È la parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non l’abbiano capita, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con Gesù. Infatti, è una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà di difficile gradimento.
C’è un uomo che ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico di notte semina la zizzania. La zizzania è una graminacea - molto simile al frumento e quindi impossibile da distinguere finché non arriva a maturazione - i cui grani nerastri sono tossici e hanno un effetto narcotizzante. Il riferimento al male è evidente. È naturale che la prospettiva dei buoni (i discepoli) di dover convivere con i cattivi (i “nemici”di Gesù) non è condivisa dai primi. Sarebbe preferibile metterli immediatamente fuori causa. Ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) a priori, sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il grano, poiché le radici di entrambi gli elementi sono strettamente intrecciate l’un l’altra. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; e soprattutto “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va coltivato e cosa no.
Praticamente, con questa parabola, Gesù mette in guardia gli apostoli dalla tentazione, sempre presente in ogni comunità religiosa, da che mondo è mondo, di sentirsi gli autentici rappresentanti della buona novella, i soli protagonisti, cioè, in grado di formare un gruppo di eletti, di gente superiore, di elementi migliori,che pensano di essere i soli meritevoli della “salvezza”. Dio però, dice Gesù, non fa queste differenze, non divide i buoni dai cattivi; Egli “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”.
Per tutta la sua vita Gesù ha infatti combattuto contro questa “presunzione”, contro quelli che si ritenevano giusti, bravi, buoni e che condannavano tutti gli altri come peccatori, come gente persa, sbagliata, da convertire o da condannare. Farisei, scribi e maestri della Legge erano davvero maestri in questo: ma la stessa tentazione iniziava ad insinuarsi anche fra gli apostoli, proprio perché, seguendo il maestro da vicino, si ritenevano in qualche modo superiori agli altri, più degli altri, e rischiavano di cadere nello stesso errore.
Un errore, questo, una ideologia, che ha avuto grande seguito nei secoli successivi, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, quanti “difensori” della fede e di Dio hanno ucciso, condannato, fatto guerre per estirpare il male, gli “eretici” del mondo? La fanatica volontà di fare il bene a tutti i costi, di eliminare ogni male, ha creato guerre sante, rivoluzioni, epurazioni, stermini razziali, camere a gas, inquisizioni, la caccia alle streghe e le peggiori crudeltà. Una religione che si ritenga superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità crea inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: buoni e cattivi, gente salvata e gente condannata. Ma Dio, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha mostrato un Dio come questo; anzi Lui è venuto per tutti, per salvare tutti, proprio tutti.
Cosa suggerisce allora, in particolare, questa parabola a noi, discepoli di oggi? Che quel campo siamo noi, e che nel nostro campo, nella nostra vita, convivono grano e zizzania. È un dato di fatto. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di essere soltanto grano scelto. Siamo purtroppo anche zizzania, a volte della peggiore, e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche nei nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma Gesù. “Se vuoi essere solo grano ed estirpare tutto il non-bene che c’è in te, non ti rimarrà niente di niente. Accettati con le tue potenzialità, con i tuoi doni, con le tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Quindi, non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”.
Gesù, con questa parabola, vuole infatti rispondere a tutti i perfezionisti, a tutti coloro cioè che pretendono e cercano in loro stessi il puro bene, il puro amore, la pura fede, la pura preghiera: tutte cose che da sole, divise dal male, dalla debolezza, dalla caducità umana, non esistono.
Per questo motivo dobbiamo individuare bene in noi, quale tipo di perfezione stiamo cercando. È importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la volontà di Dio; un altro è mirare alla perfezione (=“fare-per, fare-per-uno-scopo”) da “perfezionista”, avendo cioè come risultato, quello di soddisfare sempre più il nostro “ego”, aumentando a dismisura la nostra autostima, attraverso il riconoscimento e l’ammirazione degli altri. Il perfezionista, peraltro, è monolitico: divide il mondo in buoni e cattivi. Punto. Non ci sono mezze misure per lui. La sua vita è continuamente sotto stress, in ansia; le sue vertiginose aspirazioni lo fanno sentire incompleto, insoddisfatto, perché in ogni caso la sua ricerca è volta al finito, non all’infinito, a Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato solo all’esterno: non si chiede mai cosa gli comanda la sua coscienza, cosa gli suggerisce il suo cuore e, soprattutto, cosa gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
Perfezione, per noi cristiani, è dunque attuare, concretizzare nella nostra vita, in semplicità e umiltà, quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma fatto a nostra misura, che tiene conto di tutti i nostri difetti, di tutte le nostre miserie, di tutte le nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio da persone nient’affatto perfette: peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli teme invece quando noi partiamo per la tangente e, insofferenti del nostro stato (un mix di grano e zizzania), vogliamo diventare “perfetti” oltre ogni misura, pretendendo di estirpare da subito la zizzania, stravolgendo la nostra “umanità”.
Un santo monaco raccontava in proposito: «Un giorno anche il demonio volle provare a creare un uomo. Disse: “Voglio creare un essere perfetto, bello, puro, incontaminato dal male e dal negativo”. Ma dopo averlo creato lo guardò e iniziò a dubitare. Aveva gli occhi e poteva vedere le nudità delle donne: “Oddio, che pericolo”, disse tra sé. Così glieli tolse. Ma aveva anche le mani e avrebbe potuto usarle per derubare i suoi simili, uccidere e ferire: “Oddio che rischio”, e gliele tolse. Ma poi si accorse che aveva la mente: e la mente può essere ancor più crudele, può ingannare, può essere menzognera, può organizzare crudeltà immani. E così per sicurezza gliela tolse, e per essere sicuro e non sbagliare gli tolse tutta la testa, “perché non si sa mai!”. Infine si accorse che l’uomo aveva un cuore: “Oddio!”, questo era veramente il pericolo più grande. “Un cuore!? Con il cuore può lasciarsi andare alle passioni, può lasciarsi trasportare dall’ira, può innamorarsi di persone sbagliate, può amare in modo perverso. È troppo pericoloso il cuore. Per il suo bene glielo devo togliere”. E così glielo tolse, e dell’uomo non rimase nulla, proprio nulla. Per salvarlo, l’aveva ucciso».
L’uomo “perfetto” dunque non esiste: tutti noi siamo esposti ad ogni tipo di prova: l’importante è superarle e trasformarle tutte in opere d’amore.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, ma con un velo di tristezza gli disse: “È vero, ma sono anche vuote”.
Allora non perdiamo tempo ad angustiarci per non essere puri, immacolati, senza ombra alcuna. Accettiamo umilmente la nostra debolezza, la nostra imperfezione; concentriamoci piuttosto sul nostro “grano” da coltivare e far comunque crescere. Ecco, questo è l’importante; perché possiamo fare un sacco di bene, possiamo mirare alla perfezione, anche se nella nostra vita, nel nostro campo, c’è tanta, ma tanta “zizzania”! Amen.
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