Il vangelo di oggi è un vangelo forte, potente. Il testo segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci di domenica scorsa. Ricordate? Era stato un grande successo: con cinque pani e due pesci Gesù sfamò cinquemila “uomini” (oltre ovviamente donne e bambini). Notizie così sensazionali circolano con estrema rapidità, e quindi, molto probabilmente, Gesù temeva l’azione degli sbirri di Erode, e ordina quindi ai discepoli di allontanarsi, di salire in barca e di raggiungere in fretta la riva opposta del lago: Egli ha sempre cercato infatti di evitare il più possibile noie e problemi con le autorità costituite: meglio fuggire, scappare, piuttosto che affrontare un “confronto” diretto, offrendo loro il pretesto per intervenire contro la sua persona e di quanti lo seguivano. D’altronde Gesù e i suoi amici erano personaggi di giorno in giorno sempre più famosi, stimati, ammirati e seguiti: tutti li volevano vedere, li volevano seguire, facendo crescere il loro ascendente, il loro successo, e questo non stava bene ai romani, sempre timorosi di insurrezioni.
E che fa Gesù per evitare che questo delirio crescente della folla travolga i suoi? Dopo la sbornia di “successo” condivisa con lui (erano stati i discepoli gli incaricati della “distribuzione”), Gesù li sottrae da questo pericolo, li manda in barca, e congeda la folla.
Bisogna riportarli alla realtà. Dopo l’esperienza esaltante, su quella barca essi devono sperimentare anche altre esperienze, quelle traumatiche e contrarie. Lì infatti essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, senza la presenza rassicurante di Gesù. Saranno soli, in balia delle onde: e lì ciascuno dovrà essere solo se stesso, ciascuno dovrà trovare in se stesso la forza e le energie per combattere.
Un chiaro insegnamento per tutti noi. Tutti, ad un certo punto della nostra vita, abbiamo bisogno di solitudine, di momenti in cui stare da soli con noi stessi, perché ci sono cose che solo noi viviamo, situazioni e momenti della nostra vita in cui nessuno può raggiungerci. Magari gli altri ci potranno stare anche vicini, ma non potranno darci una mano, perché si tratta di esperienze che nessuno potrà condividere. Saremo soli, e da soli dovremo trovare la soluzione.
È la “notte fonda”, cui allude il vangelo: e prima o poi arriverà anche per noi: la tempesta che si profilava da tanto tempo all’orizzonte, improvvisamente si abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo in balia del vento impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi violentissimi.
A questo punto sarà impossibile far finta di nulla, inutile aspettare che altri intervengano per noi: sono i nostri “mostri”, sono i nostri momenti decisivi della vita, e solo noi potremo affrontarli; solo noi potremo e dovremo fare i conti con la nostra coscienza; solo noi potremo conoscere e dominare le nostre ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre (non è possibile). Non c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” tutto sugli altri. Non possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti. Arriva il momento in cui dobbiamo stare soli con ciò che viviamo, con ciò che abbiamo dentro. È la nostra vita! È quel particolare momento della nostra vita in cui tutto sembra perduto, ci sentiamo persi, senza riferimenti, non sappiamo più dove andare, dove sbattere la testa, tutto sembra crollarci addosso: non vediamo più alcuna luce, non abbiamo più alcuna speranza. Come Pietro sentiamo solo l’infuriare della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata, improvvisamente crolla, viene meno. Ci sentiamo impotenti, paralizzati, tutto sembra inutile, tutto sembra irrecuperabile.
E invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante, di assolutamente meraviglioso: “amate le vostre tempeste”. Guardatele in positivo: certo le tempeste non sono mai belle, ma – ci sottolinea il vangelo – sono decisamente utili, necessarie: sono dure, difficili, ma essenziali. Sono come certe medicine o certe operazioni chirurgiche: amare, dolorose, però indispensabili per la salute del paziente. Incontriamo le tempeste perché dobbiamo cambiare assolutamente rotta: senza, noi continueremmo per la nostra strada, nel nostro tragitto, nella direzione che ci siamo scelta, che spesso però non coincide con la volontà di Dio, con la direzione che Dio vuole per noi: soltanto una seria “tempesta” può farci cambiare direzione; solo una tempesta – momento chiave della nostra vita - può offrirci un momento di autentico incontro con Dio; un momento in cui finalmente nasce qualcosa di nuovo e ci rimette completamente nelle sue mani, ci restituisce alla fede autentica. Benedetta tempesta, allora. Ben venga!
Certo, all’inizio, difficilmente capiremo che proprio in quella tempesta ci aspetta Dio: invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio, una disdetta, una disfatta, un dramma. E avremo paura. Ma in realtà è Dio. È Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge in questi “luoghi deserti”, in queste “tempeste”. E lo fa non perché ci vuole male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo. Perché vuole che siamo più autentici, più sinceri, più convinti.
È in questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”. Anche se fanno paura, anche se sono pericolose, anche se sono drammatiche. Inutile tergiversare, rimandare: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di dover prendere in mano la propria vita, con il terrore di doverci confrontare con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una forma nostra, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno), siamo cioè dei parassiti.
Ad un certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare: “è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo eim° in greco indica sì un presente ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io sono colui che sarà”). In altre parole, Lui è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede: Pietro riesce a camminare sopra la tempesta, la domina. Se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è con noi. E noi ci crediamo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica, incrollabile, per non ripetere l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui egli distoglie lo sguardo da Gesù e guarda al pericolo, a quanto gli succede attorno, gli viene meno la fede, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione, più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. Così nei drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo; ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Affrontiamo tutto insieme, affidati a me”.
E concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E sentiremo vibrare nel cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa oggi succeda, io ci sono, non aver paura, sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore scaramantico, fatto a scanso di eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta fiducia in Lui, per poter affrontare serenamente la vita. Poiché fintanto che Lui è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Nella vita del resto non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura, dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente, perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo. Diceva un saggio: «Bussarono alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si Deus pro nobis, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa sia la nostra certezza quotidiana. Amen.
Nessun commento:
Posta un commento