venerdì 26 agosto 2016

28 Agosto 2016 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato»

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben accolto, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia fermare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre a tutti qualcosa di nuovo: in particolare a loro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a loro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli.
L’andare a “pranzo” da loro, infatti, proprio secondo il duplice significato che Luca attribuisce a tale parola, significa per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali un suo cibo, un suo nutrimento spirituale, ben più importante: i suoi insegnamenti, la sua Parola
Qui siamo di sabato: è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto: di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, si teneva un “pranzo” tra i partecipanti, al quale era invitato il rabbì o il predicatore di turno. Del resto trattandosi qui della casa di un capo dei farisei è chiaro che, oltre alla gente comune, ci dovevano essere anche delle persone importanti; da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù racconta la parabola: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Gesù osserva la scena, e vede la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Un po’ quello che succede anche da noi. Ora, Gesù non è indignato tanto dal fatto in sé; questo lo dà per scontato. Quello che lo indigna è la molla che fa scattare tale corsa, è il comportamento, il “come” avviene: Egli cioè constata che le persone, pur di avere il primo posto, sono pronte a tutto, a qualunque compromesso, a qualunque “spinta”, a qualunque sopraffazione. Questa è la cosa grave: che cioè si possa perdere qualunque scrupolo pur di primeggiare.
Gesù non fa qui un discorso di buone maniere, di galateo, ma su quali valori deve poggiare l’esistenza umana, quali devono essere i valori fondamentali, quelli che non dobbiamo mai dimenticare nella nostra vita.
Il desiderio del primo posto è un desiderio naturale, comune a tutti gli uomini. Tutti desiderano essere i primi, essere più degli altri: più bravi, più famosi, più importanti, ecc. Non è questo che Gesù contesta. Egli vuol porre invece un principio fondamentale: non è importante quello per cui tu conti davanti agli uomini - sappiamo che tutto è apparenza - ma quello per cui tu conti davanti a Dio; cioè quello che è importante, quello che è essenziale, è come tu ti poni davanti a Lui, se cioè ti comporti veramente come una persona “libera”. E, come corollario, vuol farci riflettere su alcune conseguenze negative, derivanti dal nostro voler essere i primi ad ogni costo. Sembra infatti dirci: “Non ti accorgi che con questo tuo desiderio di passare davanti a tutti, per questa tua smania di autopromuoverti ad ogni costo, finisci col calpestare il valore degli altri? Come mai per te contano soltanto quelli che occupano i primi posti? Perché consideri insignificanti, uno scarto, delle nullità, quelli che stanno nei posti più lontani, dopo di te?”
E continua: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui, venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare allora ad occupare l’ultimo posto” (Lc 14,8-10).
È chiaro che Gesù, con questa parabola, si riferisce in particolare ai comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: il motivo scatenante? Primeggiare, apparire, essere più degli altri. Con quali risultati? Promuovevano decisamente una società classista, dove c’erano i primi, quelli importanti, e poi tutti gli altri, gli esclusi, gli ultimi, quelli che socialmente non contavano nulla e che quindi potevano anche morire di fame; tanto, chi se ne accorgeva?
Era ovviamente una cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Questo in teoria; perché in pratica anche oggi, nel XXI secolo, vige la netta distinzione tra quelli “che contano” e quelli che “non contano nulla”. È la legge senza età del più forte, di quello che vuole stare sempre al primo posto, relegando inevitabilmente gli altri ad un livello inferiore, ad essere considerarli “meno” degli altri. In pratica quindi siamo noi, i convinti membri di una società paritaria, che dividiamo la popolazione in quelli che valgono, che hanno diritti, che possono, che hanno tutto, e in quelli che non valgono, che hanno solo doveri, che possono tranquillamente essere umiliati, ghettizzati; siamo noi che, così facendo, creiamo tra le persone ingiustizie, divisioni, oppressioni, sofferenze, odio classista.
Cosa propone Gesù? Una cosa molto semplice: scegliere di non mettersi al posto d’onore, ma in un posto qualunque. È chiaro, come ho detto, che Gesù non ne fa qui una questione di etichetta, di galateo. Il suo discorso è molto più sottile e profondo: Egli in sostanza propone qui semplicemente un comportamento privo di ostentazione, di superbia, di autopromozione. Egli infatti non intende condannare il riconoscimento degli onori, del prestigio, dell’importanza di una persona. Tanto è vero che aggiunge subito: “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
Egli intende condannare, peraltro, anche quella “modestia” affettata con cui uno volutamente si mette all’ultimo posto, una modestia un po’ pelosa, di dubbia origine, tipica di molte persone, che in realtà non è altro che la “maschera” della superbia: vorrei essere più di te ma non posso, non ci riesco, per cui assumo un tono dimesso, modesto, come se la cosa non mi interessasse. È l’atteggiamento tipico di quelle persone che fingono, loro malgrado, di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, di essere umili, di considerarsi “gli ultimi”.
Mettersi all’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non è scritto da nessuna parte nel vangelo, Gesù non l’ha mai detto! Mettersi all’ultimo posto non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, ma al contrario darsi da fare, cercare di creare una società nuova, in cui non ci siano più “ultimi”.
La differenza è minima ma sostanziale: ci mettiamo all’ultimo posto non perché ci sentiamo ultimi, ma perché non ci sentiamo “più” degli altri. In altre parole ci mettiamo all’ultimo posto perché siamo convinti che tutte le persone, tutti i presenti, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. Una società fraterna, d’amore, può sussistere solo se tutti si considerano e sono considerati uguali.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Cosa vuol dire questa frase che sembra un gioco di parole? Ci sono due azioni e due effetti: se facciamo così avremo questo, se facciamo colà avremo quello. Se ci innalziamo (gloria, primi posti, essere più degli altri, prestigio a tutti i costi) saremo umiliati. Cos’è che viene umiliato? La nostra umanità: cioè non cresceremo mai come persone, come uomini e donne; non cresceremo interiormente, nel nostro “essere”, ma cresceremo soltanto esteriormente, nel nostro “apparire”.
Se al contrario ci umiliamo, cioè se consideriamo tutti importanti come noi, allora la nostra umanità crescerà, perché a ciascuno riconosceremo la sua diversità di essere: uno più intelligente, un altro più simpatico, un altro ancora più ricco di doti, più sensibile, più sociale, più introspettivo, ecc. Siamo tutti diversi ma tutti uguali. E quando accetteremo che tutti gli uomini, nella loro diversità, sono tutti ugualmente uomini come noi, allora la nostra umanità crescerà. Altrimenti si avvera il detto di Orwell: “Tutti gli uomini sono uguali ma alcuni sono più uguali di altri”.
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”“ (Lc 14,12-14).
Qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non inviteremo certamente chiunque incontriamo per strada. Non è questo che Gesù vuol dire. E noi inviteremo soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli.
A Gesù preme farci capire un principio fondamentale; cioè: “Quali sono i criteri di scelta, quali i valori che vi guidano nel selezionare i vostri ospiti?”. Perché è chiaro che molte persone impostano i loro rapporti nel famoso “do ut des, io ti do se tu mi dai”.
E questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali: le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrire in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo cioè creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, sulla base di ciò che possiamo ottenere in cambio.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce dall’amore, dalla gratuità. Fare qualcosa per interesse non produce gioia, soddisfazione, libertà, ma solo il calcolo, l’ansia, l’attesa di un riconoscimento, di un ricambio materiale, di uno sterile scambio di favori. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: per cui, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati, gioiosi, felici, sappiamo già come comportarci. Amen.


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