«Se uno viene a me e non mi ama
più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le
sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non
porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»
(Lc 14,25-33).
Siamo anche
questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù prosegue il suo
cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste di ciò
che dice e di ciò che fa. Lo vogliono seguire per questo, solo che non sanno
bene cosa voglia dire “seguire” Gesù.
Essere
infatti entusiasti di Gesù e seguirlo, sono due cose molto, ma molto, diverse
tra loro. Un conto è ammirarlo, un altro è seguirlo: perché “seguire” Gesù è
una cosa seria, significa dover tirare conclusioni difficili, operare scelte spesso
dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non
vorremmo proprio andare.
Per sottolineare
l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive
che “si voltò”, usando qui la forma
verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il
verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha
una connotazione solenne, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con
risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta
per tutte. Non è un parlare del più e del meno, scambiato tra compagni di viaggio.
Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la
scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, risoluto, con lo sguardo fisso davanti
a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua ormai imminente
morte in croce, la sua apoteosi d’amore. Vi sono poi quelli che lo seguono: i
quali però cominciano ad accusare la stanchezza, iniziano a mugugnare, a
brontolare, hanno insomma di che lagnarsi della situazione. Seguirlo non è cosa
facile: “È troppo impegnativo! Pretende troppo da noi! È impossibile stargli
dietro!”. Un borbottio che progressivamente cresce, distogliendo Gesù dai suoi
pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quelli
che lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come
me, volete vivere da vivi e non da
morti? Abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”.
Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un
obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre
forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente
vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il
cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla,
neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal
dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole
che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti che iniziamo
con entusiasmo un certo percorso, salvo poi ad abbandonare tutto alla prima
difficoltà: “È troppo difficile!”. Sissignori! È vero: nella vita tutto è difficile,
prima che, mettendoci impegno, diventi facile! Dobbiamo però capire che se ci
fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le
avversità, di “tenere” contro ogni difficoltà, perdiamo tutto, ci troviamo
senza più nulla in mano, anche quel poco che avevamo conquistato, senza poter più
raggiungere alcun obiettivo. Diventiamo come il sale senza sapore: insipidi, anonimi,
insignificanti, inutili.
E qui
Gesù, in tono serio e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire:
“Se uno mi segue e non odia suo padre,
sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria
vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Ora, se
questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI),
non potremmo assolutamente attribuirla a Gesù. Ma dice proprio che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e
figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma ha usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato,“miseo”, in greco significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende
veramente Gesù con questa frase? Beh, a scanso di equivoci, va detto prima di tutto
che, in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua
raccomandazione, non è di “odiare”
qualcuno, di nutrire sentimenti di
disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura
ci amano più di ogni altro. Anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore,
dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci hanno
donato, poiché nulla, vita compresa, ci era dovuto! Gesù qui si riferisce non
ad un “sentimento”, ma ad un “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di
vivere, che ci renda veramente “liberi”. Per dirlo, ha usato parole dure, forti
(come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per farci
capire quanto sia importante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per
chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, essere completamente “libero”.
Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di
qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di
anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione,
alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Egli
usa il verbo “odiare”, un verbo di
“contrasto, per dirci chiaramente che in certi momenti non possiamo scendere a
patti, a compromessi: dobbiamo rifiutare qualunque soluzione alternativa, e dobbiamo
farlo in modo radicale, deciso, risoluto.
Quindi
Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non
porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”
(Lc 14,27).
Un’altra
frase che si presta ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti
che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la
gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il
Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle
varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure,
incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele,
per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte
la nostra fede.
Ma non
è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine
greco “stauros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il
significato di “tribolazione, castigo”.
La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”,
avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre
nel Nuovo Testamento, per dire “prendere,
portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fero” o “dechomai”, che indicano un “portare”
passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che
è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambano”, “prendere” volontariamente, o “bastazo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù
che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle
spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente
voluto.
Per
questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere
la croce” non è per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi vuol vivere
da uomo “libero”, e quindi disponibile ad accettare tutte le conseguenze della
sua scelta.
Pertanto,
“portare la croce” non significa subire forzatamente, da rassegnati, tutto ciò
che di brutto ci offre la vita; ma è accettare volontariamente, gioiosamente e
liberamente, come conseguenza della nostra adesione a Cristo, la progressiva distruzione,
da parte del mondo, della nostra considerazione e di noi stessi: “Sarete odiati da tutti a causa mia!” (Lc
21,17).
La
croce altro non è quindi che accettare le conseguenze, naturalmente riservate a
quanti vogliono vivere, già su questa terra, il “Regno di Dio”: in altre
parole, vuol dire fare come ha fatto Gesù, comportarsi “alla Gesù”, stravolgendo
i valori tradizionali del mondo e del vivere comune: quindi condivisione e non accumulo, uguaglianza e non prestigio, servizio e non dominio. Solo se siamo veramente
liberi possiamo amare Dio e il prossimo, metterci a servizio degli altri, rinunciando
alla nostra reputazione, disinteressandoci completamente di ciò che gli altri
dicono e pensano di noi. Ovviamente, perdere
la stima degli altri non significa perdere la nostra dignità: spesso infatti proprio
per non perdere la nostra dignità, dobbiamo rinunciare alla stima degli altri!
Possiamo
dire, insomma, che “portare la propria croce” significa “vivere come ha vissuto
Gesù”: liberi, felici, in pace con il Padre e con noi stessi, pronti a superare
serenamente e con coraggio tutte le prove che il mondo, le forze del male, continueranno
a seminare sul nostro cammino. Amen.
Nessun commento:
Posta un commento