Gesù oggi, per la prima volta, annuncia la sua morte. Egli vuole cambiare il mondo, vuole cambiare la religione del suo tempo, vuole fare un mondo nuovo: ma per fare questo deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; egli deve andare là, anche se conosce perfettamente la situazione: egli sa che dovrà operare in un clima molto diverso rispetto a quello della Galilea, regione attuale della sua predicazione. Gesù sa che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad ogni costo.
Così, quando Gesù paventa la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro, mortale, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Questo non ti accadrà mai!”.
E qui scade il Pietro “beato” di domenica scorsa. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù sta andando nella sua direzione, a Gerusalemme. Deve compiere la sua missione: e Pietro che fa? lo “trae in disparte”, lo distoglie, cerca di tirarlo fuori dalla sua strada, lo “tenta”; gli dice: “No, non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il verbo “epi-timao” significa proprio questo.
Praticamente Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la sua vita, vuol dirgli cosa deve o non deve fare, e gli grida: “Tu Gesù non capisci, ti sbagli, non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia strada”. E in questo momento Pietro è satana.
Gesù si serve qui della stessa espressione: “Vattene, satana” che usa col tentatore, col diavolo nel deserto (Mt 4,10). E quel Pietro che era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”, ora improvvisamente qui è il demonio. Pietro qui è il diavolo, satana, il tentatore.
Esattamente come siamo noi quando ci ostiniamo, ci mettiamo contro, ostacoliamo, resistiamo al piano di Dio.
Satana nella Bibbia non è mai nemico di Dio ma degli uomini. È un ostacolo forte nella strada che conduce a Dio: “satana” (l’avversario), oppure il “diavolo” (colui che divide), è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma non è un’entità separata dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, sono una nostra proiezione, la nostra longa manus!
Certo, il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono perché noi li vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, di quando non ci evolviamo nell’Amore divino; di quando cioè nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; di quando i nostri impulsi prendono il sopravvento; di quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima e ci dominano. Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella nostra vita non riusciamo a spiegarci: sarebbe molto più comodo, piuttosto che accettare la realtà che tutti noi, e solo noi, possiamo essere “satana”, gli artefici del male.
Pietro, per esempio, nel momento in cui oggi si rivolge a Gesù, fa la parte di satana: è lo stesso, identico demonio con cui Gesù si è confrontato nelle tentazioni dopo il battesimo. Lì il demonio, con la sua voce interiore, cercava di distrarlo dalla sua missione; qui il demonio, con la voce di Pietro, fa esattamente la stessa cosa.
Dopo la lavata di testa a Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Un invito perentorio, le cui parole cruciali meritano di essere approfondite.
Prima di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”; letteralmente: “dica di no a se stesso”. Un’espressione che in passato ha fatto pensare che per raggiungere la perfezione fosse indispensabile rinnegare se stessi, perdere se stessi, ignorarsi; spendersi, esaurirsi completamente per gli altri, piuttosto che coltivare in noi quel seme personalissimo di vita che Dio ha posto in noi: per cui esaudire, ascoltare i bisogni del proprio cuore, appagare i propri desideri, cercare di realizzare i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, in contrasto con la fedele sequela di Cristo.
Ebbene, niente di tutto ciò: quel rinnegare, quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a qualunque cosa ci è d’inciampo sulla strada che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe, alle tentazioni del nostro io-satana che ci tormenta in continuazione!
Questa è la nostra croce: la croce- come dice Gesù – che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti, indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso.
Gesù ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è stato tanto il suo patibolo, la morte in croce: questo è stato il modo finale, la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha coraggiosamente portato, è stata quella di essere, lui Dio, fedele alla sua umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia fatta la tua volontà).
E questa è anche la nostra vera croce: l’essere anche noi fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre, senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una croce pesantissima, in quanto causa di scontri, opposizioni, rifiuto, odio. Ci saranno giorni in cui le nostre scelte, non allineate con le ideologie di massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, creeranno intorno a noi commiserazione, risentimento, odio.
La nostra croce, insomma, come per Gesù, è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo alla nostra vocazione, alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa non sottrarci alle possibili contrarietà, non ascoltare la voce della paura e del compromesso.
Poi Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste un’assicurazione-vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive così, non vive, perché tutta la sua vita è concentrato a conservare qualcosa, invece che mettere a frutto e sviluppare questo qualcosa.
Prima o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo che la nostra esistenza ha un senso. Il “suo” senso. Ha prodotto cioè quei frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo. Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la parte di noi interna, spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto, allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni; altrimenti no. Possiamo infatti dare tutto ai nostri figli, ma se non offriamo loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore, li perdiamo comunque in partenza. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione, onori, agli occhi degli altri; possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati da tutti, ma se dentro la nostra anima ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti, depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza, la gioia che viene da un’anima fedele a Dio, riconosciamolo, a che ci serve tutto il resto?
E Gesù conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono, spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete indispensabili per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci sentiamo così aridi, così inutili. Se non ci diamo tempo e spazio per stare con i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se non comunichiamo interiormente con loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non capiamo più il mondo, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi o fuori posto. Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso contare unicamente sulla bontà divina, buttando alle spalle qualunque richiamo della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di operare? Non vale forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per sapere almeno riconoscerla quel giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.
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