La catechesi del vangelo di oggi - tratta dal “ discorso ecclesiale”, uno dei cinque grandi discorsi di cui si compone il vangelo di Matteo - intende trasmettere alla nascente comunità cristiana di allora delle regole ben precise, delle norme, dei consigli, con i quali tradurre in pratica, in comportamenti di vita, la grande novità della predicazione di Gesù. Parole che ovviamente noi oggi non dobbiamo prendere alla lettera, poiché sono state scritte per uomini di oltre duemila anni fa, che vivevano in un determinato ambiente, in una determinata cultura molto diversa dalla nostra.
L’importante infatti per noi non è tanto rimanere fedeli a delle “regole” contingenti che mutano nel tempo, ma di fare nostro lo spirito di Gesù, che è quello che rimane fermo nei secoli.
Cosa ci rivela allora “lo spirito”, il senso profondo del testo di oggi? Che dobbiamo riservare agli altri un comportamento di umiltà, di sollecitudine, di attenzione, di discrezione. Il fatto che Dio sia presente in noi, che abiti nel nostro cuore, non lo dimostriamo certo attraverso una grande quantità di preghiere o dal numero di volte che invochiamo il suo nome, ma da come ci relazioniamo, da come ci comportiamo con le persone, da come stiamo con gli altri.
Così anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto con il nostro prossimo, non dobbiamo mai dimenticare, soprattutto in quei momenti, che il nostro dovere è quello di amare: può succedere infatti che, pur non litigando mai con nessuno, non arriviamo ad amare nessuno, oppure che, litigando continuamente, lo facciamo per amore. Tutto dipende se riusciamo ad imparare dalle nostre esperienze, se facciamo tesoro di quanto esse ci insegnao. Quante persone litigano per anni e anni sempre per lo stesso futile motivo? Vuol dire che non hanno mai imparato dalla loro esperienza, non si sono mai domandati il perché del loro comportamento: non hanno capito cioè che insistere nel loro litigare non serve, è inutile, fa solo male a loro e agli altri; non vogliono imparare, non vogliono crescere. La loro è una lotta tra sordi.
Il comportamento che dobbiamo pertanto ricavare dalle parole del vangelo, non è tanto quello della denuncia, del creare uno scandalo a tutti i costi, dello stendere in piazza i panni sporchi del fratello, bensì quello della carità, dell’amore, del rispetto che gli dobbiamo: perché se nostro fratello sbaglia, se ha dei problemi, è esattamente in questi momenti che ha maggior bisogno di noi, del nostro amore, della nostra amicizia: è soprattutto in questi frangenti che dobbiamo usargli ancor più delicatezza, gentilezza, attenzione, rispetto.
Questo infatti ci raccomandano le prime parole del testo: “Se c’è una questione irrisolta fra te e lui... va di persona da lui, incontralo da solo, a quattrocchi”. Quindi è d’obbligo la massima discrezione: un atteggiamento completamente nuovo, rivoluzionario, rispetto all’antica legge israelitica che al contrario imponeva l’obbligo del ricorso immediato alla pubblica denuncia.
Pertanto: c’è qualcosa che non condividiamo nel comportamento di qualcuno? Notiamo in lui qualcosa di stonato, qualcosa che riteniamo sconveniente, deplorevole? Andiamo da lui e parliamone: se non altro andandoci, ascolteremo la sua versione, le ragioni del suo agire, e forse ci ricrederemo; forse capiremo che le cose non stanno poi come noi pensavamo. Andiamo e constatiamo sempre di persona: non prendiamo mai per buono quello che dice la gente. Non comportiamoci in maniera infantile: non isoliamo, non scherniamo, non mettiamo alla berlina, non crocifiggiamo nessuno a priori. Spesso i comportamenti che noi condanniamo sono imposti da situazioni, o da cause di forza maggiore, che noi neppure immaginiamo. Dobbiamo tener presente, inoltre, che molto spesso le persone agiscono per paura, per fragilità, per ignoranza e non per cattiveria.
Pertanto, dobbiamo soprattutto imparare ad “ascoltare” il prossimo. Dobbiamo dargli credito, dobbiamo dargli fiducia. Per ben quattro volte Matteo insiste sul verbo “ascoltare”: “Se ti ascolterà... se non ti ascolterà vai con una, due persone... se non ti ascolterà, dillo all’assemblea..., se non ti ascolterà...”. L’ascolto, il colloquio, il chiarire fraternamente e privatamente qualunque malinteso con i fratelli, sono le basi per un corretto relazionarsi, sono le vie maestre della “carità” cristiana: perché la calunnia, la diffamazione, lo screditare subdolamente gli altri, dire male del prossimo, sono azioni di chiara provenienza satanica: solo Satana infatti male-dice, soltanto lui è una male-dizione per il mondo intero; al contrario mettere in luce il bene, incoraggiare, valorizzare, vedere sempre in positivo, dire bene del prossimo sono cose che vengono da Dio: egli infatti bene-dice tutti.
Per questo dobbiamo fare molta attenzione alle parole che escono dalla nostra bocca: perché esse rivelano sempre ciò che segretamente coltiviamo nel nostro cuore: se il nostro cuore è pieno di rabbia, di invidia, di risentimento, di dolore, dalla nostra bocca non potranno uscire che pregiudizi, maldicenze, insinuazioni. Se il nostro cuore invece è pieno di Dio, dalla nostra bocca non potrà uscire altro che espressioni di perdono, di misericordia, di carità, di amore.
Saper “ascoltare” i fratelli, assume quindi un’importanza fondamentale. Ma nella realtà, nelle nostre giornate passate con gli altri, come lo “viviamo” questo ascoltare? Ascoltiamo veramente o fingiamo di ascoltare? Ascoltiamo quello che gli altri ci dicono, oppure ascoltiamo soltanto ciò che vogliamo sentire? Riusciamo ad ascoltare le motivazioni dell’altro anche se dentro di noi abbiamo già deciso che ha sbagliato? Riusciamo ad ascoltare l’altro anche se noi per principio non cambiamo mai parere, se non vogliamo mai accettare punti di vista diversi dai nostri? Oppure lo ascoltiamo se mentre lui parla noi stiamo già pensando a come contraddirlo? Se abbiamo sempre le risposte pronte per tutte le domande, credendoci altrettanti Dio? Se siamo più preoccupati di cosa dirà la gente piuttosto che di lui e di quanto deve dirci?
Certo, tutto questo non è ascoltare: e se noi non ascoltiamo gli altri, come facciamo a dire loro che li amiamo?
La comunità di Matteo non era perfetta: c’erano sicuramente dei conflitti, delle incomprensioni, delle liti tra i vari componenti. Per questo egli qui sente il bisogno di ribadire: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”.
Del resto non esiste comunità, non esiste famiglia, in cui non vi siano tensioni, conflitti, scontri: la normalità sta proprio nella con-flittualità: si hanno pareri diversi, discordanti, si hanno esperienze diverse, ci sono problemi, crisi, difficoltà diverse. Ma non sempre litigare, entrare in conflitto, equivale a non amarsi: vuol dire soltanto che c’è diversità di vedute, di opinioni, che ci sono caratteri con sensibilità magari opposte, nient’altro. È un fatto naturale e inevitabile, che comunque non deve essere considerato un problema. Semmai il problema c’è quando due persone non litigano mai: vuol dire che una delle due si è conformata all’altra, si è spogliata della propria personalità. E non è certo arrivando a tanto che dimostriamo di amare veramente: ma l’amore in una famiglia, in una comunità, traspare solo dal modo con cui vengono affrontati e risolti questi conflitti, queste divergenze.
Il “modo” è un fattore determinante e decisivo: perché le tensioni e i conflitti sono ambivalenti: possono cioè essere causa di comunione ma anche di divisione, di unione o di rottura, di crescita o di separazione. Se infatti partiamo dal presupposto che in casa nostra deve sempre regnare l’armonia e la pace, se evitiamo d’autorità l’insorgere di qualunque parere contrario, è difficile, per non dire impossibile, crescere.
Ci sono infatti persone che pretendono di vedere sempre tutto roseo intorno a loro: persone che negano nella loro convivenza l’esistenza di qualunque conflittualità, pensano insomma che la loro comunità sia esente da qualunque problema… e questo è già di per sé un notevole problema! Altre persone invece sono così fragili, hanno un’identità così debole, che vedono in un semplice contrasto, in una salutare litigata, la fine stessa di un rapporto, un disastro universale, la prospettiva tragica di rimanere completamente sole. Ma entrambe le posizioni non rappresentano la normalità della vita.
Non spaventiamoci allora delle divergenze, delle lotte, dei conflitti. Semplicemente parliamone con gli altri, discutiamone; accettiamo di essere messi in discussione. Non è importante chi alla fine vince, anche se lo scopo primo di ogni nostro intervento e sempre quello di aver ragione. È naturale per noi essere portati a dominare l’altro, a dimostrare che noi siamo “più” in tutto, che abbiamo sempre ragione: questo è vero. Ma stiamo bene attenti: perché dove c’è uno che vince, c’è sempre uno che perde, ed è altrettanto naturale che chi perde si senta umiliato, sconfitto, messo all’angolo: e questo non è mai positivo, non produce mai aggregazione, unione.
Per questo è fondamentale, lo ripeto, ascoltarci: mettiamoci nei panni degli altri, mettiamoci dal loro punto di vista, usiamo nei loro confronti grande em-patia, grande sim-patia; spogliamoci delle nostre manie, perché se rimaniamo in esse non arriveremo mai ad ascoltare nessuno.
La maturità del nostro amore non si vede dal fatto che non creiamo mai screzi, che facciamo tutto insieme con il nostro partner; ma dal confrontarci in maniera sana nei momenti difficili. È il confronto che ci fa crescere, che matura il nostro amore.
Di conseguenza è altrettanto fondamentale imparare a difenderci quando ci attaccano, a mettere dei paletti quando oltrepassano il limite, ma anche imparare ad aprirci totalmente quando è possibile e quando troviamo fiducia; imparare a collaborare senza voler essere superiori agli altri, come pure ad esprimere quello che abbiamo dentro senza sentirci inferiori a nessuno.
Non c’è una scuola per tutto questo. C’è una scuola per tutto, ma non per imparare a convivere. E così le coppie scoppiano (stare in due è già gruppo), le famiglie vivono malesseri profondi, e le persone che hanno amicizie vere, forti e profonde, sono sempre meno.
Matteo per questo ci propone una frase bellissima di Gesù: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”. Notare il “mettersi d’accordo: “ac-cor-darsi”, vuol dire in pratica avere i cuori che battono tutti alla stessa frequenza; in greco è sin-fonia. L’accordo musicale infatti è formato da note diverse: ogni nota ha un suono diverso, ma messe insieme formano l’ac-cordo, la bellezza di una sinfonia. L’unità è quindi l’accordarsi, è cantare all’unisono con la stessa melodia, è quando i nostri cuori sono uniti, quando le nostre entità si fondono nell’intimità, nel segreto della nostra vita. E quando ciò avviene, ci dice il vangelo, sperimentiamo la presenza di una forza irresistibile, sperimentiamo tangibilmente la presenza di Dio in mezzo a noi.
L’unione di due persone non sta tanto nello sposarsi, nel quanto tempo stanno insieme, nel quante cose fanno insieme, ma nella profondità del loro stare insieme.
Di alcuni santi si dice che durante il loro parlare intimo, il loro colloquiare profondo con l’altro, giunsero ad una unione talmente con-sonante, da perdere completamente la cognizione del tempo: pensiamo per esempio a san Benedetto con santa Scolastica, a san Francesco con santa Chiara. Come mai noi nel nostro continuo parlare difficilmente creiamo unione? Semplice: perché noi non sperimentiamo la forza intima dell’amore, perché i nostri cuori non vibrano mai in profondità. Parlare del più e del meno, di quello che si è fatto in giornata, parlare del tempo, del vicino di casa, del lavoro, non crea unione, non ci guarisce, non ci sana, non ci fa incontrare dentro. Ciò che ci rende uniti, che ci salva, è quando ci offriamo all’altro completamente, in maniera totale e disarmante, nella nostra vulnerabilità, nelle nostre paure, nelle nostre imperfezioni. L’unione nasce infatti dal “metterci a nudo”, dal farci vedere per quello che siamo realmente, dal donarci vicendevolmente l’anima. Dobbiamo avere il coraggio di farlo e la fiducia di non essere traditi.
Si racconta di un giovane monaco che chiedeva all’abate: “Per quanto tempo dovrò aver cura di mio fratello?”. E l’abate rispose con quattro domande: “Quanto tempo ci vuole per fare una casa?”. Il discepolo rispose: “Un anno”. “Quanto tempo ci vuole per fare un albero?”. “Cinque anni”. “Quanto tempo ci vuole per poter fare un figlio?”. “Almeno quindici anni”. “E quanto tempo ci vuole per distruggere tutto questo?”. “Un attimo!”. “Ebbene: ci vuole tanto tempo per costruire, ma basta un attimo per distruggere. Fa in modo che questo attimo non avvenga mai tra te e tuo fratello”.
Quando parliamo, quando ci relazioniamo con gli altri, teniamo sempre presente questa regola e stiamo attenti a quell’attimo, in particolare a quello che diciamo; perché le parole possono essere come delle bombe: una volta innescate, scoppiano in un attimo. Amen.
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