«Quando era ancora lontano, suo
padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo
baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te;
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi:
“Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli
l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo,
mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in
vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,1-32).
Quello
di oggi è un “pezzo” classico del vangelo: una pagina che tutti conoscono, in
cui tre parabole dette “della misericordia”, dominano la scena; parabole delle
quali tutti, ma proprio tutti almeno una volta, ne abbiamo sentito parlare.
Il testo
inizia dicendo che i pubblicani e i peccatori si avvicinano a Gesù per
ascoltarlo. Uno pensa: “Beh, le autorità religiose saranno contente che Egli riesca
ad attirare gli ultimi, i lontani, soprattutto i peccatori”. E invece no. I
farisei e gli scribi, le autorità, “mormorano”; giudicano, cioè, e disprezzano
il comportamento di Gesù. Come evidenzia il testo, Lo odiano così intensamente da
evitare perfino di nominarlo: si riferiscono a lui chiamandolo: “Costui”.
Ebbene,
è proprio “per loro” che Gesù dice queste parabole.
Sappiamo
che i farisei e gli scribi erano la “crema” spirituale del popolo. Attraverso
preghiere, sacrifici, offerte e una vita irreprensibile, seguendo cioè tutte le
norme religiose, anche le più piccole, si ritenevano automaticamente santi e
migliori degli altri, che consideravano “gentaglia”, peccatori: tutta gente, questi
peccatori, che essi non solo non li avrebbero mai fatti entrare in chiesa, non
solo non li avrebbero mai assolti, ma li avrebbero volentieri distrutti, fatti
sparire dalla faccia della terra: ovviamente in nome di Dio!
D’altronde
si rifacevano alle Scritture, alla loro religione, che in proposito erano
abbastanza chiare: i peccatori vanno eliminati, sterminati, depennati (Cfr. Is 13,9; Sal 139,9).
Proprio
per certi estremismi umani la religione spesso rischia di essere pericolosa:
perché mentre Dio è disceso sulla terra per incontrare gli uomini, facendoci
capire che possiamo incontrarlo sempre proprio qui, tra gli uomini, la
religione al contrario per incontrare Dio, sale nell’alto dei cieli, allontanandosi
dagli uomini, con il rischio di non incontrarlo mai. Saranno infatti proprio i “religiosi”
che condanneranno a morte Gesù. Perché dove non c’è amore per il prossimo, per
i fratelli sfortunati, sicuramente non c’è neppure Dio.
Tutta
la vita di Gesù ce lo insegna: Egli infatti si intrattiene continuamente proprio
con quella gente che, Bibbia alla mano, le autorità religiose avrebbero voluto solo
eliminare. E questo per loro era una provocazione troppo grave, insostenibile: soprattutto
per la loro mentalità, era impensabile il fatto che Gesù “mangiasse” con loro:
nel mondo palestinese, infatti, il cibo era servito in un unico piatto dal
quale tutti si servivano, per cui “mangiare insieme” significava condivisione, “comunione
di vita”. Per loro, quindi, Gesù è un impuro perché ha condiviso il cibo, lo ha
“toccato”, con persone impure (l’impurità si trasmetteva); e Dio non si concede
agli impuri; Dio si dà solo ai puri, ai santi. Una mentalità discriminante che
è arrivata fino a noi: “Tu sei puro? Sì? Allora puoi andare in chiesa, puoi avvicinarti
a Dio, ecc.”. “Tu non sei puro? No? Allora non puoi avvicinarti a Dio. Sei una
persona condannata, destinata all’inferno per i tuoi peccati: Dio ti respinge,
non sa che farsene di uno come te.
Solo però
che il Dio del Vangelo, il Dio di Gesù, è l’esatto contrario. Nel Vangelo è proprio
Gesù che va dagli ultimi, dai peccatori, dai disgraziati. Ed è ovvio: Gesù va
da chi ne ha più bisogno, non fa distinzioni tra buoni e cattivi, va da tutti,
a condizione che siano disponibili ad accoglierlo.
Pertanto,
se la “religione” dice: “Dio ce l’hai, se te lo meriti. Se sei bravo, se sei puro,
se righi dritto, perché solo così Dio è con te”, il Vangelo dice un’altra cosa,
esattamente il contrario: “Non devi essere puro per avere Dio. È il suo amore, la
sua accoglienza che ti rende puro. Dio è sempre con te, puro o no che tu sia...
accoglilo, lasciati amare, accetta il suo amore”.
È
dunque proprio per far capire questa novità, a quei tempi impensabile, che Gesù
racconta le tre parabole famose: della pecora perduta, della dramma perduta, del
figlio perduto; in esse Egli chiarisce di essere venuto in questa terra per
cercare proprio chi si è perduto. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che
sono amati da Lui. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che Dio è un dono assolutamente
gratuito di amore, di misericordia.
Mi
soffermo in particolare sulla parabola del “figliol prodigo”.
Ebbene:
quel Padre che fa festa quando il figlio torna a casa, è Dio. Il fratello
maggiore, invidioso, asservito al Padre, rappresenta gli scribi e i farisei, “servi”
di Dio, ma non “figli” di Dio. Al padre essi diranno: “Ecco, da tanti anni io
ti “servo” (in greco dulèuo, sono schiavo) e tu non mi hai mai dato
un capretto...”. Ma i capretti, per tutti quegli anni, erano già tutti a loro
disposizione!
La
religione senza l’amore, crea solo persone giudicanti, invidiose di chi ha di
più, di chi riesce meglio, di chi è felice. La religione senza l’amore non sa
sorridere, non sa far festa, perché è corrosa dalla rabbia che cova dentro di
sé.
La
parabola però è anche una stupenda fotografia di uno spaccato famigliare, di come
cioè si svolgano in realtà le relazioni tra i componenti di una famiglia.
La
parabola parla di “un padre con due figli”. E la madre? La madre talvolta non c’è,
o se c’è, è come se non ci fosse. Sono le madri aspirapolvere, le madri
lavastoviglie, le madri che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto
il giorno, che, dicono loro, “sacrificano la loro vita per i figli”, ma che in
realtà non ci sono, non dimostrano il loro amore, sono come assenti. Fare tanto
per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo “fare tanto”. Amare è al
contrario valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, rendere autonomi i
figli, aver fiducia in loro, non essere ansiosi; amare è avere qualcosa da dare
al figlio; amare non è fare un figlio per ricevere qualcosa in cambio, perché
qualcuno ci ami!
Da un’indagine
risulta che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa (76%), più delle
mamme tedesche (56%) o di quelle svedesi (40%). La mamma italiana soffre di “figliolite”:
crede, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di lei. Sorge il dubbio che sia
lei ad aver bisogno di lui.
I due
figli della parabola sono dunque diversi e hanno comportamenti apparentemente
opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si
sentono riconosciuti da lui. Sono nati entrambi dallo stesso padre, che non è
riuscito a trasmettere loro l’amore; un padre che entrambi considerano un “ostacolo”,
un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si
comportano da mercenari.
Il
primo, il minore, dice al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”.
Ma non gli spetta niente! Egli cerca solo di arraffare più che può: è chiaro,
non conosce l’amore del padre. Anzi va contro di lui. L’eredità si otteneva
solo dopo la morte del padre: dicendogli così, in pratica gli dice: “Tu sei già
morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti
più!”.
Il
maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito
un tuo comando”. Egli si percepisce come un servo del padre, come uno schiavo:
non fa altro che ubbidire ai suoi ordini, ma dentro cova rabbia.
La loro
diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un
rapporto con il padre. Il maggiore si sottomette: è il suo dovere. Rinuncia
alla sua vita perché “deve” rispetto e obbedienza al proprio padre. Ma una
persona che “fa tutto quello che deve”, una persona brava, che non si ribella,
che non trasgredisce mai, è sicuramente molto amata da chi sta sopra (genitori,
autorità), ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere l’amore
mediante una ubbidienza meticolosa, con una vita di precisione; cerca cioè di
ottenere comunque, ciò che sente di non poter avere altrimenti (ma l’amore è
gratuito!). La sua strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che
vuoi tu, per ottenere in cambio il tuo amore”. I genitori: “Ti amo se vai bene
a scuola”: e il bambino si sottomette per avere l’approvazione del genitore. “Ti
amo se non disturbi”: e il bambino si sottomette e diventa adulto per avere l’approvazione.
“Ti amo se fai così”: e il bambino si sottomette per avere l’amore del
genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come si
sentirà dentro? Ovviamente come il maggiore: pieno di rabbia.
Il
minore, invece, non sentendosi accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi
rifiuti? Ti rifiuto anch’io!”. D’altronde cosa poteva fare il secondo, il
minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi la stima
del padre, facendo il figlio bravo e ubbidiente. A lui non rimaneva altro che
differenziarsi dal fratello. Se in casa c’è già chi fa il bravo, all’altro non rimane
che fare il contrario. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non aspetta che
andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro dovrà per forza farne un’altra! D’altronde
si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della
tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il
comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, efficiente fuori casa:
è infatti ciò che fa il figlio minore: se ne va in giro per il mondo.
A
volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera, e sono
diversissimi tra loro. Ma guai se i figli fossero uguali! Ogni figlio esige una
relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli, perché essi hanno
esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose per tutti.
I due
fratelli della parabola infatti non si incontrano mai! Il maggiore non lo chiama
mai “fratello”, ma si rivolgerà al padre dicendogli: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con
le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia?
Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato
bene con te; perché tratti mio fratello esattamente come me?”.
“Con
le prostitute”: un particolare che non risulta dal racconto. Che sia vero o no,
non è forse un tentativo del maggiore di screditare il minore, di metterlo in
cattiva luce, di denigrarlo? Non sappiamo infatti se egli sia andato con le
prostitute. Forse non ci ha mai pensato, ma il maggiore sì. Il cervello non
conosce altri che noi, e quindi quando parliamo degli altri, parliamo sempre di
noi!
Cosa c’è
dunque in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre. A
quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli
andavano i due terzi dell’eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il
maggiore vinceva, il minore perdeva. Era così.
Il
minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di
aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà,
tornerà solo per interesse: solo per non morire di fame.
Ma il
padre dov’era? Come ha fatto a non vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non
si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli
dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola?
Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai
nulla”? Inoltre: non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Non
si era mai accorto che voleva un “capretto”, un riconoscimento, un gesto d’approvazione,
d’affetto, solo per sé? E quando il minore se ne va perché in padre non lo
interpella,visto che era parte in causa?
Quanti
padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di
cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Ma guarda cos’è
successo!?”. Per forza, erano ciechi!
È
chiaro che il padre non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al
cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché
se non conosce il suo di cuore, non può certo conoscere il cuore degli altri,
di suo figlio!
L’unica
cosa che sa fare è “dare” comunque, a ciascuno, le “cose” che gli spettano: al
minore come al maggiore. Ma quando un genitore dà le proprie cose al figlio,
vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito,
emozioni, vitalità, niente di sé da passargli. È il fallimento dell’educazione.
Molti
genitori riempiono i loro figli di cose, di giocattoli, di vacanze, di vestiti,
di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): ma tutto questo non
può sostituire la cosa più importante, l’amore. Un figlio ha bisogno del padre,
del suo amore, di un rapporto concreto con lui, ha bisogno delle sue parole, di
momenti esclusivi con lui, di abbracci. Un figlio contemporaneamente ha bisogno
della madre, del suo amore, di un rapporto con lei, fatto di parole, di carezze,
di sentimenti. L’uno non sostituisce l’altra. In nessun caso. Inutile cercare
oggi di dimostrare il contrario! È un’assurdità!
I
genitori a volte dicono spazientiti: “Hai tutto!”. È vero, perché danno tutto
di materiale; ma non trasmettono nulla di spirituale, nulla dell’anima, nessun
sentimento, nessuna emozione intima. Non c’è colloquio, non c’è scambio di
emozioni.
La
parabola del figliol prodigo, sotto questo profilo, è infatti la parabola del “non
detto”, della non comunicazione; in essa nessuno parla: per metà racconto nessuno
dice niente, nessuno si rivolge a qualcun altro, eccetto la frase iniziale del
minore. E cosa dice? Di che cosa parla? Del suo errore, di ciò che ha capito, del
suo pentimento, della sua fame d’amore. Il padre parla quando vede il figlio e
si commuove. E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che
ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante.
Il maggiore infine parla della sua rabbia, del suo odio, della sua invidia, del
mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del
fratello.
I
personaggi iniziano ciascuno un proprio viaggio da infelici, chiusi
ermeticamente in loro stessi: cambiano improvvisamente quando si parlano, quando
comunicano tra loro, aprendosi.
È il
quadro di tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”. E, invece, ci
sono un sacco di cose che non vanno, parole che non vengono dette, che
rimangono dentro; un sacco di emozioni che non sono espresse, che sono rinchiuse
dentro, ignorate, accantonate. Di problemi in famiglia ce ne sono sempre in abbondanza,
ma non se ne parla apertamente, ognuno fa finta di niente. Per la tranquillità
di tutti, “per il bene dei figli” è sempre meglio non parlarne, è meglio
fingere che tutto vada bene!
Quando
poi i problemi esplodono, tutti cadono dalle nuvole: “Cos’è successo? Come mai?
Chi l’avrebbe mai pensato?”.
I
problemi vanno invece affrontati sempre: con carità, lealtà, onestà! Quand’è
che la parabola ha una svolta? Quand’è che cambia? Quand’è che in quella
famiglia torna la normalità, la serenità, una nuova vita? Quando i personaggi
iniziano a parlarsi. Quando l’amore prende il sopravvento.
Così
vale per noi. Se stiamo male come il minore, parliamone del nostro male. Non facciamo
finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori, discutiamo
di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona profondamente ferita. Se
siamo felici, emozionati, pieni di vitalità come il padre, esprimiamoli questi
sentimenti. Perché il minore e il padre, aprendosi, “guariscono”. Il maggiore, nel
racconto, non lo è ancora, ma si capisce che ha iniziato un suo nuovo percorso
di vita!
Apriamoci,
dunque: comunichiamo, parliamo di ciò che abbiamo dentro; perché se non ci apriamo,
se non comunichiamo, moriamo dentro. È inevitabile. Inoltre, se non ci apriamo,
nessuno potrà mai conoscerci, nessuno potrà mai ammirare la nostra bellezza
interiore. Amen.