giovedì 8 settembre 2016

11 Settembre 2016 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,1-32).

Quello di oggi è un “pezzo” classico del vangelo: una pagina che tutti conoscono, in cui tre parabole dette “della misericordia”, dominano la scena; parabole delle quali tutti, ma proprio tutti almeno una volta, ne abbiamo sentito parlare.
Il testo inizia dicendo che i pubblicani e i peccatori si avvicinano a Gesù per ascoltarlo. Uno pensa: “Beh, le autorità religiose saranno contente che Egli riesca ad attirare gli ultimi, i lontani, soprattutto i peccatori”. E invece no. I farisei e gli scribi, le autorità, “mormorano”; giudicano, cioè, e disprezzano il comportamento di Gesù. Come evidenzia il testo, Lo odiano così intensamente da evitare perfino di nominarlo: si riferiscono a lui chiamandolo: “Costui”.
Ebbene, è proprio “per loro” che Gesù dice queste parabole.
Sappiamo che i farisei e gli scribi erano la “crema” spirituale del popolo. Attraverso preghiere, sacrifici, offerte e una vita irreprensibile, seguendo cioè tutte le norme religiose, anche le più piccole, si ritenevano automaticamente santi e migliori degli altri, che consideravano “gentaglia”, peccatori: tutta gente, questi peccatori, che essi non solo non li avrebbero mai fatti entrare in chiesa, non solo non li avrebbero mai assolti, ma li avrebbero volentieri distrutti, fatti sparire dalla faccia della terra: ovviamente in nome di Dio!
D’altronde si rifacevano alle Scritture, alla loro religione, che in proposito erano abbastanza chiare: i peccatori vanno eliminati, sterminati, depennati (Cfr. Is 13,9; Sal 139,9).
Proprio per certi estremismi umani la religione spesso rischia di essere pericolosa: perché mentre Dio è disceso sulla terra per incontrare gli uomini, facendoci capire che possiamo incontrarlo sempre proprio qui, tra gli uomini, la religione al contrario per incontrare Dio, sale nell’alto dei cieli, allontanandosi dagli uomini, con il rischio di non incontrarlo mai. Saranno infatti proprio i “religiosi” che condanneranno a morte Gesù. Perché dove non c’è amore per il prossimo, per i fratelli sfortunati, sicuramente non c’è neppure Dio.
Tutta la vita di Gesù ce lo insegna: Egli infatti si intrattiene continuamente proprio con quella gente che, Bibbia alla mano, le autorità religiose avrebbero voluto solo eliminare. E questo per loro era una provocazione troppo grave, insostenibile: soprattutto per la loro mentalità, era impensabile il fatto che Gesù “mangiasse” con loro: nel mondo palestinese, infatti, il cibo era servito in un unico piatto dal quale tutti si servivano, per cui “mangiare insieme” significava condivisione, “comunione di vita”. Per loro, quindi, Gesù è un impuro perché ha condiviso il cibo, lo ha “toccato”, con persone impure (l’impurità si trasmetteva); e Dio non si concede agli impuri; Dio si dà solo ai puri, ai santi. Una mentalità discriminante che è arrivata fino a noi: “Tu sei puro? Sì? Allora puoi andare in chiesa, puoi avvicinarti a Dio, ecc.”. “Tu non sei puro? No? Allora non puoi avvicinarti a Dio. Sei una persona condannata, destinata all’inferno per i tuoi peccati: Dio ti respinge, non sa che farsene di uno come te.
Solo però che il Dio del Vangelo, il Dio di Gesù, è l’esatto contrario. Nel Vangelo è proprio Gesù che va dagli ultimi, dai peccatori, dai disgraziati. Ed è ovvio: Gesù va da chi ne ha più bisogno, non fa distinzioni tra buoni e cattivi, va da tutti, a condizione che siano disponibili ad accoglierlo.
Pertanto, se la “religione” dice: “Dio ce l’hai, se te lo meriti. Se sei bravo, se sei puro, se righi dritto, perché solo così Dio è con te”, il Vangelo dice un’altra cosa, esattamente il contrario: “Non devi essere puro per avere Dio. È il suo amore, la sua accoglienza che ti rende puro. Dio è sempre con te, puro o no che tu sia... accoglilo, lasciati amare, accetta il suo amore”.
È dunque proprio per far capire questa novità, a quei tempi impensabile, che Gesù racconta le tre parabole famose: della pecora perduta, della dramma perduta, del figlio perduto; in esse Egli chiarisce di essere venuto in questa terra per cercare proprio chi si è perduto. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che sono amati da Lui. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che Dio è un dono assolutamente gratuito di amore, di misericordia.
Mi soffermo in particolare sulla parabola del “figliol prodigo”.
Ebbene: quel Padre che fa festa quando il figlio torna a casa, è Dio. Il fratello maggiore, invidioso, asservito al Padre, rappresenta gli scribi e i farisei, “servi” di Dio, ma non “figli” di Dio. Al padre essi diranno: “Ecco, da tanti anni io ti “servo” (in greco dulèuo, sono schiavo) e tu non mi hai mai dato un capretto...”. Ma i capretti, per tutti quegli anni, erano già tutti a loro disposizione!
La religione senza l’amore, crea solo persone giudicanti, invidiose di chi ha di più, di chi riesce meglio, di chi è felice. La religione senza l’amore non sa sorridere, non sa far festa, perché è corrosa dalla rabbia che cova dentro di sé.
La parabola però è anche una stupenda fotografia di uno spaccato famigliare, di come cioè si svolgano in realtà le relazioni tra i componenti di una famiglia.
La parabola parla di “un padre con due figli”. E la madre? La madre talvolta non c’è, o se c’è, è come se non ci fosse. Sono le madri aspirapolvere, le madri lavastoviglie, le madri che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto il giorno, che, dicono loro, “sacrificano la loro vita per i figli”, ma che in realtà non ci sono, non dimostrano il loro amore, sono come assenti. Fare tanto per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo “fare tanto”. Amare è al contrario valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, rendere autonomi i figli, aver fiducia in loro, non essere ansiosi; amare è avere qualcosa da dare al figlio; amare non è fare un figlio per ricevere qualcosa in cambio, perché qualcuno ci ami!
Da un’indagine risulta che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa (76%), più delle mamme tedesche (56%) o di quelle svedesi (40%). La mamma italiana soffre di “figliolite”: crede, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di lei. Sorge il dubbio che sia lei ad aver bisogno di lui.
I due figli della parabola sono dunque diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Sono nati entrambi dallo stesso padre, che non è riuscito a trasmettere loro l’amore; un padre che entrambi considerano un “ostacolo”, un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari.
Il primo, il minore, dice al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ma non gli spetta niente! Egli cerca solo di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l’amore del padre. Anzi va contro di lui. L’eredità si otteneva solo dopo la morte del padre: dicendogli così, in pratica gli dice: “Tu sei già morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!”.
Il maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. Egli si percepisce come un servo del padre, come uno schiavo: non fa altro che ubbidire ai suoi ordini, ma dentro cova rabbia.
La loro diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre. Il maggiore si sottomette: è il suo dovere. Rinuncia alla sua vita perché “deve” rispetto e obbedienza al proprio padre. Ma una persona che “fa tutto quello che deve”, una persona brava, che non si ribella, che non trasgredisce mai, è sicuramente molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere l’amore mediante una ubbidienza meticolosa, con una vita di precisione; cerca cioè di ottenere comunque, ciò che sente di non poter avere altrimenti (ma l’amore è gratuito!). La sua strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, per ottenere in cambio il tuo amore”. I genitori: “Ti amo se vai bene a scuola”: e il bambino si sottomette per avere l’approvazione del genitore. “Ti amo se non disturbi”: e il bambino si sottomette e diventa adulto per avere l’approvazione. “Ti amo se fai così”: e il bambino si sottomette per avere l’amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come si sentirà dentro? Ovviamente come il maggiore: pieno di rabbia.
Il minore, invece, non sentendosi accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi rifiuti? Ti rifiuto anch’io!”. D’altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi la stima del padre, facendo il figlio bravo e ubbidiente. A lui non rimaneva altro che differenziarsi dal fratello. Se in casa c’è già chi fa il bravo, all’altro non rimane che fare il contrario. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro dovrà per forza farne un’altra! D’altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, efficiente fuori casa: è infatti ciò che fa il figlio minore: se ne va in giro per il mondo.
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera, e sono diversissimi tra loro. Ma guai se i figli fossero uguali! Ogni figlio esige una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli, perché essi hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non fare le stesse cose per tutti.
I due fratelli della parabola infatti non si incontrano mai! Il maggiore non lo chiama mai “fratello”, ma si rivolgerà al padre dicendogli: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia? Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene con te; perché tratti mio fratello esattamente come me?”.
“Con le prostitute”: un particolare che non risulta dal racconto. Che sia vero o no, non è forse un tentativo del maggiore di screditare il minore, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo? Non sappiamo infatti se egli sia andato con le prostitute. Forse non ci ha mai pensato, ma il maggiore sì. Il cervello non conosce altri che noi, e quindi quando parliamo degli altri, parliamo sempre di noi!
Cosa c’è dunque in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre. A quel tempo era così: il primogenito era il preferito, il prescelto: gli andavano i due terzi dell’eredità e riceveva tutti gli incarichi paterni. Il maggiore vinceva, il minore perdeva. Era così.
Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per non morire di fame.
Ma il padre dov’era? Come ha fatto a non vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai nulla”? Inoltre: non si era mai accorto che il maggiore era un esecutore? Non si era mai accorto che voleva un “capretto”, un riconoscimento, un gesto d’approvazione, d’affetto, solo per sé? E quando il minore se ne va perché in padre non lo interpella,visto che era parte in causa?
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Ma guarda cos’è successo!?”. Per forza, erano ciechi!
È chiaro che il padre non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosce il suo di cuore, non può certo conoscere il cuore degli altri, di suo figlio!
L’unica cosa che sa fare è “dare” comunque, a ciascuno, le “cose” che gli spettano: al minore come al maggiore. Ma quando un genitore dà le proprie cose al figlio, vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozioni, vitalità, niente di sé da passargli. È il fallimento dell’educazione.
Molti genitori riempiono i loro figli di cose, di giocattoli, di vacanze, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): ma tutto questo non può sostituire la cosa più importante, l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore, di un rapporto concreto con lui, ha bisogno delle sue parole, di momenti esclusivi con lui, di abbracci. Un figlio contemporaneamente ha bisogno della madre, del suo amore, di un rapporto con lei, fatto di parole, di carezze, di sentimenti. L’uno non sostituisce l’altra. In nessun caso. Inutile cercare oggi di dimostrare il contrario! È un’assurdità!
I genitori a volte dicono spazientiti: “Hai tutto!”. È vero, perché danno tutto di materiale; ma non trasmettono nulla di spirituale, nulla dell’anima, nessun sentimento, nessuna emozione intima. Non c’è colloquio, non c’è scambio di emozioni.
La parabola del figliol prodigo, sotto questo profilo, è infatti la parabola del “non detto”, della non comunicazione; in essa nessuno parla: per metà racconto nessuno dice niente, nessuno si rivolge a qualcun altro, eccetto la frase iniziale del minore. E cosa dice? Di che cosa parla? Del suo errore, di ciò che ha capito, del suo pentimento, della sua fame d’amore. Il padre parla quando vede il figlio e si commuove. E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante. Il maggiore infine parla della sua rabbia, del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello.
I personaggi iniziano ciascuno un proprio viaggio da infelici, chiusi ermeticamente in loro stessi: cambiano improvvisamente quando si parlano, quando comunicano tra loro, aprendosi.
È il quadro di tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”. E, invece, ci sono un sacco di cose che non vanno, parole che non vengono dette, che rimangono dentro; un sacco di emozioni che non sono espresse, che sono rinchiuse dentro, ignorate, accantonate. Di problemi in famiglia ce ne sono sempre in abbondanza, ma non se ne parla apertamente, ognuno fa finta di niente. Per la tranquillità di tutti, “per il bene dei figli” è sempre meglio non parlarne, è meglio fingere che tutto vada bene!
Quando poi i problemi esplodono, tutti cadono dalle nuvole: “Cos’è successo? Come mai? Chi l’avrebbe mai pensato?”.
I problemi vanno invece affrontati sempre: con carità, lealtà, onestà! Quand’è che la parabola ha una svolta? Quand’è che cambia? Quand’è che in quella famiglia torna la normalità, la serenità, una nuova vita? Quando i personaggi iniziano a parlarsi. Quando l’amore prende il sopravvento.
Così vale per noi. Se stiamo male come il minore, parliamone del nostro male. Non facciamo finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori, discutiamo di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona profondamente ferita. Se siamo felici, emozionati, pieni di vitalità come il padre, esprimiamoli questi sentimenti. Perché il minore e il padre, aprendosi, “guariscono”. Il maggiore, nel racconto, non lo è ancora, ma si capisce che ha iniziato un suo nuovo percorso di vita!
Apriamoci, dunque: comunichiamo, parliamo di ciò che abbiamo dentro; perché se non ci apriamo, se non comunichiamo, moriamo dentro. È inevitabile. Inoltre, se non ci apriamo, nessuno potrà mai conoscerci, nessuno potrà mai ammirare la nostra bellezza interiore. Amen.


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