«Sforzatevi di entrare per la
porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci
riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi,
rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici! Ma
egli vi risponderà: Non so di dove siete». (Lc 13,22-30).
Nel
vangelo di oggi un tale pone a Gesù una questione apparentemente innocua, ma al
contrario di grande valenza, che è stata, e continuerà ad esserlo, motivo di dotte
disquisizioni teologiche da parte dei maggiori pensatori di ogni tempo: “Cosa
ci sarà nell’aldilà dopo la morte? Ci sarà una sopravvivenza in condizione di salvezza,
di premio, di beatitudine? Se sì, io ne farò parte?”.
Inutile
negarlo: tutti abbiamo paura di perderci, di finire nel nulla; tutti abbiamo paura
del niente, del vuoto, del buio, della morte, della sofferenza. Il fatto stesso
di aver cercato a lungo una risposta rassicurante a tale interrogativo, la dice
lunga sulle insicurezze, sulle inquietudini, sulle preoccupazioni esistenziali dell’animo
umano.
A quel
tale Gesù risponde alludendo ad una simbolica “porta”, molto “stretta”, attraverso
cui si può passare solo con grande “sforzo”; porta che peraltro tutti devono “affrettarsi”
di oltrepassare per entrare nella casa del padrone, prima che egli la chiuda e
sia troppo tardi.
Il
verbo “sforzarsi”, in greco, è “agonizo”
e significa lottare, gareggiare,
combattere. “Agon” era il luogo
della lotta, dei combattimenti, delle gare. “Agonia” è l’ultima estrema
terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
“Sforzarsi”,
allora, vuol dire “combattere”, “lottare”, “difendere” ad ogni costo i propri
ideali. Una porta stretta indica chiaramente delle difficoltà da superare: e cosa
dobbiamo fare di fronte alle difficoltà, ai problemi, alle questioni, alle
strade senza apparente via d’uscita? Dobbiamo appunto lottare, impegnare tutte
le nostre forze, perseverare, non arrendersi mai, non mollare la presa al primo
fallimento. “Perseverare” vuol dire insistere con ostinazione su di una cosa,
aspettare pazientemente il risultato dei nostri tentativi senza mai demordere, senza
mai abbandonare i nostri propositi. Dobbiamo essere costanti, fermi, saldi di
fronte ad ogni contrarietà: e per questo ci vuole disciplina, serietà,
applicazione: è quanto richiede la “porta stretta” del Vangelo.
Nella
vita raggiungere tutto ciò che conta, che ha valore, che è molto importante, implica
da parte nostra una lotta. Non è pensabile cioè di poterlo ottenere
magicamente, in un istante, al primo tentativo; ma dobbiamo perseverare, dobbiamo
metterci tutte le forze, tutta l’attenzione, tutto l’amore, dobbiamo provare e
riprovare; anche se non riusciamo in una, due, cento volte, non dobbiamo
comunque rinunciare a lottare.
Purtroppo,
la società moderna avalla un’immagine distorta della realtà: lo slogan è “Tutto
e subito”: con il telefono in un attimo comunichiamo con l’Australia; con il
microonde in un attimo riscaldiamo i cibi; con la televisione in un attimo
vediamo in tempo reale ciò che succede nel mondo. E così ci siamo convinti che tutto
possa essere raggiunto in un istante. Ma non è così.
Per combattere
le nostre paure, le nostre reazioni, eccessive e incontrollate, quando qualcuno
ci fa delle osservazioni; per evitare di offenderci, ammutolendo
immediatamente, quando qualcuno ci rimprovera; per rimediare alla nostra
eccessiva timidezza e insicurezza, ai nostri attacchi di panico, per
sconfiggere le nostre manie, pensare di poterlo fare “tutto e subito”, è
assolutamente fuorviante. Dobbiamo al contrario lavorare a lungo, sforzarci: dobbiamo
lottare, desiderare di capire, di conoscere; dobbiamo entrare dentro il
problema, sviscerarlo, scavare dentro di noi, cercare: è una vera e propria battaglia!
Fare altrimenti significa disinteressarsi dell’obiettivo, dimostrare che non ci
teniamo; se molliamo al primo tentativo, vuol dire che la cosa non ci interessa,
che ci va bene così come siamo.
Perché
la nostra fede sia forte, convinta, profonda, ben radicata come una quercia,
dobbiamo lottare. Così, se andiamo a messa solo quando ci fa comodo, o quando
non abbiamo null’altro da fare, dimostriamo la superficialità della nostra fede,
su cui potremo costruire ben poco: la nostra fede vissuta, richiede invece che
lottiamo contro la nostra svogliatezza, contro l’afa e il solleone delle
domeniche estive, o contro il gelo, le nevicate, le piogge di quelle invernali;
che lottiamo contro la comitiva di amici che di domenica ci vuole al mare o in
montagna; che lottiamo contro il marito o la moglie che non vuole saperne, contro
i figli che brontolano e che ci chiamano “bigotti”, contro i sorrisetti
compassionevoli di tanta gente.
È una
lotta, è vero: ma chi ha mai detto che il percorso della fede sia facile?
È così
anche nelle piccole cose di ogni giorno; in “un attimo”, senza fatica, non
possiamo ottenere proprio nulla: se, per esempio, vogliamo smettere di fumare, se
vogliamo smettere di essere negativi, di essere sempre pessimisti, sistematicamente
disfattisti, su tutto e con tutti, dobbiamo lottare, dobbiamo impegnarci con
tutte le forze per ovviare a queste nostre deficienze. E dobbiamo farlo perché
vogliamo essere liberi, perché vogliamo essere noi gli unici padroni della nostra
vita.
Così di
fronte alla paura di parlare in pubblico, di non essere all’altezza, di venire
derisi, di far ridere gli altri; di fronte al nostro complesso di inferiorità,
al timore di non essere interessanti, di essere brutti, di non risultare
graditi, dobbiamo lottare, dobbiamo provare e riprovare, non dobbiamo cedere di
fronte al primo insuccesso; soprattutto non dobbiamo dare ascolto a quella vocina
interna che ci dice “Sei così, non puoi farci niente”. No, sforziamoci, proviamoci
ancora e poi ancora! Lo vogliamo o non lo vogliamo?
Poi nel
vangelo c’è quella frase tremenda: “Non
ti conosco!”.
È come
andare dal proprio padre, dalla propria madre, dalle persone che ci hanno messo
al mondo, che ci hanno cresciuto con tanto amore e sentirsi dire: “Non ti
conosco, non so chi sei”. È terribile! Eppure questa frase ha un senso
profondo: non è Dio che ci condanna, che ci rifiuta: Egli ci ha creati,
ciascuno con una sua esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi,
strada facendo, ci mascheriamo, se le sovrapponiamo tutta una serie di maschere:
quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta
i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza a tutti, convinto di
potersi permettere qualsiasi sopruso. Se insomma preferiamo deformare le nostre
sembianze originali, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano,
è naturale che Dio, quando ci presenteremo a Lui, ci dica: “Non ti conosco. Non
ho mai creato un tipo come te; chi sei? Non posso farti entrare in casa mia perché
non ti ricordo come mio amico: fatti prima riconoscere!”. E se di fronte alle
nostre proteste: “Ma come fai a non conoscermi! Sono stato presidente di
società internazionali, rinomato professore universitario, celebre inventore di
robotica; sono stato un grande industriale, un professionista molto famoso,
ricco, importante, ammirato e osannato da tutti; sono stato un papà decisamente
in gamba, una mamma tutta casa e famiglia; un prete zelante, un pio frate, una
suora virtuosa…”, Lui insisterà nel dire “Non ti conosco”, allora finalmente capiremo
tutta la tragicità della sua risposta: e tutta la nostra tracotanza, la nostra
presunzione crollerà, perché in quell’istante ci apparirà chiaro come tutto ciò
che abbiamo costruito e conquistato, tutti i riconoscimenti di questo mondo, le
nostre medaglie, i nostri titoli, non servano assolutamente a nulla, non siano
in grado di salvarci, non ci assicurino per niente l’apertura di quella “porta”
tanto importante.
“Chi
sei?”. Solo se risponderemo presentandoci con il nostro nome di battesimo: “Sono
Mario, Marco, Giovanna, Antonietta…”, la porta si aprirà: perché Dio non ha
creato dei bravi padri, degli scienziati, dei politici, dei solerti funzionari,
dei religiosi impegnati. Dio ha creato delle “persone”: e Dio riconosce solo
ciò che ha creato. Se Lui non ci riconoscerà, vuol dire che noi, e solo noi, abbiamo
deciso di presentarci “diversi” da come Lui ci ha creati.
A
questo punto tutte le nostre giustificazioni non serviranno: “Ma Signore noi siamo
battezzati; siamo andati in chiesa tutte le domeniche; non abbiamo fatto nulla
di male; non ti abbiamo mai rifiutato; siamo stati cristiani fin da piccoli, come
lo erano nostra madre, nostro padre, nostro nonno…”. “Non vi conosco: allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia”.
Che tradotto per noi significa: “non è la vostra fede di facciata, la vostra
fede superficiale, vissuta solo per essere ammirati, per esibizione, che vi garantisce
l’ingresso nel Regno”. Cioè, non facciamoci illusioni, perché non sono le nostre
frequenti preghiere, le nostre elemosine, non è perché ci comportiamo come
tutti gli altri, che saremo ritenuti giusti.
In
cielo queste cose non hanno valore. È sulla terra che il prestigio del nome, la
notorietà, l’alto ceto sociale, aprono tutte le porte; è sulla terra che grazie
alla fama otteniamo favori: qualche referenza giusta, il nome del tal dei tali,
e le porte magicamente si aprono. Ma in cielo tutte le nostre medaglie onorifiche
non serviranno perché Dio, che ci ha creati nudi, ci accoglierà soltanto se
saremo tali: nudi non tanto fisicamente, ma nudi perché spogliati di tutto ciò
che in vita abbiamo esibito come “meriti personali”.
Inutile
a quel punto recriminare o appellarci alla misericordia divina: perché fino a
quando pretenderemo di entrare così travestiti, Dio continuerà a ignorarci, a lasciarci
fuori. E allora finalmente capiremo la sua scala di valori, ben diversa dalla
nostra: vedremo cioè entrare come elette proprio quelle persone che noi qui
sulla terra, arrogantemente, ritenevamo delle nullità; quelle invece che noi ammiravamo
per la loro importanza, per il loro prestigio, per la loro liberalità, per la
loro religiosità, avranno l’ingresso vietato e rimarranno bloccate fuori.
Gesù
qui ovviamente non vuole seminare paura, non vuole incutere alcun terrore: ci
offre semplicemente un’anticipazione di ciò che ci accadrà se continuiamo a
vivere di testa nostra, lontani da Dio.
Tutta
la nostra esistenza è infatti contrassegnata dalla legge di “causa-effetto”: vale
a dire che alla fine raccoglieremo solo quello che abbiamo seminato; la vita è
come un boomerang, tutto ciò che facciamo, ci ritorna indietro. In altre parole
tutto ciò che di bene o di male noi compiamo in questa vita, produce delle conseguenze,
degli effetti su di noi e sugli altri, utili o dannosi per l’altra vita. Ecco
perché dobbiamo essere sempre vigili, attenti, responsabili.
La
porta d’ingresso è stretta: se pensiamo di passare nonostante la nostra tracotante
obesità, dovuta alle progressive stratificazioni di infedeltà, di
menefreghismo, di falsità, ci sbagliamo di grosso: perché ovviamente saremo
impossibilitati a superare la strettoia, e la porta ci verrà chiusa in faccia.
Possiamo
tranquillamente continuare a vivere come meglio ci piace, stare lontani da noi
stessi, dalla nostra coscienza, dal non porci mai certe domande più intime e profonde;
possiamo continuare spensieratamente a non andare a messa, a non frequentare la
parrocchia, a ignorare ogni iniziativa di spiritualità, di ascolto e di meditazione
della Parola di Dio: ma poi non lamentiamoci se in casa nostra non c’è armonia,
non c’è amore, non c’è serenità, se soffriamo perché vittime dell’egoismo
altrui. Non è la vita che provoca disgusto, che è invivibile, ma è come noi la
viviamo: del resto ognuno raccoglie ciò che semina, e un giorno, vicino o
lontano che sia, non potremo certamente ignorare il problema della famosa “porta”.
Da qui
la necessità di esercitarci nelle difficoltà, di abituarci durante questo
cammino terreno, a passare e a ripassare attraverso quelle strettoie, quei “varchi”
difficili, duri, stretti, che la vita inevitabilmente ci riserva. Così, per
esempio, quando tra marito e moglie non c’è più armonia, e ogni occasione è
buona per inveire e offendersi reciprocamente, dobbiamo affrontare umilmente la
situazione dalle radici, riconoscere i propri errori e correre ai ripari: e
questo ci costa, è la nostra “porta stretta”. Quando nostro figlio a scuola è
una peste, iperattivo, incontenibile, aggressivo, oppure quando è sempre buio,
cupo, arrabbiato, non ha amici, è chiaro che sta vivendo un disagio: una situazione
che noi genitori difficilmente riconosciamo, in quanto mette in discussione la
nostra validità di educatori; ma dobbiamo trovare una soluzione, dobbiamo anche
questa volta affrontare la nostra “porta stretta. Insomma, quando viviamo con un
problema da risolvere, quando abbiamo paura di affrontare la realtà, quando siamo
tormentati dal rimorso per aver commesso un qualcosa che ci vergogniamo di confessare,
quando qualcosa di “pesante” ostacola la nostra serenità, sono tutte situazioni
che vanno affrontate e risolte, anche se ovviamente non ci piace: ma dobbiamo prendere
in mano i nostri “serpenti”, dobbiamo passare necessariamente per di lì, sono altrettante
“porte strette” che dobbiamo imparare a superare. Altrimenti verrà giorno in
cui non saremo in grado di oltrepassare la famosa “porta stretta” del Vangelo,
quella più importante, quella che ci assicurerà l’ingresso nel Regno. Amen.
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