venerdì 15 agosto 2014

17 Agosto 2014 – XX Domenica del Tempo Ordinario

«Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,21-28).
Dopo l’attraversata del lago di Genezareth, Gesù si sposta in territorio pagano: Tiro e Sidone costituiscono infatti la “regione pagana” per eccellenza, e Gesù si porta in quei luoghi affinché anche i non circoncisi (cioè i non ebrei) si sentano invitati alla tavola del suo regno.
Ed è là che incontra una donna ellenica, una Cananea: gli ellenici erano la classe al potere; e anche se i Giudei li consideravano gente inferiore, in realtà erano superiori ad essi in ricchezza e benessere. Gesù quindi, dando retta ad una non-ebrea, ascoltandola e curandola, ha voluto dimostrare di essere il medico indistintamente di tutti ed è venuto per tutti, ebrei e non ebrei.
La donna dunque si rivolge a Gesù: “Mia figlia è tormentata crudelmente da un demonio”. Un approccio iniziale piuttosto perentorio, che implica una soluzione immediata da parte sua. Per questo Gesù finge di non sentirla, non le rivolge parola! Anzi di fronte alla sua richiesta si mostra indifferente, quasi crudele. In pratica le dice: “Non mi interessi; non è un problema mio! Non mi seccare!”. Un atteggiamento, quello di Gesù, che a prima vista potrebbe sembrare negativo: non ce lo saremmo aspettato, non risponde all’immagine che ci siamo fatti di lui (sempre buono, disponibile, solerte guaritore di tutti, ecc.).
La risposta di Gesù, secca e rifiutante, va però letta più in profondità: egli vuole, cioè, indicarci una delle regole comportamentali che dobbiamo sempre adottare nel nostro relazionarci col Padre: l’umiltà. Le parole della donna infatti lasciano supporre in lei la pretesa di un immediato intervento risolutore di Gesù: “se è coerente con la sua normale prassi di guarire indistintamente tutti i bisognosi, egli “deve” farlo anche nel mio caso; pretenderlo è un mio diritto”.
Niente di più sbagliato: nessun diritto da vantare, nessuna pretesa, devono insinuarsi nella mente di chi si accinge a rivolgere a Dio una preghiera, una richiesta di aiuto. Questo ci sottolinea Gesù; e questo egli sembra dire alla donna: “Guarda che le cose non stanno come tu pensi; non è questo il modo di comportarsi: Io non sono qui per obbedire ai tuoi ordini!”.
Andando poi ancor più in profondità nella nostra lettura, possiamo ricavare altre considerazioni interessanti: per esempio, la donna va da Gesù per chiedere la guarigione della figlia; ma forse è un controsenso, perché l’ammalata sembra essere più lei che la figlia; è lei che Gesù deve guarire, perché è lei che deve cambiare il suo atteggiamento “malato” nei confronti della figlia.
Gesù infatti, con la sua indifferenza, sembra confermarle esattamente ciò: “Tua figlia non è posseduta dai demoni come tu sostieni: se tua figlia è ammalata è perché fra te e lei c’è un problema di relazione. Sei tu che devi lavorare e guarire a questo proposito; non pretendere da me una soluzione magica”. E per scuoterla, Gesù arriva addirittura a offenderla: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”; in altre parole: “Tu sei un cane e niente pane ai cani!”. Anche qui i soliti benpensanti vedono una grave offesa di Gesù, che paragona ad un “cane” una donna che dimostra un grande carico di sofferenza, di dolore, di dramma, di disperazione.
Ma invece di scandalizzarci, dobbiamo chiederci: perché Gesù è così rigido, duro, “cattivo”, spietato? È proprio necessario? Ebbene sì; in certe situazioni, bisogna essere tremendamente “ruvidi”, poiché le semplici esortazioni non servono a nulla. San Benedetto raccomanda all’Abate: “percute filium tuum virga, et liberabis animam eius a perditione! – picchia tuo figlio col bastone e gli salverai l’anima(Regula). In certe casi la situazione è talmente radicata, fossilizzata, sclerotizzata che solo un violento strattone può cambiare qualcosa. In certi casi il costo del cambiamento è così alto e difficile da sostenere, la verità da vedere è così sconvolgente, che non si può andare “con le buone”, poiché per affrontare certe verità bisogna essere profondamente scossi e motivati.
Se di fronte a gravi inadempienze non reagiamo positivamente, se rimaniamo indifferenti e buoni solo perché abbiamo paura di ferire l’altro oppure perché temiamo di perdere il suo amore, allora la nostra non è “bontà”, ma solo paura, indecisione, incapacità di educare. Se amiamo veramente, sapremo affrontare per amore anche quelle situazioni più scabrose, che magari portano a conseguenze che non vorremmo ci succedessero mai.
Per sua fortuna la donna cananea capisce il comportamento di Gesù: non si ferma al “no”, né alla durezza della sua risposta. Avrebbe potuto dire: “Beh, se mi rispondi così, vuol dire che non sei il maestro generoso che tutti osannano. Un maestro caritatevole non risponderebbe così, non si permetterebbe mai di trattare i bisognosi in questo modo”. Lei insomma non fa l’offesa, capisce la lezione; e questo la salva: “È vero Signore, il pane dei figli non va gettato ai cagnolini, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Improvvisamente la sua presunzione cade: lei è pagana, ricca, ha cibo e pane in abbondanza, contrariamente ai Giudei che soffrono la fame; essi però dispongono di un “altro” pane, hanno la Salvezza, hanno Gesù dalla loro; e lei, ricca, no. Per questo anche lei, come un cagnolino, aspira ad avere da Gesù almeno le briciole, di poter anche lei aspirare alla salvezza, esattamente come loro. Lei soffre per la mancanza “di questo pane”; è una necessità che finalmente la pone allo stesso umile livello di tanti altri “affamati”. A questo punto la donna non vede più solo se stessa, il proprio dolore, il proprio problema, il proprio disagio, ma si accorge che anche altri, forse proprio a causa sua, soffrono e stanno male.
Questo vangelo ci deve aiutare a non assolutizzare il nostro male, il nostro dolore, i nostri problemi, per non essere come quella donna che vede solo il suo dolore, e non vede quello degli altri, quello di chi giornalmente è trattato con ingiustizia. Dobbiamo imparare a guardare a tutte le sopraffazioni che capitano nel mondo, senza fermarci solamente su quelle che capitano a noi.
C’è poi ancora qualcosa che deve farci veramente riflettere. La figlia della donna è malata, ma Gesù non guarisce la bambina. Gesù non la tocca nemmeno, non si comporta come in tutte le altre guarigioni, addirittura neppure la vede. Ammalata è la figlia, ma lui guarisce la madre.
Ti sia fatto come desideri”, cioè: “Si realizzi in te ciò che tu desideri nel profondo del tuo cuore; tu conosci la verità; sei tu che soffri perché ti manca qualcosa; e allora si avveri in te questo qualcosa che tu, in tutta sincerità e umiltà, speri avvenga”. Parole che ci confermano che la “malattia” della figlia è la madre: è lei che, con il suo modo di rapportarsi con la figlia, l’ha resa invalida, l’ha resa in condizioni precarie. E Gesù, che aveva capito il problema, con le sue parole fa pensare all’esistenza di una situazione familiare ben più complessa. Ovviamente non siamo in grado di conoscere le vere problematiche di questa famiglia; possiamo però risalire ad alcune eventualità.
Prima di tutto il testo non fa riferimento all’esistenza di un padre. Il padre, nella famiglia, ha il compito di staccare il figlio dalla fusione con la madre. Nei primi anni di vita è la madre il centro della vita del figlio: lei è accoglienza, casa, rifugio, rifornimento affettivo, amore. Inevitabilmente (e per fortuna!) il figlio si attacca alla madre. Poi interviene il padre che gradualmente stacca il figlio da questo legame “unico” madre-figlio, in modo da consentirgli di fare la propria vita, di intraprendere la propria strada. Ma qui il padre non c’è. Dov’è? Non sappiamo. Ma sappiamo che quando il padre non c’è, il figlio si trova in una posizione difficile: da una parte sente il richiamo della vita ad andare, a lasciare la casa, dall’altra sente il dolore della madre che si ritrova sola se lui se ne va. Se ci fosse il padre, questi potrebbe sostenere la propria madre, ma non c’è. Se ci fosse, il papà potrebbe insegnargli l’autonomia, l’andare nel mondo. Ma non c’è.
Ciò che insegna un padre non può essere insegnato dalla madre e ciò che insegna la madre non può essere insegnato dal padre. Altrimenti nostro Signore non ci avrebbe dato due genitori se ne bastava solo uno. Quello che un genitore non fa, non può essere fatto dall’altro. Il padre dona l’energia e i valori maschili (se li ha!) e la madre l’energia e i valori femminili. Ogni mancanza non può essere compensata dall’altro. Ci si prova, ma con risultati sempre insufficienti. Ogni mancanza crea inesorabilmente uno squilibrio, checché se ne strombazzi oggi con tanta squallida sicumera (sedicenti “famiglie” composte da due madri, da due patri ecc.!)
Quindi, tornando al vangelo, se in quella famiglia il padre non c’è, allora potremmo pensare che si tratti di una donna che ha investito tutta la sua esistenza sulla figlia; una donna che ha cercato di supplire chi non c’è; una donna che non vive neppure la propria vita, tanto è presa dalla figlia. Il “demonio” che opprime la figlia, allora, sarebbe per assurdo la stessa madre che vive maniacalmente solo in funzione della figlia: troppo amore è infatti talvolta fatale quanto e forse più della mancanza d’amore.
Altro particolare: la donna, riferendosi alla figlia, la definisce “mia”: un termine possessivo, che esprime una proprietà esclusiva. La donna sente che sua figlia è il prolungamento di se stessa, la sente sua, sente che la figlia continuerà o farà ciò che lei non ha fatto o vissuto, e quindi rimette in lei tutte le sue più intime aspettative, i sogni che non sono mai diventati realtà. Usa la figlia per sé, per dimostrare la sua rivincita nei confronti della società.
Più sotto infatti viene chiarito questo concetto: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini”. È chiaro: la madre non nutre la figlia come dovrebbe, come ne avrebbe bisogno. Siamo nella situazione opposta alla precedente. La “malattia” della figlia non è nient’altro che la sua protesta per la “fame” d’amore che la tormenta. La madre ha altri “cagnolini” a cui gettare il suo amore; la madre è troppo presa da sé, dalle sue paure, dal dover apparire una brava madre, e non rifornisce sufficientemente la figlia di amore autentico.
La madre ha bisogno del lavoro per realizzarsi, ha bisogno dello shopping, di trovare degli svaghi, delle compensazioni, perché non trova soddisfazione dall’essere madre. Ha bisogno forse di farsi bella, di apparire sempre giovane e attraente. In ogni caso, toglie il pane dell’amore alla figlia che ne rimane senza. Per questo la figlia protesta: ha fame d’amore. Tutto qui.
Ciò che è chiaro in entrambi i casi è che la figlia soffre perché la madre non la nutre secondo il suo bisogno. Ciò che è chiaro è che la figlia sta male perché la madre si rapporta con lei in maniera non sana.
Per risolvere la situazione Gesù, infatti, non cura la figlia ma la madre. Quando la madre è curata, la figlia guarisce: “Da quell’istante sua figlia fu guarita”.
Ciò che è meraviglioso in questo è che la donna riconosce la verità: “Sì, è vero, tutti hanno bisogno di cibarsi d’amore. Nessuno può rimanerne senza, neppure i cani. E io forse, senza volerlo, ho trascurato mia figlia”.
A volte noi genitori abbiamo bisogno di sentirci dei genitori perfetti. Un figlio è la cosa più cara che abbiamo (il nostro mito e il nostro modello) e tutti noi vorremmo che ci dicesse: “Mio padre, mia madre, sono stati perfetti, mi hanno dato tutto e non hanno sbagliato in niente”.
In realtà nessun genitore, nessun educatore, nessun maestro è perfetto, perché la vita è per se stessa imperfetta. Quando ci accorgiamo che i nostri figli soffrono a causa nostra, ci sentiamo in colpa e dentro di noi neghiamo decisamente questa verità. Non accettiamo di essere imperfetti. Se accettassimo che diamo già un sacco d’amore ai nostri figli, che facciamo tutto quello che possiamo, quello di cui siamo capaci, quello che siamo in grado di fare, allora potremmo anche accettare di fare degli errori, e non sarebbe così grave.
Potremmo accettare che a volte non li nutriamo e non incontriamo i loro veri bisogni, certi comunque che possiamo cambiare, e che comunque sono figli della Vita. Potremmo accettare che a volte pensiamo più a noi che a loro, ma che l’importante è esserne consapevoli. Potremmo accettare che il nostro amore non è sempre amore, e lo dobbiamo pertanto elevare.
Per tutto questo dobbiamo guardare con profondo rispetto e stima a questa donna, perché ha saputo riconoscere il proprio errore: e per questa sua umiltà la figlia è stata salvata, e lei stessa è guarita. Ecco: dobbiamo imparare da lei. Amen.
 

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