«Gli apostoli dissero al
Signore: Accresci in noi la fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello
di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel
mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,5-10).
Siamo
nel capitolo 17 del vangelo di Luca, e Gesù, lungo il percorso che lo porta a Gerusalemme,
continua la sua catechesi itinerante. Il Vangelo di oggi si apre con gli
apostoli che rivolgono a Gesù una richiesta accorata: “Signore, aumenta la nostra fede!”.
A che
proposito? Come mai avanzano una tale richiesta? Per quale motivo affrontano qui
il tema della fede?
Ci
sono due spiegazioni logiche a questi interrogativi: la prima vede questo
intervento sulla fede strettamente legato ad un contesto più ampio: sarebbe
quindi un chiarimento di fatti e parole che lo precedono. La seconda invece
pone la richiesta degli apostoli come un pretesto offerto a Gesù per cambiare
discorso, per affrontare un nuovo argomento, in questo caso la fede.
In
Luca il primo caso non appare subito così evidente e comprensibile. Perlomeno
non come in Matteo, in cui il tema della fede è strettamente sequenziale al
contesto che lo precede: un uomo ha un figlio epilettico, lo porta da Gesù
perché lo guarisca, visto che i suoi discepoli in precedenza non erano riusciti.
Gesù lo guarisce e a questo punto i discepoli gli chiedono: “Perché noi non ci
siamo riusciti?”. E Gesù: “Per la vostra poca fede!” (Mt 17,14-19). E qui il tema della fede si lega in maniera perfetta
e logica: se i discepoli avessero una fede grande anche “quanto un chicco di
senape”, quindi in misura infinitesimale, riuscirebbero agevolmente a spostare
le montagne.
In
Luca, invece, la richiesta degli apostoli di aumentare la loro fede non appare così
chiaramente legata al testo che la precede: qui infatti Gesù parla degli
“scandali” (Lc 17,1-3), del perdono (Lc 17,3-4) e soprattutto che bisogna
perdonare non una, ma “sette volte al giorno”, cioè sempre. Ora, che c’entra l’argomento
della fede con lo scandalo e il perdonare? Apparentemente nulla, ma c’entra
eccome: la spiegazione? Sta nella impossibilità da parte degli apostoli, umili
e ignoranti pescatori, di accettare questa direttiva di Gesù, per loro assolutamente
incomprensibile e contraria alla loro cultura: “Come? Perdonare sempre? Dare
sempre un’altra possibilità? Dopo un torto, uno scandalo, un insulto così
grande, dobbiamo ancora perdonare?”. Ecco, la molla che fa scattare la loro
richiesta sta tutta qui: si rendono conto cioè dei loro limiti umani, capiscono
che con la loro mentalità non potranno mai, in assoluto, concedere sempre il loro
perdono, indipendentemente da tutto: “È troppo per noi, Gesù. Così come siamo ora,
non ce la faremo mai; per questo, Signore, aumenta
la nostra fede”.
Troviamo
però altrettanto valida anche la seconda possibilità: che cioè la richiesta
degli apostoli sia un escamotage
“lucano” per cambiare argomento, per dare l’opportunità a Gesù di cominciare una
nuova catechesi: da dove si capisce? Leggiamo il testo che precede: Gesù “un
giorno” (17,1) si mette a spiegare ai
discepoli (in greco mathetai), come
gli scandali siano inevitabili: è un male che purtroppo esiste da sempre in
tutte le comunità: una piaga che neppure Dio può eliminare, per non
compromettere il libero arbitrio dell’uomo; tuttavia, pur condannandolo
fermamente (“guai a colui che li provoca”),
ordina ai suoi di perdonare il peccatore pentito: e non una volta, ma sempre.
Punto: termina il v. 4 e l’argomento è chiuso. Inizia il versetto 5 e cambia
scena: se prima era stato Gesù, spontaneamente, a voler parlare di scandali e
perdono, ora sono gli apostoli, in greco apostoloi,
che intervengono con una richiesta ben mirata: “Signore, aumenta la nostra
fede”. Sono dunque “altre” persone, più qualificate rispetto alle precedenti, che
erano semplici mathetai, “simpatizzanti”
(sappiamo infatti che nei vangeli apostoli
e discepoli appartengono a due gruppi
ben precisi e distinti); si tratta di “collaboratori” di Gesù, che di punto in
bianco, costringono Gesù a cambiare argomento.
Comunque
sia, quello che preme qui a Luca è di riportare gli insegnamenti di Gesù sulla
fede.
Seguiamo
la tesi del nesso logico esistente tra il vangelo di oggi e il contesto che lo
precede: è chiaro, in quest’ottica, che gli apostoli non si sentono ancora adeguatamente
pronti per seguire quelle indicazioni di Gesù, per loro così difficili, innaturali,
così “rivoluzionarie”: nel loro cuore avvertono però il bisogno di crescere, di
migliorare la loro fede, di aumentarla: “Signore,
aumenta la nostra fede”; si rendono conto che hanno ancora molto da imparare,
da cambiare, da evolvere. Fanno comunque capire di essere nello stato d’animo
ottimale per intraprendere un serio cammino di sequela: così come sono non
basta; non si sentono adeguati, vogliono migliorare, progredire, andare sempre
più in avanti, verso l’alto. A volte non credono, sono scettici, non arrivano a
dare un senso agli insegnamenti del loro Maestro: per questo vogliono una fede “più”,
in tutti i sensi.
È la
fede, dunque, il loro assillo. Sappiamo che tutti gli interventi salvifici di
Gesù sono sempre legati alla fede. Ma noi, che tipo di fede dobbiamo avere?
Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede del
malato o bisognoso di turno che lo salva, ma è la potenza di Dio. La fede però ne
è il presupposto, la condizione essenziale: senza la fede anche la potenza di
Dio si annulla. Come mai? Perché “aver fede” significa riconoscere la nostra totale
impotenza e, nello stesso tempo, porre ogni nostra fiducia nella potenza del
Signore. La fede è il rifiuto di contare su di noi stessi, per contare
unicamente su Dio. Questa è la condizione interiore che Egli ritiene indispensabile
per esercitare la sua potenza, per donarci la salvezza, il coraggio che ci
serve per seguirlo. Ma se la fede è questo, allora è chiaro che non possiamo trovarcela
da soli, è chiaro che non possiamo crearcela autonomamente: anche la fede è un
dono di Dio. A noi allora non rimane che chiederla umilmente, come giustamente hanno
fatto gli apostoli: “Signore aumenta la
nostra fede”.
Molte persone,
purtroppo, pur avendone bisogno, non sentono affatto il desiderio della fede,
non si pongono neppure il problema, la considerano una cosa per donnette
ignoranti, di poco conto. Altre invece sono talmente diffidenti da respingere
qualunque possibilità di iniziare nuovi percorsi, si bloccano, terrorizzate, all’idea
stessa di cambiare, di crescere, di affrontare situazioni che aumenterebbero
inevitabilmente le loro responsabilità. Per questo “Signore aumenta la nostra fede” deve essere invece la nostra
preghiera quotidiana a Dio.
Alla domanda
degli apostoli, Gesù non risponde con un “fate questo”, o “fate quell'altro”; e
neppure risponde “Sì”, o “no”. Gesù offre loro semplicemente un criterio per
poter stabilire da soli la qualità della loro fede: “Se aveste fede quanto un granello di senape potreste farlo”; cioè,
potreste sradicare qualunque ostacolo vi si pari davanti, qualunque blocco mentale,
qualunque decisione apparentemente impossibile da superare, come per esempio, questa
vostra incapacità di perdonare sempre, di concedere sempre e comunque alle
persone un’altra possibilità di riscatto, prima di sentenziare la loro morte
spirituale.
Le
caratteristiche della nostra fede stanno dunque tutte nella vittoria che essa può
conseguire nello scontro titanico, alla Davide e Golia, tra la sua piccolezza,
la sua debolezza pari ad un “granello di
senape”, e la fermezza, la potenza poderosa di un albero centenario come il
gelso. Un confronto tra due poli estremi: in Palestina era infatti proverbiale citare
un “granello di senape” per indicare una cosa piccolissima, infinitesimale; oggi
diremmo è “un niente”, una cosa insignificante, senza forza. Il gelso, invece, era
notoriamente conosciuto come un albero difficilmente sradicabile, per la
profondità delle sue robuste e lunghe radici, che gli consentivano di vegetare
anche per 600 anni.
Ebbene,
cosa vuol dirci in pratica Gesù con tale paragone? Che una cosa piccolissima,
inerme, senza forza, è in grado di vincere, di sradicare, di sopraffare una
cosa enorme, robusta, inamovibile. È l’assurdo della fede.
Avere fede
non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala,
dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali,
non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima,
quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia
vera, sincera, autentica, profonda.
Perché
avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se
non sappiamo come; significa:“qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre
e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile,
controproducente”.
Non
confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede:
quanti pregano senza fede anche tra i preti; quante Eucaristie si vedono
presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a
loro sia presente Dio in carne e sangue! E non parliamo di noi “fedeli”: un
disastro! La fede non è legata al nostro stare in un posto sacro, in un
Santuario piuttosto che in un altro, a Medjugorje piuttosto che nella nostra
Parrocchia.
La
fede è una disposizione dell’anima, è attenzione a Dio, è fiducia pura in Lui, è
convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è percezione netta, convinta, di
essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a
meno, di essere protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui
qualunque difficoltà la vita ci riservi. Questo significa avere fede!
La fede
in Dio allora non è quello che sappiamo, quello che abbiamo studiato, i
trattati di mistica che abbiamo letto; non è la laurea in teologia; ma è quello
che viviamo, come lo viviamo, quello che abbiamo dentro, che sentiamo dentro: in
una parola è sentimento, forza, energia, amore, emozioni incondizionate, che
regolano la nostra esistenza.
Il
contrario della fede è la “fissazione”, è quando cioè siamo irremovibili su una
nostra convinzione, su un’idea, e non vogliamo in alcun modo cambiarla: un’altra
grave deficienza del nostro essere veri cristiani. Quante persone per esempio sono
convinte, sono fissate, che certe espressioni, certe azioni, certi
comportamenti siano espressione di fede! Così, certi segni di croce, certe
corone del rosario al collo, certe preghiere biascicate in fretta, certe
“messe” per i defunti in cui deve essere necessariamente citato il nome della
buonanima altrimenti la messa anche se “pagata” non vale, sono autentiche
manie, fissazioni appunto, che nulla hanno a che vedere con la fede! In questo
caso siamo come il gelso, dalle possenti radici, caparbiamente fissati sulle nostre
idee, sulle nostre regole rigide, sui nostri pregiudizi, sui nostri credo
indiscutibili: ma così rimaniamo fermi, immobili, impossibilitati a procedere; veramente
più nulla ci è possibile.
Il più
grande modello di fede presentatoci dai Vangeli? Maria ovviamente. Pensiamoci
un istante: era impossibile per lei, umile ragazza di campagna, accettare
quello che l’angelo Gabriele le proponeva, di diventare cioè la madre di Dio;
cosa che solo a pensarla significava essere eretica: una donna madre di Dio? Subito
la pena di morte!; accettare di rimanere incinta, ma non dal suo uomo, Giuseppe?
Significava cercarsi almeno la lapidazione. Ma Lei ebbe fede, una fede
incrollabile, una fede autentica: “Non so come farò, ma mi fido; avvenga di me quello
che tu vuoi; tutto ciò che tu mi dirai, io lo farò”. E così fu.
Ma
torniamo al seguito del nostro vangelo: all’insegnamento sulla fede, Luca fa
seguire una parabola, una sua esclusiva
(Lc 17,7-10). Indirizzata in
particolare agli apostoli, agli operai della vigna del Signore e a quanti col
battesimo hanno scelto di seguire le sue orme, questa parabola avverte che non ci
si può mai fermare sui risultati acquisiti, mai riposarsi pensando di aver
lavorato abbastanza. È una piccola parabola che non intende tanto descrivere il
comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di
uomini verso Dio: che deve essere nei suoi confronti un comportamento di totale
disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si
entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di
lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Dopo una giornata piena
di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare
diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti
con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono
soltanto un servo”.
L’esempio
portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi,
al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la
cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”.
Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire
il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato
nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro
compiti. Così “anche voi quando avrete
fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili” (Lc
17,10).
Ma cosa
vorrà mai dire Gesù con le parole “Servi
inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, reso in italiano con “inutili”,
pur essendo evidente che i servi della parabola non sono stati inutili; è una
parola di difficile traduzione, un termine che implica un particolare atteggiamento
di modestia, tipico di persone “misere”, degli “schiavi”; l’atteggiamento di
coloro cioè che lavorano stando al proprio posto con umiltà, senza ostentazione
o presunzioni; che sono consapevoli di essere dei servi e che tutto quanto
fanno rientra, nella normalità del loro stato: in loro nulla di eclatante,
nulla di eccezionale. Sappiamo infatti che servire Dio è per sua stessa natura
gratuito, rientra nella logica del dono: “gratuitamente
avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
In
particolare questa parabola colpisce una certa mentalità del tempo, che
accampava pretese verso Dio: stabilisce cioè che il padrone indiscusso è Dio e che
i suoi discepoli sono dei servi, privi di qualunque pretesa. Per alcune persone
dell’epoca, invece, le opere buone, la fedeltà alla Legge e alle regole,
costituiva un merito, un titolo di credito, che assicurava dei diritti nei
confronti di Dio. Era un “do ut des”,
uno scambio: “Sono bravo, ubbidiente, non faccio nulla di male, e quindi merito
il paradiso, merito di essere amato da te, è un mio diritto, perché mi comporto
da bravo cristiano!”.
È un
rischio sempre presente anche ai nostri giorni. Soprattutto quando preghiamo: abbiamo
fatto delle donazioni, delle offerte, siamo stati sempre caritatevoli, puntuali
nei nostri doveri di cristiani, abbiamo frequentato la Chiesa, abbiamo
assistito a liturgie particolari e impegnative? sono tutte cose che non ci
danno alcun diritto di pretendere da Dio questo o quello, di chiedere grazie e
benefici, come di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, di stabilire
la pace nel mondo, ecc.”; quando preghiamo dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare
con Dio, a non aver la presunzione di “comprarlo”, vantando in contropartita
eventuali nostre opere “meritorie”.
Quando
preghiamo Dio, lo dobbiamo pregare per ringraziarlo di quanto ha fatto e
continua a fare per noi, per assicurargli il nostro amore, per donargli la
nostra vita. Lo dobbiamo pregare perché ci dia la forza di affrontare ciò che, nella
nostra debolezza, dobbiamo affrontare; la forza di fare le nostre scelte, di
prenderci le nostre responsabilità, di accettare i limiti imposti dalla vita,
ecc.
La
preghiera non è uno scambio: “io ti prego un tanto e tu mi devi dare altrettanto”.
Dio sa bene ciò di cui abbiamo bisogno: lasciamo decidere a Lui cosa, come e
quando darcela; non pretendiamo di insegnarli come deve fare il mestiere di
Dio!
Quante
volte ci capita di sentire gente che mormora: “Sono arrabbiato con Dio, perché nonostante
tutte le preghiere che gli ho rivolto non mi ha esaudito!”. Ed ha fatto bene! Dio
non è questo, la preghiera non serve a questo. La preghiera non è il nostro
strumento per “convincere” Dio a darci quello che ci interessa. La preghiera
non serve per fare i “furbi” con Dio, per cercare di “raggirarlo”. La preghiera
serve solo per convertire il nostro cuore, la nostra anima, per diventare più
docili alla Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra
riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile
comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10). Amen.
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