«Quando sei invitato, va’ a
metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti
dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i
commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà
esaltato»
Non è
la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non
essere ben accolto, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un
uomo libero. Non si lascia fermare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità,
perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre a tutti qualcosa di
nuovo: in particolare a loro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più
giusti, a loro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli.
L’andare
a “pranzo” da loro, infatti, proprio secondo il duplice significato che Luca
attribuisce a tale parola, significa per Gesù non solo andare materialmente a
“nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali un suo cibo,
un suo nutrimento spirituale, ben più importante: i suoi insegnamenti, la sua
Parola
Qui
siamo di sabato: è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente
accaduto: di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso
mezzogiorno, si teneva un “pranzo” tra i partecipanti, al quale era invitato il
rabbì o il predicatore di turno. Del resto trattandosi qui della casa di un
capo dei farisei è chiaro che, oltre alla gente comune, ci dovevano essere anche
delle persone importanti; da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù racconta
la parabola: “Osservando come gli
invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Gesù
osserva la scena, e vede la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti.
Un po’ quello che succede anche da noi. Ora, Gesù non è indignato tanto dal
fatto in sé; questo lo dà per scontato. Quello che lo indigna è la molla che fa
scattare tale corsa, è il comportamento, il “come” avviene: Egli cioè constata che
le persone, pur di avere il primo posto, sono pronte a tutto, a qualunque
compromesso, a qualunque “spinta”, a qualunque sopraffazione. Questa è la cosa
grave: che cioè si possa perdere qualunque scrupolo pur di primeggiare.
Gesù
non fa qui un discorso di buone maniere, di galateo, ma su quali valori deve
poggiare l’esistenza umana, quali devono essere i valori fondamentali, quelli
che non dobbiamo mai dimenticare nella nostra vita.
Il
desiderio del primo posto è un desiderio naturale, comune a tutti gli uomini.
Tutti desiderano essere i primi, essere più degli altri: più bravi, più famosi,
più importanti, ecc. Non è questo che Gesù contesta. Egli vuol porre invece un
principio fondamentale: non è importante quello per cui tu conti davanti agli uomini
- sappiamo che tutto è apparenza - ma quello per cui tu conti davanti a Dio; cioè
quello che è importante, quello che è essenziale, è come tu ti poni davanti a
Lui, se cioè ti comporti veramente come una persona “libera”. E, come
corollario, vuol farci riflettere su alcune conseguenze negative, derivanti dal
nostro voler essere i primi ad ogni costo. Sembra infatti dirci: “Non ti
accorgi che con questo tuo desiderio di passare davanti a tutti, per questa tua
smania di autopromuoverti ad ogni costo, finisci col calpestare il valore degli
altri? Come mai per te contano soltanto quelli che occupano i primi posti? Perché
consideri insignificanti, uno scarto, delle nullità, quelli che stanno nei posti
più lontani, dopo di te?”
E
continua: “Quando sei invitato a nozze da
qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia
stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui,
venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare
allora ad occupare l’ultimo posto” (Lc 14,8-10).
È
chiaro che Gesù, con questa parabola, si riferisce in particolare ai comportamenti
tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il
posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un
altissimo valore: il motivo scatenante? Primeggiare, apparire, essere più degli
altri. Con quali risultati? Promuovevano decisamente una società classista,
dove c’erano i primi, quelli importanti, e poi tutti gli altri, gli esclusi,
gli ultimi, quelli che socialmente non contavano nulla e che quindi potevano
anche morire di fame; tanto, chi se ne accorgeva?
Era
ovviamente una cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto
diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Questo
in teoria; perché in pratica anche oggi, nel XXI secolo, vige la netta
distinzione tra quelli “che contano” e quelli che “non contano nulla”. È la
legge senza età del più forte, di quello che vuole stare sempre al primo posto,
relegando inevitabilmente gli altri ad un livello inferiore, ad essere considerarli
“meno” degli altri. In pratica quindi siamo noi, i convinti membri di una
società paritaria, che dividiamo la popolazione in quelli che valgono, che
hanno diritti, che possono, che hanno tutto, e in quelli che non valgono, che
hanno solo doveri, che possono tranquillamente essere umiliati, ghettizzati;
siamo noi che, così facendo, creiamo tra le persone ingiustizie, divisioni,
oppressioni, sofferenze, odio classista.
Cosa
propone Gesù? Una cosa molto semplice: scegliere di non mettersi al posto
d’onore, ma in un posto qualunque. È chiaro, come ho detto, che Gesù non ne fa
qui una questione di etichetta, di galateo. Il suo discorso è molto più sottile
e profondo: Egli in sostanza propone qui semplicemente un comportamento privo
di ostentazione, di superbia, di autopromozione. Egli infatti non intende
condannare il riconoscimento degli onori, del prestigio, dell’importanza di una
persona. Tanto è vero che aggiunge subito: “Allora
ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
Egli intende
condannare, peraltro, anche quella “modestia” affettata con cui uno volutamente
si mette all’ultimo posto, una modestia un po’ pelosa, di dubbia origine, tipica
di molte persone, che in realtà non è altro che la “maschera” della superbia:
vorrei essere più di te ma non posso, non ci riesco, per cui assumo un tono dimesso,
modesto, come se la cosa non mi interessasse. È l’atteggiamento tipico di
quelle persone che fingono, loro malgrado, di non essere interessate agli onori,
ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, di essere umili, di
considerarsi “gli ultimi”.
Mettersi
all’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava:
non è scritto da nessuna parte nel vangelo, Gesù non l’ha mai detto! Mettersi
all’ultimo posto non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, ma al
contrario darsi da fare, cercare di creare una società nuova, in cui non ci
siano più “ultimi”.
La
differenza è minima ma sostanziale: ci mettiamo all’ultimo posto non perché ci
sentiamo ultimi, ma perché non ci sentiamo “più” degli altri. In altre parole ci
mettiamo all’ultimo posto perché siamo convinti che tutte le persone, tutti i
presenti, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci
sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”,
non c’è razzismo. Una società fraterna, d’amore, può sussistere solo se tutti si
considerano e sono considerati uguali.
Il
vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta
sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Cosa vuol dire
questa frase che sembra un gioco di parole? Ci sono due azioni e due effetti:
se facciamo così avremo questo, se facciamo colà avremo quello. Se ci innalziamo
(gloria, primi posti, essere più degli altri, prestigio a tutti i costi) saremo
umiliati. Cos’è che viene umiliato? La nostra umanità: cioè non cresceremo mai
come persone, come uomini e donne; non cresceremo interiormente, nel nostro “essere”,
ma cresceremo soltanto esteriormente, nel nostro “apparire”.
Se al
contrario ci umiliamo, cioè se consideriamo tutti importanti come noi, allora
la nostra umanità crescerà, perché a ciascuno riconosceremo la sua diversità di
essere: uno più intelligente, un altro più simpatico, un altro ancora più ricco
di doti, più sensibile, più sociale, più introspettivo, ecc. Siamo tutti
diversi ma tutti uguali. E quando accetteremo che tutti gli uomini, nella loro
diversità, sono tutti ugualmente uomini come noi, allora la nostra umanità
crescerà. Altrimenti si avvera il detto di Orwell: “Tutti gli uomini sono
uguali ma alcuni sono più uguali di altri”.
Infine
Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i
tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti
invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un
banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno
da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei
giusti”“ (Lc 14,12-14).
Qui
Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima
Comunione o un Matrimonio, non inviteremo certamente chiunque incontriamo per
strada. Non è questo che Gesù vuol dire. E noi inviteremo soltanto i nostri
amici, i nostri parenti, i nostri fratelli.
A Gesù
preme farci capire un principio fondamentale; cioè: “Quali sono i criteri di
scelta, quali i valori che vi guidano nel selezionare i vostri ospiti?”. Perché
è chiaro che molte persone impostano i loro rapporti nel famoso “do ut des, io
ti do se tu mi dai”.
E
questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti
interpersonali: le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero
offrire in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione.
I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna
invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori,
sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi
fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a
cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”.
Dobbiamo cioè creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla
carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, sulla base di ciò
che possiamo ottenere in cambio.
Il
vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai
beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità,
nasce dall’amore, dalla gratuità. Fare qualcosa per interesse non produce
gioia, soddisfazione, libertà, ma solo il calcolo, l’ansia, l’attesa di un
riconoscimento, di un ricambio materiale, di uno sterile scambio di favori. Noi
tante volte ci lamentiamo di essere infelici: se veramente lo siamo, vuol dire
che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non
ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: per cui, conoscendone la causa, se
vogliamo vivere spensierati, gioiosi, felici, sappiamo già come comportarci.
Amen.
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