo di non farcela, che lenisce il dolore delle nostre ferite, che sa entrare nel nostro mondo interiore, nella nostra anima, che sa parlare al nostro cuore.
Gesù sa perfettamente che senza la sua costante presenza, i discepoli, noi in particolare, avremmo facilmente dimenticato la sua immagine e le sue parole. Per questo ha assicurato la presenza di “un protettore”, un avvocato, un “chiarificatore”: di uno insomma alla cui scuola tutti, in ogni tempo, avrebbero potuto imparare a fondo cosa significhi veramente fare “esperienza di Dio”.
Da qui, una considerazione: tutti dobbiamo entrare in familiarità con questo “Paraclito”; dobbiamo cioè imparare a conoscere lo “Spirito” di Dio, dobbiamo incontrare il Gesù dentro di noi, entrare in Lui, amarlo, vivere di Lui.
Parole facili a dirsi, ma non altrettanto da mettere in pratica, anche se, in realtà, di occasioni per incontrare Gesù nei vari momenti delle nostre giornate, della nostra vita, ne abbiamo tantissime: dobbiamo solo aprire bene gli occhi, indossare gli occhiali della fede, della nostra anima, del nostro cuore; dobbiamo insomma calarci in quella dimensione del nostro io occupata dallo Spirito: una dimensione “spirituale” di cui dovremmo avere la massima cura, e che invece, purtroppo, con grande disinvoltura, noi mortifichiamo in continuazione, riducendo il nostro cristianesimo a una inutile religione di facciata.
Non è possibile continuare a comportarci sempre da immaturi; ciascuno di noi ad un certo punto deve diventare padrone della propria vita. Nessuno può continuare a giustificarsi dicendo: “faccio solo quello che mi dicono”. Se Dio avesse voluto che l’uomo rimanesse sempre ignorante, che non diventasse “adulto”, una persona responsabile, autonoma, non lo avrebbe dotato di un cervello. Al contrario gli ha detto: “hai le gambe, cammina; hai gli occhi, osserva; hai le orecchie, ascolta; hai il cervello, usalo”.
Sì, perché di fronte a Lui dobbiamo essere completi, autonomi, non mezze calzette, non dei piagnucoloni! La sua Chiesa ha bisogno di uomini liberi, di uomini veri, dalla grande personalità; uomini forti, integerrimi nei costumi; uomini lungimiranti che sappiano interpretare la storia, che sappiano prevederla; uomini “alternativi”, come lo è stato Lui qui in terra; devono, in una parola, volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in aria autonomamente, senza alcun sostegno, convinti di poterlo fare.
Oggi, in particolare, i “pastori”, i “maestri” del Vangelo, quelli scelti da Gesù per guidare, per istruire, per consolidare la fede della sua Chiesa, dovrebbero dimostrare di essere veramente dei “posseduti” da Dio, dei “depositari” del Paraclito, lo Spirito della Verità; dovrebbero veramente pensare, agire, insegnare sempre, come autentici “illuminati” dallo Spirito: perché solo così potranno trasmettere il messaggio di Cristo ai fratelli, insegnando loro a conquistare, coltivare, accrescere, custodire la fede in Lui, a vivere nel Suo amore; solo così, potranno insegnare ai fratelli di meritarla, questa fede, di difenderla, e soprattutto di “perseverare” in essa.
“Perseverare nella fede”: un’espressione che purtroppo è completamente sparita da catechesi, prediche, pubblicazioni cattoliche: perché “perseverare” è un verbo che implica fatica, lotta, fedeltà e amore per un ideale, che mal si coniuga con l’idea oggi predominante di un Dio bonaccione, che passa sopra a qualunque offesa, che lascia correre, che perdona comunque tutto a tutti. Che Dio sia bontà, amore illimitato, è una “sua” esclusiva proprietà ontologica, che non ci autorizza a pensare che, grazie ad essa, Egli giustifichi automaticamente ogni nostra infedeltà o ribellione.
Purtroppo, la società di oggi è fagocitata dall’anticristo contemporaneo: il totale e assoluto relativismo; la gente si sente affascinata non dalla Verità del Vangelo, ma da una congerie di insulsaggini, propagandate da pseudo preti, maghi, santoni e indovini che, lautamente retribuiti, sproloquiano dalle loro cattedre televisive.
Per la gente ormai è una moda rinunciare alla propria autonomia intellettuale, affittare il cervello e la propria vita a questi falsi profeti, a questi squallidi buffoni, che pretendono di ergersi a Divinità infallibili, a visionari di ogni genere, a sedicenti interlocutori diretti con Dio e con la Madonna.
In questa situazione drammatica la Chiesa fallirebbe in pieno il suo mandato divino, se si accontentasse di trasmettere ai fedeli un Dio “immagine”, in formato “regalo”, un Dio semplicemente da ammirare, da pregare, da esporre, da esibire. Il Dio di Cristo non è così! Gesù non ha trasmesso un Dio statico, immobile, un Padre buonista, facilmente manipolabile dal nostro scaltro “savoir faire”: ci ha rivelato invece un Dio attento, onnipresente, che va cercato, seguito e amato tra mille difficoltà, tra mille dubbi, tra continue sconfitte e piccoli progressi; la nostra è una fede che non “impone” nulla, è vero; è una fede senza “regole” capestro, che offre semplici “consigli” di vita: ma è una fede che esige onestà intellettuale, amore sincero, fedeltà! Non assicura “tout court” una vita eterna, soprannaturale, ma al contrario ci insegna come costruirla, perfezionarla, alimentarla quotidianamente con i suggerimenti dello Spirito di Dio che abita in noi. La strada da percorrere è ovviamente in salita, lunga e difficile: è un percorso che esige da ciascuno serietà, maturità, convinzione, costanza.
Non basta infatti “vivere”, ma bisogna “saper vivere”, saper capire, saper giustificare, saper amare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che professiamo, a ciò che confessiamo, a come e perché lo traduciamo in vita vissuta.
È proprio per questo che il nostro “credo” cristiano, se è coerente e fedele allo Spirito, va sempre contro corrente, è in perenne disaccordo con gli schemi individualistici dell’uomo, è motivo di rottura e di abbandono da parte dei nullafacenti, oggetto di critica atroce da parte del “mondo”: perché, come dice Gesù, il “mondo” non può relazionarsi “de visu” con lo Spirito, non lo vede, non lo sente, non lo conosce: è totalmente diverso, è proiettato in tutt’altra dimensione!
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”, dice Gesù.
Qui Giovanni parla di “comandamenti”: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci comandamenti” del catechismo; ma, se pensiamo bene, Gesù ci ha lasciato un solo “comandamento”: “Ama il Signore tuo Dio e il prossimo tuo come te stesso”.
È il “comandamento” dell’amore: ma neppure questa definizione è esatta, perché, in realtà, l'amore non si può imporre a nessuno. Non si può comandare di amare: l'amore è libero, nasce spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: “Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo ad amare. L'amore vive solo dove c'è libertà.
Gesù, infatti, non l’ha “ordinato”, ma lo ha caldamente consigliato. L’unico comandamento vincolante, per chi vuole seguirlo, è quello di “vivere come Lui”, di “seguire i suoi passi”, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio.
Per raggiungere qualunque obiettivo è necessario “volerlo” sul serio, sentire nel cuore quell’intimo impulso che ci spinge all’azione. Infatti i “maestri”, gli educatori, possono certamente pretendere dai loro allievi che si impegnino seriamente nella vita, che osino, che puntino sempre più in alto, in una parola che siano “aquile”: ma se questi in cuor loro non sono convinti, se hanno paura di volare, se non sentono alcuna attrazione per l’altezza, per la bellezza, se non sentono il fascino del volo, poveretti! ci proveranno anche, ma non arriveranno mai a nulla: una gallina, per quanto si sforzi, non potrà mai diventare un'aquila!
Gesù, anche per questo, ci ha assicurato la presenza del suo Spirito: proprio perché, grazie a Lui, trasformati da Lui, potessimo abbandonare la nostra naturale “pesantezza umana” per librarci fin lassù, in alto, tra le braccia del Padre: guidati dai suoi consigli potremo infatti diventare veri “esseri spirituali”. Lui può: perché è il nostro Maestro, la nostra forza, la nostra guida, il nostro avvocato, il nostro Consigliere, il Dio in noi. Con Lui nulla ci sarà impossibile. Gesù ce l’ha promesso!
Accogliamolo, allora, questo Paraclito Consolatore; apriamogli le braccia e il cuore, accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando. Semplicemente amando. Perché questo solo è lo Spirito di Dio: Amore! È Lui che alimenta questo nostro cuore, creato dal Padre per ricevere e dare Amore: lo presuppone, lo suscita, lo incarna in noi. È lo Spirito Amore che tiene compatta la nostra vita, nonostante le fratture, le contraddizioni, i fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva, la indirizza, la rinvigorisce. Tutto in noi, di noi, viene continuamente nobilitato dallo Spirito Amore; ecco: questa è la “buona notizia” di oggi. Amen.

 

giovedì 4 maggio 2023

07 MAGGIO 2023 – V DOMENICA DI PASQUA


Gv 14,1-12 
«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». 
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Il vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: Egli sta per andarsene, e affida loro il suo testamento spirituale, parla delle cose più intime, più profonde, che più gli stanno a cuore.
Giuda è già uscito per tradirlo, e quindi, poco dopo le guardie sarebbero arrivate per arrestarlo; il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale: lo spettro della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del Golgota.
Gesù ha ancora molte cose da dire ai suoi; soprattutto vuol far capire bene lo scopo della sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e indissolubile che esiste tra lui e il Padre. “Quando sarò andato da Lui e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me. Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma state tranquilli, non temete: vado a prepararvi un posto. Non scappo via. Vado, ma poi torno a prendervi! Ora siete impauriti perché tutte le vostre previsioni, le vostre certezze, sembrano crollare. Questa è la vostra impressione: ma non è così! Perché nulla andrà perduto di quanto vi ho promesso. Guardate il tempo: dopo ogni notte, dopo il buio, dopo la solitudine, puntualmente la nuova luce del mattino torna sempre a tranquillizzare, a rischiarare la vita”.
Ecco: questo, detto in altre parole, è quanto Gesù promette ai suoi: esattamente quanto, ogni giorno, Egli continua a ripetere anche a tutti noi. Le sue sono parole importanti, parole che ci devono tranquillizzare contro le tante incognite della vita, contro le difficoltà, le sconfitte, le paure, nostre abituali compagne di viaggio.
In ogni momento difficile dobbiamo ricordarci sempre “chi siamo” e “chi è nostro Padre”. Anche se gli altri ci discriminano, ci ignorano, ci evitano, Lui è sempre presente, Lui ci capisce sempre, perfettamente: questa deve essere la nostra unica certezza! Inoltre, anche di fronte alle nostre continue infedeltà, ai nostri tradimenti, non perdiamo mai la speranza del perdono, affrontiamo umilmente ma con fermezza il nostro riscatto, perché Lui ci sta aspettando a braccia aperte; anche di fronte al più tragico evento della nostra vita, ripetiamo a noi stessi con grande fiducia e abbandono: “Dio è con me, sono suo figlio: Egli mi ama, è mio Padre, niente può distruggermi, mi fido di Lui”. E quando la notte della vita si presenterà alla nostra porta, sarà sempre Lui che ci prenderà per mano e ci condurrà nella casa del Padre, ad occupare quel “posto”, che Lui ha preparato per ciascuno noi.
Poniamo allora la nostra fiducia in Dio, non una, ma dieci, cento volte; mettiamoci completamente nelle sue mani: trasformiamo la nostra vita, la nostra gioia e il nostro dolore in umile preghiera: probabilmente non risolveremo immediatamente i nostri problemi, ma sicuramente riacquisteremo la nostra fiducia, la nostra voglia di combattere, la nostra forza, nella certezza che, se anche tutto dovesse crollare intorno a noi, potremo sempre contare su quel “posto” sicuro, che Lui ha preparato per noi “nella casa del Padre”. 
È lì che ognuno ha il suo posto personalissimo da figli prediletti; nessun altro può averne uno uguale, perché tutti noi siamo figli unici. Spesso molte persone si sentono soddisfatte, in perfetta regola, nel giusto cammino, solo perché si vedono uguali a tante altre che si comportano esattamente come loro. Dovrebbero invece sentirsi in difetto, perché Dio non crea doppioni, non ama duplicati; non pretende da tutti la stessa condotta standard: ogni vita “copiata” è un falso, una vita sbagliata, non realizzata, non vissuta, mai osata. 
Dare il buon esempio ai fratelli è importante: tutti abbiamo bisogno di guardare gli altri, di studiarli per imparare, per capire, per maturare; purtroppo quel Dio che ciascuno di noi manifesta agli altri con la propria vita, è solo un’immagine sfocata del vero Dio Amore: quello che noi trasmettiamo all’esterno è la nostra limitata interpretazione, è la vaga somiglianza di Dio. Egli fin dall’inizio ci ha creati tutti a sua “immagine e somiglianza”: mentre però l’essere sua “immagine” dipende da Lui, dal suo “tocco creatore”, identico per tutti gli uomini, il “somigliare a Dio” è di nostra esclusiva competenza, spetta singolarmente a ciascuno di noi. Il grado di rassomiglianza con l’originale, dipende quindi dalla fedeltà, dalla sincerità, dall’amore con cui noi rispondiamo alla Sua chiamata; è esattamente proporzionale all’impegno con cui investiamo quei “carismi” che Dio ci ha donato: per cui la “somiglianza” divina che ognuno di noi raggiungerà, sarà unica, personale, diversa da tutte le altre. 
Per questo Dio dice: “Ognuno ha il suo posto”: perché ognuno potrà occuparlo solo se avrà percorso fedelmente la “sua” strada, se avrà risposto generosamente alla “sua” chiamata, elementi che nella vita di ciascuno sono unici, induplicabili e che, pertanto, come tali vanno curati e vissuti. A Dio non interessa la forma, ma il contenuto di ogni singola esistenza.
Non per nulla Gesù si identifica con “la via, la verità, la vita!”; osserviamo bene l’ordine con cui le nomina, perché non è casuale: Gesù infatti è la “Via” che conduce alla “Verità”, perché solo nella verità la “Vita” sarà piena, sensata, realizzata, degna di essere vissuta. 
Non dice: “Io vi indico una via”, ma: “Io sono la via!”. Gesù non ha bisogno di darci altre regole, altri codici, altre indicazioni da seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui; Egli è tutto; è il cammino, l'unico cammino che ciascuno deve percorrere. A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, per essere felici, per andare al Padre, Egli ha sempre detto a tutti: “Seguimi!”. Un invito che compendia la sua Vita e l’intero suo Vangelo. 
Non dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la Verità”. A questo proposito, di fronte alla domanda di Pilato: “Quid est veritas?”, (che cos’è la verità?), sant’Agostino, anagrammandola magistralmente, ipotizza questa risposta di Gesù: “Est vir qui adest” (è l’uomo che ti sta davanti): “La Verità sono Io”, punto! Non sono ammessi fraintendimenti! Ci sono invece molte “verità” che oggi circolano, molte sedicenti “chiese”, molte religioni (o pseudo tali), molti santoni, innumerevoli veggenti e ciarlatani di ogni genere, che si arrogano il diritto di affermare: “Io ho la verità, io ho Dio, seguimi e farò diventare anche te un avatar, una reincarnazione di Dio”. Siamo seri, non perdiamo tempo con tali idiozie! La Verità non si possiede, si vive, è vita. Questa gente confonde la “verità” con delle vaghe “conoscenze” personali che applicano ai loro discorsi, quasi sempre a sproposito. Per Gesù, la Verità (in greco alètheia, togliere il velo) è scoprire quello che Dio vuole da noi, significa aprire la nostra mente a ciò che lo Spirito di Dio ci suggerisce nell’anima. 
Infine Gesù dice: “Io sono la vita”; non dice: “Io ho la vita”, non è un’assicurazione da stipulare, per campare tranquillamente, a scanso di preoccupazioni e problemi. Gesù è “la” Vita, quella che dobbiamo fare nostra, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere? Eccomi: Vivi!”. 
Sbaglia chi pensa che “vivere” coincida con il fare tante esperienze, con il possedere molte ricchezze, con il godere al massimo i piaceri di questo mondo: “vivere” non è buttarsi allo sbaraglio, dove capita, con chi capita (domanda molto frequente: “dove andiamo a vivere questa sera?”): ma vivere è sentire, percepire la “Vita” divina che vive in noi, per realizzarla esteriormente nel quotidiano.
E concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”.
Ebbene: facciamo nostra questa preghiera. Facciamo nostro questo accorato invito rivolto a Gesù perché ci renda partecipi dell’abbondanza di bene e di amore che il Padre rappresenta.
Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per soddisfare il nostro egoismo e la nostra accidia: un Dio qualunque, un Dio imprecisato e vago, un Dio indifferente, un Dio a tempo perso. Siamo adulti! Comportiamoci come tali! Il Dio Padre di Gesù è infatti un Dio “adulto” che ci tratta da adulti; un Dio che non ci considera degli sprovveduti, degli incapaci, dai quali dover accorrere continuamente per risolvere i loro problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: magari facendoci capire che spesso è inutile ostinarsi contro quelli che in realtà non sono problemi, ma situazioni irrilevanti e senza senso; che potremmo occupare molto meglio il nostro tempo, interessandoci maggiormente degli aspetti belli e positivi della vita, rendendola più gradevole, più appagante. 
Il Dio di Gesù è un Dio splendido, affascinante, innamorato delle sue creature; è insieme un Dio lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero; un Dio che svela a ciascuno di noi, nel profondo della nostra anima, chi siamo, come dobbiamo realizzare la Via, la Verità, la Vita. 
Cerchiamo allora di conoscerlo questo Dio che ci conosce uno ad uno, che ci ama da sempre; cerchiamo di non sfuggire al suo amore, di essere il più possibile attenti alle sottili sfumature del suo Spirito, alle meravigliose percezioni che ci trasmette nell'anima, ai suoi paterni suggerimenti per vivere serenamente questa nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola del Maestro Gesù, e chiediamogli se il nostro Dio, il Dio che professiamo, che celebriamo, che trasmettiamo, corrisponde veramente a quel Dio, Padre vivificante, che Egli ci ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, misurandoci con essa, affinché ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.