«Disse loro: Ma voi, chi dite
che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»
(Mt 16,13-20).
I discepoli
che seguivano Gesù, quelli che lui aveva scelto e che stavano sempre con lui, hanno
potuto assistere a miracoli e guarigioni, hanno visto morti tornare in vita,
ciechi vedere, sordi udire; hanno visto tanta gente cambiare vita, perché egli era
seguito e amato dalle folle; hanno ascoltato da lui parole forti, vive, parole che
svegliano il cuore, che fanno venire “voglia di vivere”, di sperimentarsi, di
amare, di donarsi, di slanciarsi nella vita.
Nonostante
ciò, nel loro intimo, non riescono a staccarsi dai loro vecchi schemi: sono
ancora imbevuti della vecchia religione, della vecchia mentalità. Hanno fatto certamente
degli aggiustamenti alla loro vita, hanno effettuato degli smussamenti, delle
variazioni, ma sostanzialmente sono rimasti quelli di prima.
Per
questo Gesù, come ci racconta il vangelo di oggi, li mette di fronte ad una
prova, fa loro una domanda a bruciapelo, per vedere cos’hanno capito di lui: “Va
bene: questo è quello che gli altri pensano di me: Ma voi chi dite che io sia?”.
A questo punto l’imbarazzo, la risposta è desolante, la loro confusione è
totale: ciascuno pensa qualcosa di diverso, c’è un guazzabuglio di idee;
nessuno, in ogni caso, coglie esattamente chi è Gesù.
Gli apostoli
non vedono Gesù per quello che è; lo vedono secondo i loro “vecchi schemi”: come
tutti, vedono in lui un profeta, un personaggio importante della Bibbia. Sono
bei paragoni, ma Gesù non è “come” qualcun altro. Gesù è Gesù, e soprattutto
Gesù è completamente diverso da tutti, da tutti quelli venuti prima e che
verranno dopo. Gesù non è uno dei tanti profeti: Gesù è il Profeta, è il figlio
di Dio. E questo essi non l’hanno capito.
Non è come
Giovanni il Battista, il grande moralizzatore, che chiedeva insistentemente una
totale conversione di vita, obbligando chi voleva battezzarsi ad una vita di penitenza
e opere di misericordia. Gesù al contrario non impone mai nulla, a nessuno. La
sua è una “proposta” di vita: chi vuole
la segue. Seguirla, significa sentirne la bellezza, la forza, la vitalità che
trasmette, la fiducia che suscita, la pace interiore che infonde. Nessuna costrizione!
Non è come
Elia, zelante e intransigente difensore di Dio. Annunciava un Dio severo, duro,
rigido, patriarcale, che non ammetteva nient’altro che una strada, una verità,
una legge. Ha fatto uccidere quattrocentocinquanta profeti di Baal e li ha
sgozzati uno per uno (1Re 18,22.40); ha
“bruciato” cento uomini (2Re 1,9-12)
solo per dimostrare che egli era “uomo di Dio”. Gesù non può assolutamente
essere come Elia. Certo, gli apostoli lo avrebbero voluto in qualche modo così.
Avrebbero voluto un uomo forte, potente, che sistemasse le cose sia dal punto
di vista religioso che sociale, con o senza la forza, una volta per tutte. Ma
Gesù non è così. Non c’è traccia di violenza o di sopruso in Lui.
Gli
apostoli insomma vedevano in Gesù quel particolare personaggio che ciascuno in
cuor suo sognava, quel “profeta” che ammirava, ma non vedevano Gesù.
Gesù
non è profeta secondo il modello del tempo. Gesù è profeta perché mostra il
Padre.
L’autorità
religiosa e profetica del tempo si fondava su due principi: paura ed
obbedienza. Se i sacerdoti e le leggi religiose dicevano che uno “non era in
regola” c’era da aver paura. Dio, più che da amare, era uno da temere, da tenersi
buono, perché non si sa mai, magari ci
manda all’inferno! La gente era sottomessa. Non veniva aiutata ad ascoltare il
proprio cuore. Anzi: era pericoloso ascoltare il proprio cuore perché ascoltarlo
voleva dire sentire in maniera
diversa dalle autorità, avere altri punti di vista, dissentire.
Il Dio
di Gesù al contrario non crea servitori, schiavi; mai! Dio crea uomini liberi. Dio non sa che farsene di
esecutori senza cuore, di funzionari senza cervello, senza un pensiero
autonomo, libero e personale.
Del
resto obbedire (dal latino ab-audire) significa letteralmente “ascoltare da dentro”: l’obbedienza non è
eseguire ciò che uno vuole, ciò che ci comanda, perché questa è schiavitù; obbedire,
in senso stretto, vuol dire assecondare i desideri di chi abbiamo dentro (Dio);
obbedire è dar voce al Dio che parla, canta, grida, sussurra, dentro di noi; obbedire
è dargli voce, dargli spazio, dargli vita; obbedire agli altri (e non a Lui) è
farlo morire, lasciarlo sepolto.
Obbedire
insomma vuol dire ascoltare il nostro cuore e rimanergli fedele, ascoltare Dio e
non tradirlo; anche se sarebbe più comodo fare come tutti, adattarci alla
situazione, seguire la corrente evitando conflitti e contrasti a volte dolorosi.
Sicuramente
gli apostoli quando guardavano Gesù lo vedevano ancora così, con le vecchie
categorie: paura e sottomissione. E quando Gesù pone loro la grande domanda, il
silenzio che ne segue è perché proprio non lo sanno chi Egli sia veramente, non
l’hanno ancora capito; non sanno pensare a nient’altro che ai loro “modelli”.
Solo
Pietro, per un attimo, ha uno slancio vitale, un’intuizione fuori dal coro: “No, tu non sei un profeta, non sei un sacerdote
così. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (16,16).
In
realtà i discepoli avevano già riconosciuto Gesù come “Figlio di Dio” (Mt 14,33): è che non avevano capito
cosa volesse dire “Figlio di Dio”. La
novità di Pietro non è tanto dare a Gesù un titolo, una etichetta
identificativa; quanto dare la spiegazione di tale titolo: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio; “Tu
sei il Vivente, colui che fa vivere, che dà e porta alla vita”.
E Gesù
gli dice: “Beato te, Simone figlio di
Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che
sta nei cieli”. Perché Gesù chiama Pietro, “figlio di Giona”?
Giona
è stato l’unico profeta che nell’Antico Testamento ha fatto il contrario di
quello che Dio gli aveva comandato: inviato a Ninive a predicare la
conversione, lui era andato nella direzione opposta (Gn 1,3). Ebbene, Pietro è come Giona (“bar”, suo figlio), sanguigno, testardo come lui; anch’egli andrà
contro il Signore, lo rinnegherà, ma alla fine si convertirà.
E Gesù
conclude: “Queste cose non le hai imparate dai libri o perché qualcuno te le ha
insegnate o te le ha ordinate (carne e
sangue). Queste cose le cogli solo se hai un cuore vivo, solo se hai un’anima
che pulsa, solo se Dio può parlare liberamente dentro di te (“te l’hanno rivelato il Padre mio che è nei
cieli”). Solo chi obbedisce a Dio, cioè solo chi lo lascia parlare dentro
di sé, lo può conoscere. Gli altri riportano, deducono, pensano, ma non sanno e
non possono sapere”.
Solo
su questa pietra, pertanto, solo su
questa certezza (che Lui è il
Vivente!), è possibile costruire la chiesa; e contro questa certezza nessun
potere ha potere, le porte degli inferi e il diavolo stesso non possono nulla. Essa
è la chiave della felicità, la chiave di una vita piena. Regno dei cieli,
nel vangelo, non significa tanto un regno dell’al di là, ma una vita dove Dio
vive e si fa vedere, dove si rende visibile.
La
chiave della vera Vita (il Regno di Dio),
è allora far uscire, sprigionare tutta la vita, l’energia, la forza, che
abbiamo ora dentro di noi, perché una vita “viva” è lode a Dio, una vita
vissuta bene è un canto a Colui che è la Vita. È in questo modo che i legami di
vita, intrecciati sulla terra, rimarranno vivi per sempre; poiché la vita di
ora, liberata, sciolta dalle catene di morte, sublimata, rimarrà viva e libera nell’Amore
per sempre.
Le
relazioni quaggiù a volte finiscono per tanti motivi: scelte diverse, egoismo,
incomprensioni, lontananza, morte. Le relazioni finiscono, ma non l’amore. “A-more” (alfa privativo e mors, mortis) vuol dire infatti “non-morte”. Se la nostra vita è stata Amore,
vissuta nell’Amore, saremo vivi per sempre, saremo per sempre uniti con chi
abbiamo amato. Anzi, nell’aldilà, non rimarrà nient’altro che la forza di attrazione
dell’Amore: ecco perché non dobbiamo temere di perdere le persone amate, perché
è nell’amore che rimarranno per sempre parte di noi, indissolubilmente legati a
noi. Vivere l’amore è vivere Cristo, è vivere il Vivente, è vivere Colui che ci
fa vivere in eterno.
Gli
apostoli, una volta liberi dai loro schemi religiosi, capiscono finalmente chi è
Gesù; e andranno per il mondo a predicare e testimoniare esattamente questo: “Lui
ci fa vivere! Lui è la Vita! Lui è vivo!”.
E
concludo: nella vita non dobbiamo mai perdere di vista Dio-Amore: deve essere
Lui il nostro vero obiettivo, Colui che merita tutta la nostra attenzione, i
nostri interessi. Il nostro vivere da cristiani, le nostre preghiere, la nostra
messa domenicale, la nostra carità, sono solo dei mezzi che ci devono portare a
Lui: anche se efficaci e fondamentali, rimangono pur sempre dei mezzi; e se
questi mezzi non ci fanno vivere, se non
riescono ad andare oltre i semplici “riti”,
se non riescono a metterci in contatto vivo con Lui, sono assolutamente
inutili. Non servono a nulla!
Così
quando entriamo in chiesa, dobbiamo entrarci solo per incontrare Lui, non per
fare intrattenimento o promozione personale; dobbiamo entrare per ossigenarci, per
consentire alla Vita di scorrere più forte e più viva dentro di noi; perché è
lì, ascoltando le sue parole, pregando e parlando con Lui, che riusciremo a
scoprire nuovi spazi di vita per noi e per il mondo. Perché, in questo modo,
una volta usciti, ci sentiremo più motivati, più vivi, più pronti ad affrontare
la vita: è qui fuori, infatti, nel mondo, nella società e non in chiesa, che siamo
chiamati a tradurre l’Amore in gesti concreti a beneficio dei fratelli. Dio è
Vita e Amore: ed Egli vive ed è presente esattamente dove noi esprimiamo Vita e
Amore. Amen.
«Ed ecco una donna Cananèa, che
veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di
Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse
neppure una parola» (Mt 15,21-28).
Dopo l’attraversata
del lago di Genezareth, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone costituiscono
infatti la “regione pagana” per eccellenza, e Gesù si porta in quei luoghi affinché
anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) si sentano invitati alla tavola del
suo regno.
Ed è
là che incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe
al potere; e anche se i Giudei li consideravano gente inferiore, in realtà erano
superiori ad essi in ricchezza e benessere. Gesù quindi, dando retta ad una
non-ebrea, ascoltandola e curandola, ha voluto dimostrare di essere il medico indistintamente
di tutti ed è venuto per tutti, ebrei e non ebrei.
La
donna dunque si rivolge a Gesù: “Mia figlia è tormentata crudelmente da un
demonio”. Un approccio iniziale piuttosto perentorio, che implica una soluzione
immediata da parte sua. Per questo Gesù finge di non sentirla, non le rivolge
parola! Anzi di fronte alla sua richiesta si mostra indifferente, quasi crudele.
In pratica le dice: “Non mi interessi; non è un problema mio! Non mi seccare!”.
Un atteggiamento, quello di Gesù, che a prima vista potrebbe sembrare negativo:
non ce lo saremmo aspettato, non risponde all’immagine che ci siamo fatti di lui
(sempre buono, disponibile, solerte guaritore di tutti, ecc.).
La
risposta di Gesù, secca e rifiutante, va però letta più in profondità: egli
vuole, cioè, indicarci una delle regole comportamentali che dobbiamo sempre adottare
nel nostro relazionarci col Padre: l’umiltà. Le parole della donna infatti lasciano
supporre in lei la pretesa di un immediato intervento risolutore di Gesù: “se è
coerente con la sua normale prassi di guarire indistintamente tutti i bisognosi,
egli “deve” farlo anche nel mio caso; pretenderlo è un mio diritto”.
Niente
di più sbagliato: nessun diritto da vantare, nessuna pretesa, devono insinuarsi
nella mente di chi si accinge a rivolgere a Dio una preghiera, una richiesta di
aiuto. Questo ci sottolinea Gesù; e questo egli sembra dire alla donna: “Guarda
che le cose non stanno come tu pensi; non è questo il modo di comportarsi: Io non
sono qui per obbedire ai tuoi ordini!”.
Andando
poi ancor più in profondità nella nostra lettura, possiamo ricavare altre
considerazioni interessanti: per esempio, la donna va da Gesù per chiedere la
guarigione della figlia; ma forse è un controsenso, perché l’ammalata sembra
essere più lei che la figlia; è lei che Gesù deve guarire, perché è lei che
deve cambiare il suo atteggiamento “malato” nei confronti della figlia.
Gesù
infatti, con la sua indifferenza, sembra confermarle esattamente ciò: “Tua
figlia non è posseduta dai demoni come tu sostieni: se tua figlia è ammalata è
perché fra te e lei c’è un problema di relazione. Sei tu che devi lavorare e
guarire a questo proposito; non pretendere da me una soluzione magica”. E per
scuoterla, Gesù arriva addirittura a offenderla: “Non è bene prendere il pane
dei figli per gettarlo ai cagnolini”; in altre parole: “Tu sei un cane e niente
pane ai cani!”. Anche qui i soliti benpensanti vedono una grave offesa di Gesù,
che paragona ad un “cane” una donna che dimostra un grande carico di
sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.
Ma
invece di scandalizzarci, dobbiamo chiederci: perché Gesù è così rigido, duro, “cattivo”,
spietato? È proprio necessario? Ebbene sì; in certe situazioni, bisogna essere
tremendamente “ruvidi”, poiché le semplici esortazioni non servono a nulla. San
Benedetto raccomanda all’Abate: “percute
filium tuum virga, et liberabis animam eius a perditione! – picchia tuo figlio col
bastone e gli salverai l’anima” (Regula).
In certe casi la situazione è talmente radicata, fossilizzata,
sclerotizzata che solo un violento strattone può cambiare qualcosa. In certi
casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità
da vedere è così sconvolgente, che non si può andare “con le buone”, poiché per
affrontare certe verità bisogna essere profondamente scossi e motivati.
Se di
fronte a gravi inadempienze non reagiamo positivamente, se rimaniamo indifferenti
e buoni solo perché abbiamo paura di ferire l’altro oppure perché temiamo di
perdere il suo amore, allora la nostra non è “bontà”, ma solo paura,
indecisione, incapacità di educare. Se amiamo veramente, sapremo affrontare per
amore anche quelle situazioni più scabrose, che magari portano a conseguenze che
non vorremmo ci succedessero mai.
Per
sua fortuna la donna cananea capisce il comportamento di Gesù: non si ferma al “no”,
né alla durezza della sua risposta. Avrebbe potuto dire: “Beh, se mi rispondi
così, vuol dire che non sei il maestro generoso che tutti osannano. Un maestro caritatevole
non risponderebbe così, non si permetterebbe mai di trattare i bisognosi in
questo modo”. Lei insomma non fa l’offesa, capisce la lezione; e questo la
salva: “È vero Signore, il pane dei figli non va gettato ai cagnolini, ma anche
i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
Improvvisamente la sua presunzione cade: lei è pagana, ricca, ha cibo e pane in
abbondanza, contrariamente ai Giudei che soffrono la fame; essi però dispongono
di un “altro” pane, hanno la Salvezza, hanno Gesù dalla loro; e lei, ricca, no.
Per questo anche lei, come un cagnolino, aspira ad avere da Gesù almeno le
briciole, di poter anche lei aspirare alla salvezza, esattamente come loro. Lei
soffre per la mancanza “di questo pane”; è una necessità che finalmente la pone
allo stesso umile livello di tanti altri “affamati”. A questo punto la donna non
vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio
disagio, ma si accorge che anche altri, forse proprio a causa sua, soffrono e
stanno male.
Questo
vangelo ci deve aiutare a non assolutizzare il nostro male, il nostro dolore, i
nostri problemi, per non essere come quella donna che vede solo il suo dolore,
e non vede quello degli altri, quello di chi giornalmente è trattato con ingiustizia.
Dobbiamo imparare a guardare a tutte le sopraffazioni che capitano nel mondo, senza
fermarci solamente su quelle che capitano a noi.
C’è poi
ancora qualcosa che deve farci veramente riflettere. La figlia della donna è
malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca nemmeno, non si
comporta come in tutte le altre guarigioni, addirittura neppure la vede. Ammalata
è la figlia, ma lui guarisce la madre.
“Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si
realizzi in te ciò che tu desideri nel profondo del tuo cuore; tu conosci la
verità; sei tu che soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo
qualcosa che tu, in tutta sincerità e umiltà, speri avvenga”. Parole che ci
confermano che la “malattia” della figlia è la madre: è lei che, con il suo
modo di rapportarsi con la figlia, l’ha resa invalida, l’ha resa in condizioni precarie.
E Gesù, che aveva capito il problema, con le sue parole fa pensare all’esistenza
di una situazione familiare ben più complessa. Ovviamente non siamo in grado di
conoscere le vere problematiche di questa famiglia; possiamo però risalire ad alcune
eventualità.
Prima
di tutto il testo non fa riferimento all’esistenza di un padre. Il padre, nella
famiglia, ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei
primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è
accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e
per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che
gradualmente stacca il figlio da questo legame “unico” madre-figlio, in modo da
consentirgli di fare la propria vita, di intraprendere la propria strada. Ma
qui il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non
c’è, il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il
richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall’altra sente il dolore
della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il padre, questi
potrebbe sostenere la propria madre, ma non c’è. Se ci fosse, il papà potrebbe
insegnargli l’autonomia, l’andare nel mondo. Ma non c’è.
Ciò
che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la
madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti nostro Signore non ci
avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno. Quello che un genitore non fa,
non può essere fatto dall’altro. Il padre dona l’energia e i valori maschili
(se li ha!) e la madre l’energia e i valori femminili. Ogni mancanza non può
essere compensata dall’altro. Ci si prova, ma con risultati sempre
insufficienti. Ogni mancanza crea inesorabilmente uno squilibrio, checché se ne
strombazzi oggi con tanta squallida sicumera (sedicenti “famiglie” composte da due
madri, da due patri ecc.!)
Quindi,
tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, allora potremmo
pensare che si tratti di una donna che ha investito tutta la sua esistenza
sulla figlia; una donna che ha cercato di supplire chi non c’è; una donna che
non vive neppure la propria vita, tanto è presa dalla figlia. Il “demonio” che
opprime la figlia, allora, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente
solo in funzione della figlia: troppo amore è infatti talvolta fatale quanto e
forse più della mancanza d’amore.
Altro
particolare: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine
possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che sua figlia
è il prolungamento di se stessa, la sente sua, sente che la figlia continuerà o
farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e quindi rimette in lei tutte le sue
più intime aspettative, i sogni che non sono mai diventati realtà. Usa la
figlia per sé, per dimostrare la sua rivincita nei confronti della società.
Più
sotto infatti viene chiarito questo concetto: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. È
chiaro: la madre non nutre la figlia come dovrebbe, come ne avrebbe bisogno. Siamo
nella situazione opposta alla precedente. La “malattia” della figlia non è
nient’altro che la sua protesta per la “fame” d’amore che la tormenta. La madre
ha altri “cagnolini” a cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé,
dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, e non rifornisce sufficientemente
la figlia di amore autentico.
La
madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi, ha bisogno dello shopping, di
trovare degli svaghi, delle compensazioni, perché non trova soddisfazione dall’essere
madre. Ha bisogno forse di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente.
In ogni caso, toglie il pane dell’amore alla figlia che ne rimane senza. Per
questo la figlia protesta: ha fame d’amore. Tutto qui.
Ciò
che è chiaro in entrambi i casi è che la figlia soffre perché la madre non la
nutre secondo il suo bisogno. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché
la madre si rapporta con lei in maniera non sana.
Per
risolvere la situazione Gesù, infatti, non cura la figlia ma la madre. Quando
la madre è curata, la figlia guarisce: “Da
quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò
che è meraviglioso in questo è che la donna riconosce la verità: “Sì, è vero,
tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i
cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato mia figlia”.
A
volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci dei genitori perfetti. Un figlio
è la cosa più cara che abbiamo (il nostro mito e il nostro modello) e tutti noi
vorremmo che ci dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno
dato tutto e non hanno sbagliato in niente”.
In
realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la
vita è per se stessa imperfetta. Quando ci accorgiamo che i nostri figli
soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e dentro di noi neghiamo decisamente
questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. Se accettassimo che diamo già
un sacco d’amore ai nostri figli, che facciamo tutto quello che possiamo,
quello di cui siamo capaci, quello che siamo in grado di fare, allora potremmo anche
accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave.
Potremmo
accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni,
certi comunque che possiamo cambiare, e che comunque sono figli della Vita.
Potremmo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l’importante
è esserne consapevoli. Potremmo accettare che il nostro amore non è sempre
amore, e lo dobbiamo pertanto elevare.
Per tutto questo dobbiamo
guardare con profondo rispetto e stima a questa donna, perché ha saputo
riconoscere il proprio errore: e per questa sua umiltà la figlia è stata
salvata, e lei stessa è guarita. Ecco: dobbiamo imparare da lei. Amen.
«La barca intanto distava già
molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era
contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare.
Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un
fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo:
«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).
Il
vangelo di oggi è un vangelo forte, potente. Il testo segue immediatamente
quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci di domenica scorsa. Ricordate?
Era stato un grande successo: con cinque pani e due pesci Gesù sfamò cinquemila
“uomini” (oltre ovviamente donne e bambini). Notizie così sensazionali
circolano con estrema rapidità, e quindi, molto probabilmente, Gesù temeva l’azione
degli sbirri di Erode, e ordina quindi ai discepoli di allontanarsi, di salire
in barca e di raggiungere in fretta la riva opposta del lago: Egli ha sempre
cercato infatti di evitare il più possibile noie e problemi con le autorità
costituite: meglio fuggire, scappare, piuttosto che affrontare un “confronto”
diretto, offrendo loro il pretesto per intervenire contro la sua persona e di
quanti lo seguivano. D’altronde Gesù e i suoi amici erano personaggi di giorno
in giorno sempre più famosi, stimati, ammirati e seguiti: tutti li volevano
vedere, li volevano seguire, facendo crescere il loro ascendente, il loro
successo, e questo non stava bene ai romani, sempre timorosi di insurrezioni.
E che
fa Gesù per evitare che questo delirio crescente della folla travolga i suoi?
Dopo la sbornia di “successo” condivisa con lui (erano stati i discepoli gli
incaricati della “distribuzione”), Gesù li sottrae da questo pericolo, li manda
in barca, e congeda la folla.
Bisogna
riportarli alla realtà. Dopo l’esperienza esaltante, su quella barca essi devono
sperimentare anche altre esperienze, quelle traumatiche e contrarie. Lì infatti
essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, senza la presenza
rassicurante di Gesù. Saranno soli, in balia delle onde: e lì ciascuno dovrà
essere solo se stesso, ciascuno dovrà trovare in se stesso la forza e le
energie per combattere.
Un
chiaro insegnamento per tutti noi. Tutti, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo
bisogno di solitudine, di momenti in cui stare da soli con noi stessi, perché
ci sono cose che solo noi viviamo, situazioni e momenti della nostra vita in
cui nessuno può raggiungerci. Magari gli altri ci potranno stare anche vicini,
ma non potranno darci una mano, perché si tratta di esperienze che nessuno
potrà condividere. Saremo soli, e da soli dovremo trovare la soluzione.
È la
“notte fonda”, cui allude il vangelo: e prima o poi arriverà anche per noi: la
tempesta che si profilava da tanto tempo all’orizzonte, improvvisamente si
abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo
costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo
con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo in balia del vento
impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi
violentissimi.
A
questo punto sarà impossibile far finta di nulla, inutile aspettare che altri
intervengano per noi: sono i nostri “mostri”, sono i nostri momenti decisivi
della vita, e solo noi potremo affrontarli; solo noi potremo e dovremo fare i
conti con la nostra coscienza; solo noi potremo conoscere e dominare le nostre
ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a
indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre (non è possibile). Non
c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure
giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” tutto sugli altri. Non
possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti.
Arriva il momento in cui dobbiamo stare soli con ciò che viviamo, con ciò che abbiamo
dentro. È la nostra vita! È quel particolare momento della nostra vita in cui tutto
sembra perduto, ci sentiamo persi, senza riferimenti, non sappiamo più dove
andare, dove sbattere la testa, tutto sembra crollarci addosso: non vediamo più
alcuna luce, non abbiamo più alcuna speranza. Come Pietro sentiamo solo l’infuriare
della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata,
improvvisamente crolla, viene meno. Ci sentiamo impotenti, paralizzati, tutto
sembra inutile, tutto sembra irrecuperabile.
E
invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante,
di assolutamente meraviglioso: “amate le vostre tempeste”. Guardatele in
positivo: certo le tempeste non sono mai belle, ma – ci sottolinea il vangelo –
sono decisamente utili, necessarie: sono dure, difficili, ma essenziali. Sono
come certe medicine o certe operazioni chirurgiche: amare, dolorose, però
indispensabili per la salute del paziente. Incontriamo le tempeste perché dobbiamo
cambiare assolutamente rotta: senza, noi continueremmo per la nostra strada,
nel nostro tragitto, nella direzione che ci siamo scelta, che spesso però non
coincide con la volontà di Dio, con la direzione che Dio vuole per noi: soltanto
una seria “tempesta” può farci cambiare direzione; solo una tempesta – momento
chiave della nostra vita - può offrirci un momento di autentico incontro con Dio;
un momento in cui finalmente nasce qualcosa di nuovo e ci rimette completamente
nelle sue mani, ci restituisce alla fede autentica. Benedetta tempesta, allora.
Ben venga!
Certo,
all’inizio, difficilmente capiremo che proprio in quella tempesta ci aspetta Dio:
invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio,
una disdetta, una disfatta, un dramma. E avremo paura. Ma in realtà è Dio. È
Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge
in questi “luoghi deserti”, in queste “tempeste”. E lo fa non perché ci vuole
male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo. Perché vuole
che siamo più autentici, più sinceri, più convinti.
È in
questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”. Anche se fanno
paura, anche se sono pericolose, anche se sono drammatiche. Inutile
tergiversare, rimandare: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di
dover prendere in mano la propria vita, con il terrore di doverci confrontare
con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una
forma nostra, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo
alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno), siamo cioè dei parassiti.
Ad un
certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare:
“è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio
di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra
disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al
nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando
siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase
importante quel “sono io”: il verbo eim° in greco indica sì un presente
ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io
sono colui che sarà”). In altre parole, Lui è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È
l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore,
se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede:
Pietro riesce a camminare sopra la tempesta, la domina. Se abbiamo vera fede, ciò
che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa
affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un
miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci
toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è
con noi. E noi ci crediamo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica,
incrollabile, per non ripetere l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui egli
distoglie lo sguardo da Gesù e guarda al pericolo, a quanto gli succede
attorno, gli viene meno la fede, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione,
più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. Così nei
drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo;
ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver
paura. Affrontiamo tutto insieme, affidati a me”.
E
concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non
facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non
so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E sentiremo vibrare nel
cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa oggi succeda, io
ci sono, non aver paura, sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore
scaramantico, fatto a scanso di eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta
fiducia in Lui, per poter affrontare serenamente la vita. Poiché fintanto che Lui
è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Nella
vita del resto non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura,
dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla
fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente,
perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi
sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è
camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo. Diceva un saggio: «Bussarono
alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La
fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si
Deus pro nobis, quis contra nos? – Se
Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa sia la nostra certezza quotidiana. Amen.
«Dopo aver ordinato alla folla
di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al
cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i
discepoli alla folla» (Mt 14,13-21).
Di fronte
al pericolo di morte per mano di Erode, che lo credeva il Battista redivivo, Gesù
scappa in un luogo deserto, ma la gente, affrontando disagi e difficoltà, lo segue.
Gesù dona libertà e amore: le persone lo sanno e per questo lo seguono
dovunque. Non si può non seguire chi ti ridà il comando della tua vita! Ma un luogo deserto è pur sempre deserto. Gesù vede questa folla affaticata e ne ha
compassione (in greco: “ha viscere di
madre”); passa in mezzo a loro guarendo i malati per tutto il giorno; ma giunta
la sera i discepoli si pongono un problema: come e dove può andare a mangiare
tutta quella gente? E lo fanno presente a Gesù: il quale, alla loro preoccupazione,
risponde con una frase ambigua: “Date voi stessi da mangiare”. Parole che, a
ben vedere, contengono un significato che va oltre l’evidenza del momento: in realtà
Gesù non fa altro che anticipare quello che poi avverrà. Ma non allude solo
alla distribuzione materiale del cibo: con l’invito di “sfamare” loro stessi tutta
quella gente, Egli li invita a donare loro stessi, a mettersi cioè completamente
a disposizione del prossimo, a donare carità e amore, perché questo è l’unico alimento
che dà vita .
Possiamo
infatti donare agli altri tutto quello che di materiale abbiamo: tutti nostri
averi, i nostri soldi, i nostri servizi; ma l’unico vero, autentico dono, è
dare noi stessi, il nostro amore, la nostra disponibilità, la nostra
generosità, assicurando loro insomma l’esserci, il nostro essere lì, sempre
presenti. Ci sono persone “generose” infatti che donano agli altri di tutto, l’inimmaginabile,
ma esse rimangono sempre lontane, distaccate, in una parola non “si danno”.
Fare invece
di noi stessi un dono per i fratelli, è ciò che dà il vero senso alla nostra vita;
la rende utile, significativa, dona energie profonde a chi è in difficoltà, consentendogli
di affrontare ciò che è duro, ostile. Una vita non donata, risparmiata, trattenuta,
distaccata, è una vita sprecata.
Ma
torniamo al racconto del vangelo: Gesù dunque, fatta accomodare la folla, si trova
davanti ad una miseria di cibo: cinque pani e due pesci, per sfamare una quantità
di oltre cinquemila persone, fanno ridere, sono davvero un niente. Ma non è il
caso di scoraggiarsi, insegna Gesù: ciò che da solo sembra poco, se messo insieme
(a Lui), diventa molto, anzi moltissimo, diventa più che sufficiente per tutti.
Il poco, se è condiviso, se è messo in “comunione”, diventa sempre tanto. Verità sacrosanta!
Ma da
questo vangelo possiamo trarre anche altri insegnamenti pratici, concreti.
Prima
di tutto ci dice che ogni impresa,
piccola o grande che sia, inizia da poco, da niente (cinque pani e due
pesci!). Dobbiamo solo fidarci di noi e di Gesù, Vita per eccellenza. I grandi
fondatori, i grandi santi, hanno iniziato la loro missione da poco, partendo da
zero, nella solitudine più completa: poi le loro opere si sono affermate e
moltiplicate in tutto il mondo. Hanno avuto fede nella iniziativa divina:
invece noi quante volte abbiamo paura, rimaniamo paralizzati, ci ritraiamo di
fronte a ciò che dovremmo fare! Anche solo guardare avanti, proporsi di seguire
qualche buona ispirazione, al delinearsi di qualche minima difficoltà, ci
scoraggiamo immediatamente, ci perdiamo d’animo, ci blocchiamo, andiamo in tilt e rinunciamo a tutto. Purtroppo il nostro
dramma è che guardiamo sempre ciò che siamo nel presente, e non consideriamo mai
ciò che invece possiamo diventare. È come avere a disposizione una piccola
quantità di grano. Che ce ne facciamo di tanto poco? Giusto la farina per impastare
un po’ di pane: veramente poco, un nulla. Ma se noi quei pochi chicchi li
seminiamo, ben presto ci troveremo di fronte un’altra realtà, toccheremo cioè con
mano come da poco, da nulla, si possa ottenere tantissimo! Ecco: questa è anche
la realtà della nostra vita; noi non siamo soltanto ciò che siamo, ma siamo soprattutto
ciò che possiamo diventare: esattamente come un chicco di grano può diventare una
grossa spiga.
Altro
insegnamento: più si condivide e più le
cose si moltiplicano (è questo il senso della “moltiplicazione”). Più si
mette insieme e più i miracoli si avverano. Se ognuno fa la sua parte, l’impossibile
diventa possibile. Pensiamo per un attimo alle “maratone” televisive di
Telethon o di quando si raccolgono fondi per far fronte ad improvvise calamità
nazionali: un euro a testa e si raccolgono milioni di euro. Oppure più semplicemente
pensiamo a quel che succede quando organizziamo una cena tra amici, e ciascuno deve
portare qualcosa: c’è da mangiare sempre per tutti e quello che avanza è sempre
in grande quantità.
Lo
stesso vale per le persone: pensiamo infatti alle tantissime risorse personali disponibili
nelle nostre comunità: c’è chi ha capacità organizzative, chi ha spazi a
disposizione, chi sa lavorare manualmente, chi è più preparato culturalmente, chi
sa lavorare con il computer, chi sa parlare, insegnare: riusciamo a immaginare cosa
succederebbe se tutti mettessero realmente a disposizione degli altri le proprie
risorse, le proprie esperienze, ciò che ognuno sa fare? Veri miracoli. Ebbene: poiché
la società del benessere tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a
singolarizzarci per ridurci senza forza, noi al contrario dobbiamo sempre più unirci,
metterci insieme, aiutarci, condividere, mettere a disposizione degli altri ciò
che personalmente siamo e possiamo offrire. Perché è così che possiamo
veramente compiere veri miracoli: perché la condivisione di idee genera la moltiplicazione di soluzioni; la
condivisione delle nostre capacità genera la moltiplicazione delle iniziative; la condivisione dei sentimenti
genera la moltiplicazione della pace.
Quante volte invece sentiamo dire: “Non lo fanno gli altri, perché devo farlo io”.
Beh, forse per qualcuno può essere anche giustificabile, ma se continuiamo a
ragionare così, non si arriverà mai a nulla.
Infine
un ultimo insegnamento del vangelo di oggi: prendiamo
atto di ciò che siamo e ringraziamo Dio. Se accettiamo umilmente ciò che siamo,
siamo già sulla buona strada, perché da lì parte la nostra trasformazione.
Ogni
domenica a Messa, sentiamo ricordare i gesti e le parole del vangelo di oggi: “prese i pani, rese grazie e li distribuì”.
Ma l’importante è capire che ogni domenica, in chiesa, noi non prendiamo solo
il pane eucaristico, ma prendiamo nelle nostre mani anche la nostra vita così
com’è, e dobbiamo ringraziare Dio per questo grande dono.
Capita
spesso invece che, guardando alla nostra vita, ne rimaniamo delusi: “Non sono
proprio nulla! Cosa posso pretendere da me?”. Praticamente non accettiamo di
vederci chiamati a condividere i nostri cinque
pani e due pesci, con gli altri cinquemila
fratelli; non accettiamo di venire sollecitati magari dall’esempio degli altri,
da quanto fanno i nostri vicini, i nostri amici, tutti quelli che frequentano
la nostra parrocchia, in una parola tutte le persone che vivono con fede la
loro chiamata. Allora giustifichiamo la nostra inattività con i confronti: “Io
non ho il loro talento, non ho la forza, non ho la loro volontà, la simpatia, la
cultura; non ho la loro esperienza, la fantasia, il dinamismo, le loro
qualità...”. In pratica ci nascondiamo dietro un dito; giustifichiamo le nostre
paure, evidenziando le qualità che riconosciamo negli altri e non in noi stessi.
Alla fine però, il vero vincente non è colui che si ferma a guardare gli altri,
ma colui che, prendendo coscienza delle proprie potenzialità, impegna
seriamente i propri carismi, le proprie forze, costruendo la vittoria con i
fatti e non con le buone intenzioni.
Allora,
invece di lamentarci, pensiamo piuttosto a cosa potrebbe succedere se accettassimo
quel poco che siamo, se cominciassimo seriamente a benedirlo, a valorizzarlo, a
metterlo a frutto. Impariamo sul serio a valorizzare e ad amare ciò che siamo!
E ringraziamo comunque Dio!
Anche
i discepoli non credevano nelle loro possibilità: di fronte a quella folla e
all’invito di Gesù di sfamarla con la miseria che avevano tra le mani, sicuramente
si saranno messi a ridere; o avranno pensato: “Ma dai, Gesù, non prendiamoci in
giro!”. Ma poi… conosciamo il finale! Ebbene, pensiamo seriamente a quello che
succede ancora oggi, ogni volta che andiamo a Messa: Gesù ripete lo stesso miracolo
della “moltiplicazione”, trasforma la sostanza di quel pane, che è ben poca
cosa, nel suo Corpo, e lo divide fra tutti. Un niente che diventa “Tutto per
tutti”. E non basta: oltre al pane, Gesù trasforma anche noi, uno per uno, singolarmente:
perché, assumendolo, Egli ci tocca dentro, ci scuote, ci commuove: basta
saperlo ascoltare; il suo è un tocco d’Amore che ci cambia il cuore, ci
travolge l’anima, ci impedisce di essere quelli di prima, ci guarisce, ci
risana; insomma ci fa diventare “nuovi”, radicalmente diversi.
E se
crediamo, allora ci accorgeremo che quel niente, quel nulla che siamo, con Lui diventa
ogni volta davvero tantissimo, una immensità! Amen.
«Il regno dei cieli è simile a
un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di
gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è
simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla
di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,44-52).
Il
vangelo di oggi ci presenta tre piccole parabole: tesoro, perla e rete. La
prima e la seconda sono molto affini. Anche se Gesù le deve aver dette in
occasioni diverse, il tema è lo stesso: imbattersi in qualcosa di grande valore.
E su queste vorrei fissare l’attenzione.
L’uomo
della prima parabola è un contadino che un giorno, mentre ara un campo, trova un
tesoro prezioso, una grande fortuna: vende tutto quello che ha e compra quel
campo. La seconda parabola racconta invece di un commerciante alla ricerca di
perle preziose. Trovatane una particolarmente splendida, vende tutto pur di
comprarla
Il
primo uomo trova il tesoro casualmente; il secondo, la trova dopo una lunga e
accurata ricerca. Ciò che conta è che entrambi trovano qualcosa dal valore
assoluto, di fronte al quale tutto il resto svilisce. Non c’è prezzo per ciò
che trovano, non c’è niente che tenga di fronte alla scoperta, non c’è
confronto o paragone con nessun’altra cosa di fronte a quella perla e a quel
tesoro.
Entrambe
le parabole ci dicono in sostanza che Dio, il regno dei cieli, non è automaticamente
raggiungibile, è un tesoro che va comunque cercato, perché è un qualcosa di
meraviglioso, di incredibile, un qualcosa che non è paragonabile a niente: è talmente
importante che per ottenerlo è preferibile distaccarsi da tutto quello che
abbiamo. Insomma è una realtà talmente affascinante che ci assorbe e coinvolge completamente:
e quindi dobbiamo puntare e investire tutto in Lui.
Ma in
cosa consiste questo regno dei cieli?
È il Dio che ci abita dentro. Una volta che lo abbiamo incontrato, che lo
abbiamo sperimentato, sarà impossibile lasciarlo. Perché Lui ci stima, ci ama, ci
spinge ad osare, a diventare noi stessi, a realizzarci, a cercare. Ci fa sentire
vivi, vibranti; con Lui ritroviamo la nostra autonomia di vita e di pensiero,
diventiamo liberi, vinciamo le paure, ci incamminiamo nel sentiero dell’autenticità,
e sentiamo il fuoco della vita e dell’amore dentro di noi.
È
impossibile dimenticarlo, perché Dio imprime un segno indelebile dentro di noi.
Quando ci parlano di Lui, su come trovarlo e mantenerlo, sentiamo insistere
continuamente sulla necessità di preghiere, di riti, di liturgie appropriate: ma
Dio non è un qualcosa di statico, fermo, immobile, che aspetta le nostre
incensazioni. Dio è dinamismo, è un “incontro”. A volte casuale, a volte voluto
disperatamente. E, incontratolo, non è difficile seguirlo, non è affatto
impegnativo, non richiede da parte nostra un grande sacrificio: perché Lui con
la sua presenza ci riempie il cuore, la vita, ci inebria, ci fa innamorare, ci
dà ciò che nessun altro può darci. Lui è amore, è passione che travolge, è
necessità di vita. Perché gli apostoli lo seguivano? Perché lui era per loro come
l’aria, era la vita, era tutto.
Dio,
dunque, è il nostro tesoro nascosto: ma
noi? cosa cerchiamo noi? Lui è là che ci aspetta, ma a noi quanto importa? Certo,
se continuiamo a cercare soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, tranquillità, non
ci accorgeremo mai di Lui: il tesoro è lì vicino, ma non lo troveremo mai,
perché cerchiamo altro, siamo attratti da tante altre cose.
Scendiamo
nel concreto: chi o che cosa cerchiamo
noi in realtà? Meglio: dove cerchiamo?
Perché se pensiamo che la felicità risieda in qualche persona, o in qualcosa “fuori”
da noi, cercheremo invano, continueremo a cercare tutta la vita senza trovare nulla,
perché ciò che cerchiamo non è fuori
di noi ma dentro di noi. Il tesoro è nascosto
in noi; siamo noi stessi il tesoro: è
quell’immagine, quella somiglianza divina, impressaci da Dio fin
dalla nascita, che noi con la nostra vita dobbiamo scoprire e fare nostra ad
ogni costo. La perla siamo noi. Ecco perché dobbiamo cambiare metodo di
ricerca, ecco perché la nostra vita deve necessariamente cambiare. Anche se gli
altri ci deridono, anche se ci prendono per fuori di testa.
Anche
i due uomini del vangelo si comportano da folli, da pazzi, pur di entrare in
possesso del “tesoro”: lasciano il certo per l’incerto, vendono tutto quello
che hanno, si liberano di tutto, pur di arrivare a quel tesoro di cui ancora
non conoscono il valore. Cose da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, per i folli,
perché non ci chiede qualcosa, ma pretende
tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale,
lo vuole tutto, lo vuole completo.
Tutte
le cose che possiamo conquistare durante la nostra vita, hanno certamente un
valore, ma è un valore legato alla provvisorietà:
ci coinvolgono sul momento, per poi dimostrarsi effimere, e cadere nell’indifferenza,
nella dimenticanza, nella caducità; perdono insomma la loro attrattiva, il loro
interesse, il loro richiamo. Ci sono anche eventi molto importanti che ci
segnano per tutta vita, è vero; fatti che ci cambiano intimamente, in
profondità: come l’amore sincero del partner, un matrimonio felice, la nascita
dei figli; ma anche queste realtà così vitali sono destinate, prima o poi, a finire,
a concludersi: i figli stessi, pur coinvolgendo profondamente tutta la nostra vita,
non sono per sempre: un giorno anch’essi
se ne andranno. Ebbene, Dio è molto di più di tutte queste cose “transitorie”: più
coinvolgente di un figlio, più importante di un partner, più impegnativo di un
matrimonio. Egli non esclude dalla nostra vita niente di tutto questo; Egli ci
lascia godere di tante cose belle, essenziali per la nostra vita: ma ciò che oggi
dobbiamo capire dal vangelo, è che Lui è la “cosa” più bella in assoluto: che
Lui viene al primo posto nella scala dei valori, è più importante di tutto, al
di sopra di tutto, perché Lui va oltre i nostri limiti: non esiste per Lui un
“termine” temporale, dopo il quale verrà meno, sparirà, lasciandoci soli. Una
volta che l’avremo trovato – e per trovarlo dobbiamo rinunciare a tutto - Egli rimarrà
per sempre nostro, nostro in assoluto,
continuerà ad essere sempre per ciascuno di noi il “tesoro prezioso”, anche oltre il tempo, oltre i nostri giorni
terreni.
Dio infatti
non è un qualcosa di esterno, di altro
da noi; ripeto: Dio non è una preghiera o una professione di fede; non è un credo
o un sistema di riti. Dio è Qualcuno che ci prende totalmente, che ci
coinvolge, che ci vuole trasformare, cambiare, che non ci farà più essere quelli
di prima, che cambierà radicalmente il nostro modo di pensare, di sentire, di
vivere. Dio non vuole un’ora di preghiera al giorno; Dio non vuole una parte
(magari anche grande) della nostra vita: lui la vuole tutta. Lui vuole “sposarsi”
con noi, vuol fare alleanza con noi, vuole
rapirci, prenderci, assorbirci completamente.
Però
per trovare questo Tutto, e concludo,
dobbiamo essere disposti a giocarci il tutto.
Si narra in proposito che un giovane monaco facesse ogni giorno la stessa
domanda al suo maestro: “Come posso trovare Dio, il “tesoro” del vangelo?”. E
ogni giorno riceveva la stessa risposta: “Devi desiderarlo”. “Ma io lo desidero
con tutto il mio cuore, eppure non lo trovo!” insisteva il discepolo. Un giorno,
mentre entrambi si stavano lavando nel fiume, il maestro prese la testa del
giovane tra le mani, la spinse sott’acqua, e ve la tenne con forza mentre il
poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi. Il giorno dopo fu il
maestro a domandare: “Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la
testa sott’acqua?”. “Perché cercavo disperatamente l’aria!”, rispose. “Ebbene:
quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l’aria,
allora l’avrai trovato!”. È tutto chiaro, vero? Se lo cerchiamo anche noi in
questo modo, sicuramente lo troveremo. Amen.
«Il regno dei cieli è simile a
un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti
dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne
andò.» (Mt 13,24-43).
È la
parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i
discepoli non l’abbiano capita, ma perché non vogliono capirla così com’è, non
sono cioè d’accordo con Gesù. Infatti, è una parabola scomoda, per certi
aspetti irritante, perché prospetta una realtà di difficile gradimento.
C’è un
uomo che ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico di notte semina
la zizzania. La zizzania è una graminacea - molto simile al frumento e quindi impossibile
da distinguere finché non arriva a maturazione - i cui grani nerastri sono
tossici e hanno un effetto narcotizzante. Il riferimento al male è evidente. È
naturale che la prospettiva dei buoni (i discepoli) di dover convivere con i cattivi
(i “nemici”di Gesù) non è condivisa dai primi. Sarebbe preferibile metterli immediatamente
fuori causa. Ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania)
a priori, sul nascere, si corre il
grosso rischio di estirpare anche il grano,
poiché le radici di entrambi gli elementi sono strettamente intrecciate l’un
l’altra. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo
tenere l’uno e l’altro”; e soprattutto “Non
sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va coltivato e cosa no.
Praticamente,
con questa parabola, Gesù mette in guardia gli apostoli dalla tentazione,
sempre presente in ogni comunità religiosa, da che mondo è mondo, di sentirsi gli
autentici rappresentanti della buona novella, i soli protagonisti, cioè, in
grado di formare un gruppo di eletti,
di gente superiore, di elementi migliori,che pensano di essere i soli meritevoli
della “salvezza”. Dio però, dice Gesù, non fa queste differenze, non divide i
buoni dai cattivi; Egli “fa sorgere il
suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra
gli ingiusti”.
Per
tutta la sua vita Gesù ha infatti combattuto contro questa “presunzione”, contro
quelli che si ritenevano giusti, bravi, buoni e che condannavano tutti gli
altri come peccatori, come gente persa, sbagliata, da convertire o da
condannare. Farisei, scribi e maestri della Legge erano davvero maestri in
questo: ma la stessa tentazione iniziava ad insinuarsi anche fra gli apostoli, proprio
perché, seguendo il maestro da vicino, si ritenevano in qualche modo superiori
agli altri, più degli altri, e rischiavano di cadere nello stesso errore.
Un
errore, questo, una ideologia, che ha avuto grande seguito nei secoli
successivi, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, quanti “difensori”
della fede e di Dio hanno ucciso, condannato, fatto guerre per estirpare il
male, gli “eretici” del mondo? La fanatica volontà di fare il bene a tutti i
costi, di eliminare ogni male, ha creato guerre sante, rivoluzioni, epurazioni,
stermini razziali, camere a gas, inquisizioni, la caccia alle streghe e le
peggiori crudeltà. Una religione che si ritenga superiore alle altre è una
religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità crea inferiorità, crea
pregiudizi, condanne e divisioni: buoni e cattivi, gente salvata e gente
condannata. Ma Dio, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha mostrato un Dio come
questo; anzi Lui è venuto per tutti, per salvare tutti, proprio tutti.
Cosa suggerisce
allora, in particolare, questa parabola a noi, discepoli di oggi? Che quel campo siamo noi, e che nel nostro campo, nella nostra vita, convivono grano
e zizzania. È un dato di fatto. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di
essere soltanto grano scelto. Siamo purtroppo
anche zizzania, a volte della peggiore, e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci
e amarci anche nei nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di
non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo
predisporre la mietitura finale.
“Sei
grano e zizzania”, ci conferma Gesù. “Se vuoi essere solo grano ed estirpare tutto il non-bene che c’è in te, non ti rimarrà
niente di niente. Accettati con le tue potenzialità, con i tuoi doni, con le
tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Quindi,
non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in
assoluto”.
Gesù,
con questa parabola, vuole infatti rispondere a tutti i perfezionisti, a tutti coloro cioè che pretendono e cercano in loro
stessi il puro bene, il puro amore, la pura fede, la pura
preghiera: tutte cose che da sole, divise dal male, dalla debolezza, dalla
caducità umana, non esistono.
Per
questo motivo dobbiamo individuare bene in noi, quale tipo di perfezione stiamo cercando. È
importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la
volontà di Dio; un altro è mirare alla perfezione
(=“fare-per, fare-per-uno-scopo”) da
“perfezionista”, avendo cioè come
risultato, quello di soddisfare sempre più il nostro “ego”, aumentando a dismisura la nostra autostima, attraverso il
riconoscimento e l’ammirazione degli altri. Il perfezionista, peraltro, è monolitico: divide il mondo in buoni e
cattivi. Punto. Non ci sono mezze misure per lui. La sua vita è continuamente sotto
stress, in ansia; le sue vertiginose aspirazioni lo fanno sentire incompleto,
insoddisfatto, perché in ogni caso la sua ricerca è volta al finito, non all’infinito, a Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato solo all’esterno:
non si chiede mai cosa gli comanda la sua coscienza, cosa gli suggerisce il suo
cuore e, soprattutto, cosa gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
Perfezione, per noi cristiani, è dunque attuare,
concretizzare nella nostra vita, in semplicità e umiltà, quel progetto che Dio
ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma fatto a nostra
misura, che tiene conto di tutti i nostri difetti, di tutte le nostre miserie,
di tutte le nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio
da persone nient’affatto perfette: peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli
non teme i nostri errori; Egli teme invece
quando noi partiamo per la tangente e, insofferenti del nostro stato (un mix di
grano e zizzania), vogliamo diventare “perfetti” oltre ogni misura, pretendendo
di estirpare da subito la zizzania, stravolgendo la nostra “umanità”.
Un
santo monaco raccontava in proposito: «Un giorno anche il demonio volle provare
a creare un uomo. Disse: “Voglio creare un essere perfetto, bello, puro,
incontaminato dal male e dal negativo”. Ma dopo averlo creato lo guardò e
iniziò a dubitare. Aveva gli occhi e poteva vedere le nudità delle donne: “Oddio,
che pericolo”, disse tra sé. Così glieli tolse. Ma aveva anche le mani e
avrebbe potuto usarle per derubare i suoi simili, uccidere e ferire: “Oddio che
rischio”, e gliele tolse. Ma poi si accorse che aveva la mente: e la mente può
essere ancor più crudele, può ingannare, può essere menzognera, può organizzare
crudeltà immani. E così per sicurezza gliela tolse, e per essere sicuro e non
sbagliare gli tolse tutta la testa, “perché non si sa mai!”. Infine si accorse
che l’uomo aveva un cuore: “Oddio!”, questo era veramente il pericolo più
grande. “Un cuore!? Con il cuore può lasciarsi andare alle passioni, può
lasciarsi trasportare dall’ira, può innamorarsi di persone sbagliate, può amare
in modo perverso. È troppo pericoloso il cuore. Per il suo bene glielo devo
togliere”. E così glielo tolse, e dell’uomo non rimase nulla, proprio nulla.
Per salvarlo, l’aveva ucciso».
L’uomo
“perfetto” dunque non esiste: tutti noi siamo esposti ad ogni tipo di prova:
l’importante è superarle e trasformarle tutte in opere d’amore.
Dopo
la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò
le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli
sorrise, ma con un velo di tristezza gli disse: “È vero, ma sono anche vuote”.
Allora
non perdiamo tempo ad angustiarci per non essere puri, immacolati, senza ombra
alcuna. Accettiamo umilmente la nostra debolezza, la nostra imperfezione; concentriamoci
piuttosto sul nostro “grano” da coltivare
e far comunque crescere. Ecco, questo è l’importante; perché possiamo fare un
sacco di bene, possiamo mirare alla perfezione, anche se nella nostra vita, nel
nostro campo, c’è tanta, ma tanta “zizzania”!
Amen.
«Per questo a loro parlo con
parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono…»
(Mt 13,1-23).
Siamo
nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Che succede
qui esattamente? Gesù parla in “parabole”, servendosi cioè di storielline
tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli
riusciva più facile (e gli riesce ancora oggi) far capire i suoi profondi
insegnamenti anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la
parabola infatti può essere giudicata puerile, un po’ stupida, da chi si
ritiene “superiore”, da chi la accantona a priori, non volendo lasciarsi coinvolgere;
ma è profondissima e comprensibilissima per chi vi entra dentro con il cuore; se
non la capiamo, vuol dire che il nostro cuore è chiuso, è ottuso: è perché non
la vogliamo capire. “Chi ha orecchi intenda”: c’è tanta luce per chi vuol
vedere, e tanto buio per chi non vuol vedere.
Per
ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo
dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci,
cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da
quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la
nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la
spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo
su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo
decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene:
la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge
sul terreno la semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la
strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai
venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo
è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente
una protezione per quella parte di seme che cade sulla poca terra che li ricopre; ma in fretta il seme inaridirà; in realtà i sassi rappresentano
i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria;
sono le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta
una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto
da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una
vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente
forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse
pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene
soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto
terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto
in tutta la sua potenzialità.
Bene:
noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di
esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per
esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a
finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che,
nonostante tutto quello che ho fatto, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante
volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato,
ma non è successo assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne
rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo
gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero
che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è
sempre una piccola parte che nasce, cresce, e col tempo matura. Quindi di
fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che
proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il
nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un
risultato consolante.
Possiamo
poi entrare nella stessa parabola mettendoci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo
chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno
sono nato? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno
su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà
destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi,
sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora:
“che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In che cosa devo crescere, cosa
devo far vivere, sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella che è
solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? Qual è il mio carisma?” È
molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo che non
si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, è la copia di un qualcosa
che già c’è: è quindi inutile.
Del
resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è
niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io
nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti
dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare,
presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un
seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo
nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una nostra risposta!
C’è
infine una terza possibilità nel leggere questa parabola: quella cioè di
metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porsi sono: “Che
terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso
di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme),
ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo
per esempio questo principio a tutti coloro che si avvicinano a questo “commento”:
è impossibile che esso produca per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni
sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente
pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il
vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti
in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima:
vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle
persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”.
Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora
saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle
adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo
forte e invadente: “Ma credi ancora a queste cose? Ma sì, è uno che parla tanto,
ma non tiene conto che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio
appena nato, morirà. È il terreno “con le
spine”.
Può
darsi infine che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito
di Dio, escano da questa pagina completamente rinnovati; in futuro non saranno
mai più come sono entrati. Il motivo? Perché hanno riconosciuto in queste povere
parole la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso
testo di commento, lo stesso passo del vangelo, hanno ottenuto risultati
diversi: perché sono le persone a non
essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma le credenze, le chiusure, i
blocchi, i pregiudizi delle persone no. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno.
Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del
terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se
noi riconoscessimo di essere insieme tutti e quattro i terreni di questa
parabola? Allora essa ci aiuterebbe comunque ad affrontare e ad accettare,
oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Non
dobbiamo pensare di essere dei falliti, guardando ai frutti negativi prodotti
dalla nostra vita; perché i pochi risultati positivi sono già sufficienti a
dare un senso a tutta una vita.
E
concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non portiamo frutto in ogni settore
della nostra vita. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente aridi.
Dobbiamo certo provare continuamente a migliorare, ad essere più accoglienti,
ma non pretendiamo la perfezione in assoluto: perché anche una piccola parte
sana, una piccolissima parte fertile e fruttifera della nostra anima, deve bastare
ad infonderci coraggio, a farci guardare avanti con fiducia e umiltà: non
deprimiamoci, non rinunciamo a combattere: perché la nostra vita ha comunque un
senso, ha comunque uno scopo, nonostante i nostri fallimenti, i nostri insuccessi,
le nostre aridità. Una piccola fecondità (un terreno su quattro) - ci insegna
il vangelo - è già di suo una grande fecondità. Amen.