I discepoli sono terrorizzati. Cosa sta succedendo? Gesù è morto, lo hanno ucciso. Poi è risorto, molti di loro lo hanno rivisto, qualcuno lo ha anche toccato con mano. Infine, dopo averli incontrati in Galilea, se ne è andato definitivamente: “Ora che sarà di noi?”, si dicono perplessi. È un momento difficile per loro, un momento di crisi profonda, radicale, decisiva. E li possiamo capire. Quante volte anche a noi, trovandoci in una situazione altrettanto difficile, apparentemente senza sbocchi, non viene naturale pensare: “Ora che faccio?”.
Ma ecco la Pentecoste: cosa succede esattamente in questo giorno? Essi fanno un salto qualitativo decisivo, la loro vita subisce un totale sconvolgimento: da una comprensione del loro ruolo limitata, bassa, esteriore, terra-terra, passano ad un livello di cognizione decisamente superiore, profondamente interiore: dall’esteriorità passano cioè all’interiorità. Se prima si lasciavano guidare dai sensi, ora è il loro cuore, è ciò che hanno dentro che li illumina sul da farsi.
Questo passaggio di livello lo possiamo cogliere soprattutto nella prima lettura di oggi, tratta dagli Atti (sono essi e non i Vangeli che descrivono nel dettaglio la discesa dello Spirito sugli apostoli); e lo percepiamo attraverso l’analisi di tre immagini:
1. Il vento (At 2,2): non si tratta tanto di un vento esteriore, materiale, atmosferico, ma di un vento interno, un “soffio” spirituale. È il vento della libertà, dell’apertura, dell’amore; un vento che tutti possono avere: solo se uno ce l’ha, ha il coraggio di uscire, di esporsi al giudizio della gente, di affrontare le sfide, di osare, di rischiare, di esprimersi per quello che è, ecc. Se non abbiamo questo “vento” dentro di noi, siamo ancora nella stessa condizione degli apostoli prima della Pentecoste: pieni di paura (20,19).
2. Il fuoco (At 2,3): le lingue di questo fuoco non sono fisiche; è un fuoco che brucia dentro, una passione che ci arde l’anima. È la forza, il tormento, la tenacia, l’ardore, il coraggio; è “l’essere presi”; è il giocarci fino alla fine per una causa o un motivo, è l’entusiasmo, è la vitalità che ci brucia e arde dentro. Anche qui, se non abbiamo questo fuoco, continuiamo ad essere come gli apostoli prima della Pentecoste: freddi senza motivazioni, senza impulsi, rinchiusi in noi stessi.
3. Parlare le lingue (At 2,8-11): non è che di punto in bianco parlino materialmente tutte le lingue del mondo. Tutti li capiscono, è vero, qualunque sia il paese d’origine: ma ciò è possibile perché la nuova lingua che parlano, è la lingua del cuore, la lingua dell’amore; quella lingua che tutti capiscono, che fa rivivere, che fa vibrare l’anima, che parla al cuore.
Gesù non c’è più: a livello storico, materiale, Gesù non lo vedono più come prima, non gli possono parlare più come prima. Ma lo sentono con loro, dentro di loro, ad un altro livello, più alto, più spirituale: lo sentono dentro di loro come libertà, come passione, come coraggio, come amore; e da questo punto di vista, Lui è sempre con loro, più di prima.
Ma ritorniamo a noi: anche a noi serve un salto di qualità: serve anche a noi lo Spirito. Se continuiamo a rimanere sul livello esteriore, materiale, non avremo mai certezze, non avremo sicurezze, non avremo coraggio; perché è nell’intimo, è nello Spirito che ci inabita, che troviamo il coraggio di osare, di capire, di salire sempre più in alto.
Prendiamo per esempio l’andare in chiesa: se noi non facciamo un vero salto di fede, continueremo ad essere dei semplici esecutori materiali, distaccati e superficiali, di regole esteriori. Quello che sentiamo a livello materiale sarà pertanto: “Sono a posto, sono in “regola”. Ma siamo sufficientemente bravi anche per Dio?”. Se ci confrontiamo sul livello spirituale, infatti, sentiamo che Dio non è qualcuno da tenersi buono, per paura di castighi, ma qualcuno di cui innamorarsi, di cui appassionarsi; di qualcuno che per amore ci fa cambiare modo di pensare,di credere, di vivere.
Oppure guardiamo la nostra insoddisfazione: a livello materiale noi cerchiamo di risolverla distraendoci, divertendoci, magari con un viaggio, con questo o quello, pensando che ciò ci renderà felici; o magari pensando che si tratta di una cosa passeggera, che prima o poi passerà; quindi aspettiamo. A livello spirituale, invece, il traccheggiare, il rimandare, il perdere tempo, non esiste; dobbiamo fare un salto decisivo: perché se non troviamo un senso profondo per cui vivere, un motivo che catalizzi le nostre energie, saremo sempre insoddisfatti.
Cos’è allora che ci salva? Solamente se facciamo un salto al nostro interno. Se riusciamo cioè a dare un nuovo senso alla nostra vita, un senso più vero, più profondo, più spirituale, insomma diverso.
Il nostro compito primario – come ci insegna la Parola di oggi - è infatti quello di trasformare il materiale in spirituale. Il grande simbolo che ci deve ispirare è il Crocifisso. La croce è formata da due bracci: uno orizzontale e uno verticale. Su quello orizzontale ci sono le braccia aperte di Gesù che prende, accoglie, raccoglie, accetta tutto ciò che c’è nel mondo: odio, cattiveria, ingiustizia, morte, tradimento, ecc. Su quello verticale c’è la persona di Gesù che porta, eleva, trasforma tutto questo in opera di salvezza. Per questo possiamo dire che se la Croce, da un punto di vista materiale, storico, è un obbrobrio di ingiustizia, di sadismo, dal punto di vista spirituale è la nostra salvezza, è lo strumento con cui Lui ci salva. Gesù cioè per mezzo della croce dà un senso alle ingiustizie del mondo e all’odio stupido e ingiusto che riceve dall’umanità. Ma ciò che gli è capitato, ha un senso? Storicamente no, è una brutalità, una bestialità. Ma con la Pentecoste Gesù ci fa capire, trasforma il non-senso terreno della croce, in senso spirituale di salvezza, il non senso in opera di redenzione.
Gesù è il Sommo Sacerdote (sacrum facere=rendere sacre le cose). Gesù sacralizza questa umanità che lo ha ucciso e continua a ucciderlo. È Pontefice (pontem facere=gettare un ponte): è colui cioè che fa da ponte, che mette in contatto il materiale con lo spirituale, l’uomo peccatore con Dio Amore e misericordia.
Tutti noi siamo pertanto chiamati ad essere sacerdoti (pontefici): tutti noi dobbiamo trasformare il materiale in spirituale. Perché solo così tutto ciò che ci succede viene elevato, trasformato, sacralizzato. La materia diventa spirituale; ciò che è basso diventa alto e ciò che è senza senso inizia ad averlo per noi. E quando il sacerdote trasforma un po’ di pane (materia) in Corpo di Cristo (Spirito) e un po’ di vino (materia) in sangue di Cristo (Spirito), ci siamo anche noi su quell’altare, sacerdoti della nostra vita, per trasformare, elevare, sacralizzare i nostri giorni e ciò che ci succede. Tutto è spirituale per chi ha lo Spirito nel cuore. Tutto è materiale per chi non si eleva e non diviene sacerdote della propria vita.
La festa di Pentecoste esprime appunto la grandiosa verità che Dio abita dentro di noi. Dio non è più presente fisicamente in mezzo a noi, Dio è presente in noi con il suo Spirito.
Se noi chiediamo alle persone cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. E non sa rispondere perché non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto.
Molti pensano che lo Spirito sia un qualcosa che si “aggiunge”, che si attacca a quello che già siamo; e poiché ci sta bene così come siamo, dello Spirito possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di più, un’aggiunta, un accessorio: è qualcosa di noi, del nostro essere, un qualcosa che ci fa essere. Lo Spirito di Dio non decide di scendere su di noi in un certo giorno della nostra vita; egli abita in noi da sempre, ci ha fatto nascere.
Altri pensano che lo Spirito sia in contrasto, sia incompatibile con la materia, con l’uomo: per loro spirituale, equivale a disincarnato, fuori dal mondo; quando pensano ad una persona spirituale si immaginano un santo monaco che vive fuori dal mondo, che prega in solitudine e che odia tutto ciò che esiste nel mondo. Nulla di più sbagliato. Queste persone dovrebbero infatti leggere un po’ di più il vangelo e prendere nota di quanto “materiale” sia stato Gesù: mangiava, beveva, faceva festa, si divertiva, toccava e abbracciava. E con tutto ciò non possiamo certo dire che non fosse spirituale!
Essere spirituali, quindi, non è pregare molto, fare tante cose religiose, frequentare la chiesa, fare penitenze, compiere pellegrinaggi o dire rosari. Essere spirituali vuol dire vivere in modo che tutte le nostre azioni, i nostri pensieri, la nostra vita, confermino all’esterno la presenza dello Spirito di Dio che è dentro di noi. È semplicemente un modo di vedere e di vivere le cose.
Materia è infatti il pane della domenica sull’altare. Ma Spirito è quando vediamo in quel pane, il Pane, il Cristo. Materia è quando vediamo in una persona solo uno che ci disturba, uno che scoccia, uno che ci dà fastidio. Spirito è quando iniziamo a vedere in essa un fratello che soffre, uno che ha un cuore e un’anima bisognosi d’amore.
Materia è quando vediamo al mattino soltanto un altro giorno di lavoro. Spirito è quando vediamo nel nuovo giorno un regalo divino, un’altra opportunità che ci viene regalata dall’alto per sperimentare la vita.
Materia è quando qualcosa ci fa innervosire. Spirito è quando iniziamo a chiederci il perché, il che cosa dobbiamo imparare o che cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo di pensare. Materia è mangiare, spirito è gustare. Materia è respirare (avviene in automatico), spirito è essere consapevoli del nostro “soffio” (non a caso ruah, spirito, in ebraico vuol dire anche “soffio”). Materia è sentire il canto degli uccelli, spirito è ascoltare il canto degli uccelli.
Tutta la nostra vita può essere quindi terribilmente materiale o terribilmente spirituale; piena di buio o splendente di luce. Tutto può essere materia o tutto può essere spirito: dipende solo ed esclusivamente con quali occhi noi guardiamo: se con quelli del corpo o con quelli dell’anima, dello “Spirito”. Amen.