giovedì 6 ottobre 2016

9 Ottobre 2016 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,11-19).

Il vangelo di oggi racconta di dieci guarigioni e di un miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo riconosce ciò che gli è successo, e solo in lui avviene il miracolo. Perché guarire comporta una trasformazione interiore.
Gesù, ormai verso la conclusione del suo viaggio verso Gerusalemme, entra in un villaggio e dieci lebbrosi gli vanno incontro. La lebbra, allora, era tremenda sia come malattia, sia perché il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un imprigionato. Chi riusciva a venirne fuori, doveva presentarsi ai sacerdoti del Tempio, gli unici che avevano l’autorità di constatarne la guarigione, e di reintegrarlo nella società.
In altre occasioni Gesù per guarire gli ammalati li toccava: un atto per quei tempi decisamente scandaloso. Qui, no. Qui non li avvicina neppure, ma li manda direttamente dai sacerdoti pur essendo essi nel pieno della malattia. Perché? Non poteva guarirli subito? Chissà cos’avranno pensato quei lebbrosi: “Ma come: siamo malati, impuri e ci mandi dai sacerdoti? Come ci tratteranno vedendoci arrivare in questo stato?”. Tuttavia i dieci vanno, confidando sulla parola di Gesù; questo è il punto: “credono” e vanno. È questa loro dimostrazione di fede che li guarisce. Credono con fede profonda e sincera di poter guarire, di poter finalmente cambiare la loro situazione; e grazie a Gesù, ciò avviene.
Un monito per tutti noi: anche noi dobbiamo rivolgerci a Dio con altrettanta fede, perché se non siamo convinti che Dio ci ama, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici nei suoi confronti, Egli non potrà mai darci retta, non potrà mai trasformare la nostra vita, migliorarla, non potrà mai guarirla. Tanti cristiani non riescono a migliorarsi, non guariscono dalle loro malattie, dalle loro infermità spirituali, proprio perché non credono nella possibilità che Gesù li possa aiutare, li possa guarire: e continuando a non credere, non guariranno mai! Quello che in particolare li frena nel loro cammino di fede, minandola, è il rispetto umano: trovano estremamente vergognoso e umiliante dimostrare apertamente, in pubblico, di essere credenti, di agire coerentemente con la loro fede, di fare o non fare certe cose perché credono fermamente nelle Parole di Cristo. Per prima cosa, quindi, devono vincere le loro paure, devono affrancarsi dalla loro vergogna, dai loro freni inibitori.
Gesù infatti non dice: “Ritiratevi in silenzio e andate privatamente nel tempio a pregare”, bensì: “Presentatevi dai sacerdoti”. Cioè: “Muovetevi, accantonate ogni timore, ogni reticenza, e andate a “mostrarvi” così come siete, andate a fare proprio quello che per rispetto umano non fareste mai, quello che avete paura, vergogna, di fare”.
Del resto la preghiera non è altro che il presupposto del “fare”, dell’agire: è preparazione: inizia cioè quando ci ritiriamo in noi stessi nel silenzio, convinti che Dio ci ama, e percepiamo in noi la presenza potente del suo amore incondizionato; e termina nel momento stesso in cui questa esperienza interiore si trasforma in forza, in energia, e diventa “azione”: “pregare” pertanto corrisponde ad “agire”, muoversi, andare, darsi da fare; altrimenti la preghiera non è preghiera, ma un inutile e vuoto blaterare. Quando dobbiamo affrontare una paura, un imprevisto, un problema che non conosciamo, ma che dobbiamo affrontare e risolvere, è allora che dobbiamo pregare: perché pregare significa metterci mano, uscire da ogni incertezza, affrontare a viso aperto, con coraggio e fede in Dio, ciò che temiamo, l’ignoto, ciò che ci fa paura.
Molte persone hanno un’idea distorta della preghiera, la considerano “magica”, un toccasana, miracolosa a prescindere: “C’è un problema, una difficoltà, di qualunque genere? Prego il Signore”. Punto. Chiuso. Hanno fatto quello che dovevano. Rimangono in attesa, non si muovono: “Io l’ho pregato, è Lui ora che deve darmi quello che gli ho chiesto!”. Sbagliato: pregare va sicuramente bene, ma per agire. La nonna diceva “aiutati che il ciel ti aiuta!”. Gesù infatti non si limitava a parlare, ma mandava, chiamava, dava ordini: “Va’; esci; vieni; seguimi!”; faceva muovere, faceva agire le persone: in una parola le faceva “vivere”!
Il nostro modo di pregare, invece, il nostro “vivere” la fede, è spesso terra terra. È come se andassimo al supermercato: ci basta scegliere, senza fare alcuna fatica, per portar via ciò che vogliamo: lì c’è tutto. Solo che quando si tratta della nostra vita di fede, abbiamo bisogno di cose spirituali, di aiuti particolari. E Dio non è un supermercato delle nostre voglie, il pronto “tappabuchi” per ogni nostra necessità. Non scarichiamo su Dio le nostre responsabilità, non rinfacciamogli la responsabilità delle nostre situazioni, incancrenite e insopportabili. Perché potremmo sentirci dire: “Ma tu cos’hai fatto fino ad oggi? Pensi di continuare a far nulla? Sei tu che devi intervenire, sei tu l’unico artefice, il responsabile unico della tua vita!”.
Gesù vedeva nelle persone che incontrava, nella prostituta, nella peccatrice, nei pubblicani, nei peccatori, nei lebbrosi, cose che nessun altro riusciva a vedere. Il vangelo dice spesso infatti che Lui “li vide”. E Lui li vedeva bene, vedeva dentro di loro, nel loro cuore: se “credevano”, se cioè la loro preghiera era originata, “spinta”, “azionata” dalla forza dell’amore, allora ottenevano ciò che chiedevano, venivano miracolosamente guariti.
Il miracolo avviene soltanto se noi crediamo in Dio con i fatti, concretamente, altrimenti Lui non può fare nulla: se noi lo “speriamo”, se lo “desideriamo”, se ce lo “auguriamo”, non ci sarà alcun miracolo. Ma solo se crediamo: solo se abbiamo fede, se ne siamo convinti, possiamo guarire da qualunque “malattia”.
Con il termine “lebbra” noi oggi designiamo la classica malattia di Hansen. Ma il termine ebraico “sara’at” si riferiva in genere alle varie malattie della pelle: escrescenze fungose, muffe, infezioni, eczemi. In questo caso possiamo identificare la nostra pelle con la nostra vita; è lei infatti che mette in comunicazione il nostro “interno” con il mondo esterno, con la società. La pelle ci difende, ci avvolge, ci protegge dalle ferite e dai pericoli esterni. In senso figurato possiamo quindi interpretare la lebbra, malattia della pelle, come quella malattia spirituale che intacca, attraverso l’esterno, la bellezza interiore della nostra anima: quella malattia che ci isola, che ci esclude da ogni rapporto vitale con Dio e con la realtà. È la malattia dell’esclusione; è quel marchio indelebile che ci condiziona, che ci fa sentire tagliati fuori dalla comunità dei fratelli, che ci fa vergognare, che ci fa sentire “discriminati” da Dio e dagli uomini.
Ma non dobbiamo disperare, non dobbiamo darci per vinti: muoviamoci, andiamo da Gesù: Egli continua a passare continuamente per le nostre strade e si ferma pazientemente ad aspettarci: chiamiamolo a gran voce, preghiamolo e, se la nostra fede è autentica, potremo sentire distintamente la Sua voce che ci invia dai sacerdoti e ci dice: “Non permettere mai che la vergogna, che il giudizio degli altri ti uccidano, ti impediscano di vivere. Ritrova la fiducia che è in te: alzati, abbi il coraggio di mostrarti, di far vedere a tutti quello che sei realmente. Fatti vedere, non nasconderti, lavati dalle tue brutture, togliti di dosso tutte le maschere che ti deturpano, perché la tua faccia è bella, luminosa, perfetta: non dimenticare mai che io ti ho creato a mia immagine e somiglianza!”. Il grande miracolo avviene, la nostra guarigione è assicurata!

Poi c’è la seconda parte del vangelo. Tutti guariscono ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? E gli altri dove sono? Il vangelo dice che solo “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. È quel “vedendosi guarito” che è decisivo. Uno di loro cioè si accorge di ciò che gli è successo: se ne “avvede”, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza dell’accaduto. E gli altri? Degli altri non sappiamo: il vangelo non dice “che abbiano visto”.
Gesù aveva detto loro di andare dai sacerdoti: partono in dieci, tutti lebbrosi, ma uno “vede” e guarisce completamente anima e corpo: in lui avviene il “miracolo”; gli altri nove non “vedono”, si limitano ad eseguire l’ordine, e guariscono solo all’esterno, il miracolo vero in loro è fallito. È la religione del “io ti do e tu mi dai”. Tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. I nove non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Pensano: “La guarigione l’abbiamo avuta, abbiamo fatto ciò che ci ha detto. Che altro dobbiamo fare?”. Non hanno visto Dio. Non c’è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento: avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d’acqua e si sono accontentati; non sono ritornati alla Sorgente, alla fonte, alla forza che li aveva guariti.
A Gesù le persone chiedono sempre segni e miracoli; ma vogliono tutto a basso prezzo, senza fatica, senza troppi coinvolgimenti. Vogliono un pacco-dono dal cielo, ma non per convertirsi, non per cambiare vita, per crescere; non riconoscono che Lui è la Vita vera, autentica, e non lo fanno entrare nella loro vita di facciata.
Tante persone pregano, pregano molto, e infine ottengono quello che chiedono: ma una volta ottenutolo, tutto continua come prima. Quello che è loro successo non le cambia, non le tocca. Rimangono in superficie, all’esterno. Magari, se non ottengono subito quel che chiedono, si arrabbiano anche, come se ottenerlo fosse un loro diritto. Insistono nel chiedere non per fede, ma per piegare in qualche modo Dio alla loro volontà, come se Dio fosse in debito con loro. Vivono una vita senza una vera lode di riconoscenza, senza gioia e festa, senza gratitudine, nella meschinità del tutto è dovuto: “Io prego, io faccio, io mi impegno: tu Dio, tu Vita, mi devi dare in cambio quanto ti chiedo”.
Il ringraziamento del samaritano è invece il segno proprio di chi ha capito che quanto è avvenuto in lui è un dono, che nulla gli era dovuto; e solo lui, “samaritano”, dissidente, peccatore, torna indietro a ringraziare: non possiamo ignorare una certa nota polemica in questa sottolineatura di Luca: sappiamo infatti che gli osservanti e pii Giudei consideravano i samaritani gente malfamata, depravata: ma saranno proprio i nove “religiosi”, i nove osservanti giudei, (non è scritto, ma il testo lo lascia supporre) che non torneranno indietro “miracolati” a ringraziare Gesù.
Il verbo ringraziare, “rendere grazie”, in greco è “eucaristèo”, fare “eucaristia”: accorgersi cioè che tutto ciò che avviene in noi e attorno a noi, è solo un “dono” gratuito, non dovuto, di cui dobbiamo essere profondamente riconoscenti. Spesso al contrario noi avanziamo soltanto pretese assurde, esagerate, eccessive. Siamo come i nove lebbrosi: non ci rendiamo conto dei doni che riceviamo, continuiamo per la nostra strada, come se non fosse successo nulla: siamo convinti che i doni che riceviamo non siano prove d’amore gratuite da parte di Dio, ma solo il riconoscimento di un nostro diritto in sofferenza, liquidatoci a seguito dei nostri solleciti: e in questo modo rifiutiamo anche noi il “miracolo”.
Per questo l’Eucarestia della domenica dovrebbe essere il nostro “ringraziare” Dio per i suoi doni, per la sua presenza nella nostra vita e nella settimana appena conclusa. Le nostre eucaristie, invece, sono spesso senz’anima, rischiano di essere solo l’osservanza di un precetto, una consuetudine, senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono “impegni” di ordinaria amministrazione, un inno all’indifferenza: non vediamo, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio nel nostro tempo, nella nostra vita, non sappiamo vedere ciò che Egli fa per noi, non c’è alcun sussulto nel nostro essere presenti/assenti.
L’egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: sono convinti di non ricevere mai abbastanza; sono sempre in ansia per ciò che manca, per ciò che non hanno; la società intera è sempre in debito nei loro confronti, nessuno li ama adeguatamente; le loro richieste, le loro pretese, crescono continuamente in progressione geometrica.
Il miracolo invece è rendersi conto, percepire, che niente ci è dovuto, che niente è un nostro diritto. Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ci meritiamo nulla, nulla ci è dovuto: tutto è dono dell’Altissimo; godiamocelo e ringraziamolo: non per nulla “ringraziare, grazia, gratitudine”, sono parole che derivano tutte dalla stessa radice: “gratis”! Tutto proviene dall’Amore di Dio. Un amore che non ci è dovuto, che è solo un dono. Ringraziamo Dio allora, viviamo le gioie e i piaceri del suo amore, stupiamoci e cantiamo se la nostra vita viene riempita d’amore; ringraziamo ogni giorno Iddio che ci fa vivere e percepire questa esperienza, che è la più forte e la più profonda della vita, benediciamolo per ciò che ci viene dato di vivere e siamogli grati perché nessun uomo su questa terra merita tanto. Così, la vita non ci è dovuta, è un dono, godiamola. Godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa, del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, possiamo esprimerci, possiamo piangere. Benediciamo Dio per gli amici, per le occasioni sempre nuove che abbiamo, per le possibilità che ci ritroviamo. Tutto questo è gratis, è per noi. Benediciamolo perché nulla ci è dovuto, ma è tutto frutto del suo amore.
Solo menti ottuse, senza cuore, totalmente rigide e senza vita, non sanno lasciarsi contagiare dallo stupore e dalla meraviglia di questo fremito così fragile e così perfetto che si chiama vita. La nostra vita è un capolavoro e soltanto chi è senza cuore non riesce a commuoversi e inchinarsi di fronte a tale bellezza. Solo menti cieche non sanno vedere in quale miracolo siamo immersi. Solo menti ottuse non vogliono conoscere, si ostinano ad ignorare la perfezione e la bellezza di un mondo in cui tutti noi abitiamo.
Chi non conosce Dio, non lo ringrazierà mai. Può farlo soltanto chi torna sui propri passi come il samaritano, perché si rende conto di essere coinvolto in un mistero molto più grande di lui: un mistero che lo trascende, che lo supera, che lo sorpassa: il mistero di Dio Amore. È un peccato vedere in Chiesa delle persone che non cantano, non ringraziano Dio, rimangono mute: rifiutano qualunque coinvolgimento, non vogliono dare voce ai sentimenti di riconoscenza che hanno dentro. Benediciamo invece ed eleviamo a Dio il nostro grazie per la vita: e questo non perché siamo ciechi, perché non vediamo i mali, le ingiustizie, i soprusi che, per causa nostra, ci sono nel mondo, attorno a noi, e spesso dentro di noi; ma perché guardando alla bellezza che ci circonda pur in mezzo a tante crudeltà, guardando alle meraviglie in cui siamo immersi pur in mezzo a tante cose incomprensibili, guardando alla bellezza della vita pur in mezzo alla sua limitatezza, riusciamo a vedere i tratti inconfondibili e innegabili del suo Amore divino.
Lodare (dal greco aineo) vuol dire anche “assentire, approvare, dire di sì, essere contento”.
Allora siamo contenti della vita non perché tutto sia roseo ma perché le diciamo di “sì”, perché la accogliamo così com’è, perché cerchiamo di viverla com’è, perché sentiamo che ha un valore inestimabile, enorme.
Dobbiamo sempre diffidare di chi non si sa stupire, di chi non si sa meravigliare, di chi non sa congiungere le proprie mani e ringraziare Dio per tutto ciò che vive; perché uno così manca di sensibilità, di riconoscenza, di amore. In altre parole non “sente” il dono, non capisce il “miracolo” che gli è stato fatto. E se non capiamo il miracolo incalcolabile della vita, non ne percepiremo neppure il suo valore inestimabile, e rischieremo di buttarla via, di svenderla, di sprecarla.
Lodiamo Dio per i suoi doni, per l’amore che ci dimostra continuamente, per la vita: perché lodarlo vuol dire essere fedeli, con stupore, con riconoscenza, sia all’incanto della vita, che alla sua drammaticità. Vuol dire essergli fedeli, dirgli sempre di “sì” anche quando non capiamo, anche quando siamo portati a fissarci solo sul negativo, su ciò che non va bene, su ciò che è parziale, limitato o insufficiente; lodarlo vuol dire riuscire a guardare oltre, a vedere che un domani tutto potrà essere migliore, anche se oggi non lo è. Lodiamo Dio, creatore della vita, perché ci ha dato la possibilità di vederla attraverso i suoi occhi; di viverla fiduciosi nella sua Provvidenza, di amarla nel suo Amore. Amen.


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