Siamo nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Che succede qui esattamente? Gesù parla in “parabole”, servendosi cioè di storielline tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli riusciva più facile (e gli riesce ancora oggi) far capire i suoi profondi insegnamenti anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la parabola infatti può essere giudicata puerile, un po’ stupida, da chi si ritiene “superiore”, da chi la accantona a priori, non volendo lasciarsi coinvolgere; ma è profondissima e comprensibilissima per chi vi entra dentro con il cuore; se non la capiamo, vuol dire che il nostro cuore è chiuso, è ottuso: è perché non la vogliamo capire. “Chi ha orecchi intenda”: c’è tanta luce per chi vuol vedere, e tanto buio per chi non vuol vedere.
Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dovremmo comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci immerge di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare in esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
Ebbene: la parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge sul terreno la semente, e questa cade su quattro tipi di terreno. Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire. Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade sulla poca terra che li ricopre; ma in fretta il seme inaridirà; in realtà i sassi rappresentano i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; sono le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca. Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere, ma ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori. Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Bene: noi possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre comunque un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “quali sono le mie reazioni quando mi rendo conto che, nonostante tutto quello che ho fatto, non ho ottenuto alcun risultato?”. Quante volte ci troviamo in tale situazione: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non è successo assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato andrà disperso, è altrettanto vero che c’è sempre una piccola parte che nasce, cresce, e col tempo matura. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè essere certi che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi entrare nella stessa parabola mettendoci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono nato? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a morire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà impossibile una vita veramente fertile e positiva.
Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In che cosa devo crescere, cosa devo far vivere, sviluppare in me? Qual è la mia caratteristica, quella che è solo mia? In che cosa mi distinguo da tutti gli altri? Qual è il mio carisma?” È molto importante conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo che non si distingue dagli altri è soltanto una fotocopia, è la copia di un qualcosa che già c’è: è quindi inutile.
Del resto, un seme è pura potenzialità: in lui c’è praticamente tutto, ma non è niente se non viene piantato e non germoglia. “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far nascere?” Il vangelo infatti dice chiaramente che non ovunque il seme può nascere: ha bisogno di un humus particolare, presente solo in alcuni terreni. Inoltre: “Cosa vuol dire per me nascere?” Un seme per nascere deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa vuol dire questo nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una nostra risposta!
C’è infine una terza possibilità nel leggere questa parabola: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. E allora le domande da porsi sono: “Che terreno sono io?”. Che tipo di terreno penso di essere?” Gesù è molto chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce a modo suo.
Applichiamo per esempio questo principio a tutti coloro che si avvicinano a questo “commento”: è impossibile che esso produca per tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: sono “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi. Altri si sentiranno un po’ ricaricati e rigenerati, alleggeriti in parte dai loro problemi. Ma dopo qualche giorno si sentiranno come prima: vuoti, tristi e con gli stessi errori. È l’accusa che a volte viene fatta alle persone che vanno in chiesa: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale?”. Sono il terreno “sassoso”.
Altri ancora saranno toccati nel cuore dalle parole che hanno letto e vorrebbero tanto poterle adeguare alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, è troppo forte e invadente: “Ma credi ancora a queste cose? Ma sì, è uno che parla tanto, ma non tiene conto che la vita è un’altra cosa”. E così il mini germoglio appena nato, morirà. È il terreno “con le spine”.
Può darsi infine che alcuni di voi, toccati nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, escano da questa pagina completamente rinnovati; in futuro non saranno mai più come sono entrati. Il motivo? Perché hanno riconosciuto in queste povere parole la voce illuminante del Maestro. È il “terreno buono”.
Lo stesso testo di commento, lo stesso passo del vangelo, hanno ottenuto risultati diversi: perché sono le persone a non essere le stesse. Il vangelo è uguale per tutti, ma le credenze, le chiusure, i blocchi, i pregiudizi delle persone no. Non è quindi il seme quello che conta, ma il terreno. Il seme di Dio, uguale per tutti, trova un’efficacia diversa in funzione del terreno che lo accoglie. Ciò che per alcuni è tragedia per altri è comicità.
E se noi riconoscessimo di essere insieme tutti e quattro i terreni di questa parabola? Allora essa ci aiuterebbe comunque ad affrontare e ad accettare, oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti). Non dobbiamo pensare di essere dei falliti, guardando ai frutti negativi prodotti dalla nostra vita; perché i pochi risultati positivi sono già sufficienti a dare un senso a tutta una vita.
E concludo: Gesù ci accoglie e ci ama anche se non portiamo frutto in ogni settore della nostra vita. Gesù ci ama anche se in alcuni momenti siamo decisamente aridi. Dobbiamo certo provare continuamente a migliorare, ad essere più accoglienti, ma non pretendiamo la perfezione in assoluto: perché anche una piccola parte sana, una piccolissima parte fertile e fruttifera della nostra anima, deve bastare ad infonderci coraggio, a farci guardare avanti con fiducia e umiltà: non deprimiamoci, non rinunciamo a combattere: perché la nostra vita ha comunque un senso, ha comunque uno scopo, nonostante i nostri fallimenti, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Una piccola fecondità (un terreno su quattro) - ci insegna il vangelo - è già di suo una grande fecondità. Amen.
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