«Osanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore».
Domenica delle Palme. Domenica dell’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme, accolto da una folla festosa e plaudente. Una domenica in cui la Chiesa rivive la gloria, il rivelarsi di Dio, che sul dorso di un asinello, animale di pace, entra in ogni Gerusalemme umana, ed il suo compromettersi totale, drammatico, che si concluderà sulla croce, per liberarci da ogni male. Dovrebbe quindi essere una domenica di gioia, di festa, di partecipazione attiva; invece che tristezza certe processioni di oggi: un ripetitivo copione annuale di un corteo sgangherato, carico di parlottii e risatine, tragica esibizione di incredulità e di indifferenza (pure ‘sta parata ci voleva alla messa di oggi!), in cui lo sventolio dell’ulivo “miracoloso” (a me dammene tre rami perché non si sa mai!) costituisce purtroppo la massima espressione di una fede rattrappita e asfittica, oggi ahimè troppo diffusa.
Del resto anche noi, che abbiamo scelto di seguirlo più da vicino, anzi, che siamo stati scelti da una sua specifica chiamata, che ci professiamo suoi amici, forse, siamo talmente abituati alla morte di Dio, talmente riempiti di formali riflessioni e meditazioni, di stanche prediche sulla salvezza, di svogliate “lectio” quaresimali male assorbite, che ci siamo convinti di avere tutto chiaro, tutto colto, tutto imparato. Non ci serve null'altro. E assistiamo ancora una volta al dono supremo di Dio come se fosse una cosa dovuta, un evento banale, quasi abitudinario, presente sì nei nostri cuori, ma debole, scontato, inutile.
Peggio: ci fermiamo alla crosta, ascoltiamo e diciamo parole di cui non conosciamo veramente il significato, che ci scivolano addosso, che non ci toccano più di tanto.
Gesù è morto per noi. Ma nessuno sente più il bisogno di questa salvezza.
Egli è morto per i nostri peccati. E noi stiamo attenti solo a sottolineare i peccati degli altri.
Ha donato se stesso per noi. E noi non sappiamo che farcene di questo dono.
Avessimo almeno il coraggio di tornare a quei giorni, di riviverli, di lasciarci interrogare e scuotere! Avessimo il coraggio di penetrare dentro i nostri Vangeli, di toglierli dalla patina di incenso e di pura esteriorità che li avvolge, per guardare fisso negli occhi il Nazareno che ha deciso di donarsi fino in fondo per ciascuno di noi!
Oggi ci viene riproposto quello spettacolo: tutto è pronto, i protagonisti sono al loro posto. Ha inizio la morte di Dio.
Domani inizia la grande settimana, la più grande. La settimana piena di stupore e di sangue, di amore e di emozioni. Inizia la settimana Santa.
Anche quest’anno ci siamo arrivati, fratelli, come ogni anno. Pronti o meno, consapevoli o meno: è finito il deserto, il percorso della nostra “conversione”, il tempo dell'essenziale, il tempo della riscoperta di un Dio bellissimo, che non punisce, ma che come un Padre straordinario non giudica, anzi fa festa con noi. Un Dio diverso, un Dio difficile da accettare, un Dio esagerato.
Siamo arrivati: e – come ogni anno – ci fermiamo davanti all'inaudito, all'inimmaginabile: giorno per giorno, in questa settimana, vivremo le ultime ore di vita del Maestro, ne celebreremo i sentimenti, ci siederemo a guardare, a stupirci, ad ascoltare.
Dio muore, fratelli, Dio muore. Dio muore proprio per me, per noi!
E oggi ci accostiamo a una delle lezioni più belle che l'umanità abbia mai avuto: prepariamoci a rabbrividire!!! Gesù ci spiega, donando la sua vita, morendo sulla croce, cosa vuol dire amare. Amare: radice del verbo morire! No, non mi sono sbagliato! Gesù lo ha dimostrato al mondo: amare è morire.
Ma andiamo con ordine.
Oggi dunque Gesù entra a Gerusalemme trionfalmente. La gente applaude, agita in alto i rami strappati dalle palme e dagli ulivi, stende i propri mantelli al passaggio del Rabbì di Galilea. Piccola gloria prima del disastro, fragile riconoscimento prima del delirio. Gesù sa, sente, conosce ciò che sta per accadere.
Troppo instabile il giudizio dell'uomo, troppo vaga la sua fede, troppo ondivaga la sua volontà.
Ma che importa? Sorride, ora, il Nazareno e ascolta la lode rivolta a lui e che egli rivolge al Padre. Messia impotente e mite, energico e tenero, affaticato e deciso.
Non entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro bianco, non ha soldati al suo fianco che lo proteggono, nessuna autorità lo riceve: entra in città cavalcando un ridicolo ciuchino, ricordando a noi, malati di protagonismo, che il potere è tale solo se collegato al “servire”, che la gloria degli uomini è inutile e breve.
Osanna, figlio di Davide, Osanna nostro incredibile Dio, nostro magnifico re.
Osanna dai tuoi figli poveri e illusi, feriti e mendicanti, Osanna re dei poveri, protettore dei falliti, Osanna!
Oggi la tua Chiesa innalza a te il grido di lode; santa e peccatrice, riconosce in te l'unica ragione di vivere, l'unica ricerca, l'unico annuncio, Osanna maestro amato.
Matteo si cala nel racconto, descrive meticolosamente la passione, racconta le ultime ore di battaglia, racconta dello scontro titanico tra il Dio rifiutato e la tenebra incombente che suggerisce a Gesù (a ragione?) di abbandonare l'uomo al suo destino.
Dopo, tutto diventa miracolo. È piena di inattesa dolcezza la morte di Dio.
Chiudiamo gli occhi, smettiamo di leggere e pensiamo.
Sono molti i personaggi che affollano questo racconto e si muovono intorno a Gesù arrestato, processato e condannato...
Ci sono dentro anch'io: mi riconosco un po’ in tutti questi comprimari. Non ne vengo fuori bene: la nitida verità, così come appare, mi riporta nell’anima il gusto acre e salato del rimorso. Mi sento coinvolto prima di tutto come “credente”. È vero, sono un credente tiepido, un credente del “quando mi fa comodo”, del “quando mi serve”: tuttavia mi risulta impossibile considerare questa come una storia qualunque, una storia del "c'era una volta...” una storia insomma in cui alla fine, senza far nulla, tutto si risolve in mio favore, “e vissero felici e contenti”. No, fratelli. Non è così. Questa è una storia straordinaria che ci deve coinvolgere in pieno, drammaticamente: nella mente, nel cuore, nella vita; oggi, domani, sempre: lo vogliamo o non lo vogliamo; ci sia o non ci sia la sua immagine a ricordarcelo: perché il Cristo in croce è marchiato a sangue nel nostro cuore!
Sono un “apostolo”. Uno di quelli che Gesù chiama a preparare e vivere la sua ultima cena per poi continuarla anche quando lui non ci sarà più. Ma mi dimentico che è la cena dell'amore e della condivisione, e mi perdo a discutere quanto valgo, nella continua ricerca di essere il primo, il più grande... Mentre Gesù mi ricorda che il vero potere è servire, e la vera grandezza è farmi piccolo tra i piccoli, povero tra i poveri.
Sono Pietro. Ho tanta voglia di credere e di rimanere fedele alla promessa fatta a Gesù. Ma basta il cenno di una serva qualsiasi per farmi prigioniero della paura. Basta poco e mi dimentico che Gesù ha bisogno di me. Lui con il suo sguardo mi riempie gli occhi di lacrime, e la mia faccia indurita cercherà poi di sciogliersi nell'emozione profonda del suo perdono.
Sono Giuda. Quante volte con un bacio ho tradito Gesù. Tradisco la sua fiducia, tradisco il suo amore di Padre; e nel momento in cui gli sono più vicino con il corpo, nell’Eucaristia, gli sono ancora lontanissimo con il cuore... C'è ancora spazio di perdono per me?
Sono Pilato. Anche se cerco di liberare Gesù perché qualcosa mi dice che è innocente..., mi lascio condizionare dal mondo. Non ascolto più la mia coscienza (che è il luogo vero dell'incontro con Dio) ma ascolto solo quello che viene da fuori di me, dalla gente, dal potere, dai pregiudizi...
Sono uno della folla che grida "Crocifiggilo, crocifiggilo". Quando invece qualche giorno prima ero li a osannarlo per chiedergli una guarigione e un miracolo. Come sono veloce a cambiare idea! Come sono facile a farmi influenzare dalla mentalità comune e dai "si dice...". Ma Gesù sulla croce, invece di maledirmi, dirà: "Padre, perdonalo, perché non sa quel che fa..."
Sono il Cireneo. Preso per caso e senza preavviso, aiuto Gesù a portare la sua croce che per un piccolo tratto diventa come mia. Mi servirà per imparare ad essere disponibile sempre, ogni volta che qualche derelitto ha bisogno di un sostegno, anche momentaneo? È vero, non gli risolverò il problema, ma almeno gli farò sentire una vicinanza amica...
Sono il buon ladrone, crocifisso vicino a Gesù. Sento che questo disgraziato è li per me e io con lui. Quando verrà il giorno in cui il dolore e la caducità della mia carne piegherà la mia illusione di immortalità, ti prego, Gesù, fammi sentire quella stessa promessa, fammi sentire nel cuore e nella mente la tua vicinanza e la tua pace. Il dolore non vince, anche quando è grande. Ma tra le tue braccia di Padre, sentirò il paradiso vicino a me...
Dunque Pietro, uno degli apostoli, uno della folla urlante, Giuda, Pilato e via dicendo...: sì, fratelli, dobbiamo riconoscere, purtroppo, che noi tutti siamo un pò questi personaggi.
Allora, riusciremo ancora a stupirci in questa Pasqua?
O sarà per noi soltanto la celebrazione di una vecchia storia sepolta nel passato?
Accetteremo con entusiasmo l'invito di Gesù di entrare e di accompagnarlo nella sua storia di salvezza?
Ebbene, fratelli cari, non c'è altra strada per risorgere, che ricominciare: sempre. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora. Ogni nuova caduta deve essere occasione per dare nuovo senso alla nostra vita, una nuova dimensione, un nuovo percorso. Dobbiamo farci carico delle nostre difficoltà, delle nostre sconfitte, delle nostre debolezze: è la nostra croce. Dobbiamo farcene carico senza lasciarci schiacciare; dobbiamo abbracciarla questa croce; dobbiamo superare tutta la sua drammaticità, e trasformarla in occasione di salvezza, di felicità, per entrare come nuovi nella nuova dimensione di vita per Cristo, in Cristo, con Cristo.
Allora capiremo, fratelli e sorelle: allora capiremo che è così che siamo amati, che è così che siamo accolti. Approfittiamo di questi giorni per meditare con maggior intensità la passione di Gesù: non rendiamo inutile il nostro pensare, non riduciamoci ad essere famelici di piacere, di evasione, gente senza valori, senza riferimenti. Non sradichiamo la nostra fede per seminarvi sogni privi di speranza. Guardiamo con fiducia a Lui e capiremo che è Lui l’unica strada da percorrere, l’unica strada in grado di cambiare il mondo.
Meditiamo la sua passione: e non potremo che restare ancora una volta allibiti, costernati: perché assisteremo ancora una volta allo spettacolo della morte di un Dio, che si dona totalmente a noi.
Venerdì, inginocchiandoci davanti al crocifisso, sussurriamogli nel silenzio del nostro cuore:
"Signore eccomi, sono qui. Ti prego, fammi capire.
Come posso rimanere cieco e sordo di fronte a tanto tuo amore?
Come posso rimanere indifferente davanti a tanta tua sofferenza?
Come posso pensare che questa tua morte non mi salvi, che sia stata inutile?
Grazie, Gesù, per tanto amore.
Io credo, Signore, che tu sei il mio Dio di salvezza.
Io credo, Signore, che imparare ad amare significa, anche per me, imparare a morire per l'altro".
Buon cammino dunque fratelli e sorelle, in questa settimana santa.
Santa, perché tutti dobbiamo uscirne un po’ più santi, nella gioia del Cristo risorto. Amen.
mercoledì 13 aprile 2011
giovedì 7 aprile 2011
10 Aprile 2011 – V Domenica di Quaresima
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?»
Bella domanda. Come siamo messi in fatto di fede? Riusciamo a superare il significato di morte corporale, di dolore, di separazione, di privazione, nella prospettiva di un’altra vita, una vita di contemplazione beatifica di Dio, di unione eterna con Gesù? È questo il punto. Perché oggi, ultima tappa della nostra conversione quaresimale (tra 15 giorni saremo insieme al Cristo risorto, vincitore della morte), il vangelo ci parla proprio di morte, di vita, di amicizia, di commozione, di tristezza, di dolore, di “silenzio di Dio” di fronte alle nostre tragedie. Giovanni descrive, come al solito, con grande ricchezza di particolari, quanto è successo a Betania, ai suoi amici Marta, Maria, Lazzaro. Un testo chiaro, comprensibile, che offre via via anche la spiegazione di quello che Gesù fa e dice.
Accennavo più sopra alla “conversione”. Ed è proprio in questa chiave che dobbiamo fare una prima lettura del testo, perché non si può parlare di conversione, di una conversione duratura, se non si va alla radice, se non rivediamo il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni, il nostro modo di porci di fronte alle realtà ultime dell’umana esistenza. Dobbiamo andare oltre alla paura che l’idea della morte corporale proietta nel nostro intimo: perché c’è un’altra morte, meno esteriore e appariscente, meno scenografica, ma altrettanto e forse più traumatica: una esperienza di morte che ci paralizza nell’anima, che la ingiallisce, che vanifica ogni nostro slancio di vita; una grande ubriacatura di “presente”, di mondo, di falsa libertà, di egoismo, di divertimento, che ci inocula “nausea” per il passato e fatua “esaltazione” per il futuro, portandoci ad un progressivo allontanamento da Dio; una grave disaffezione nei suoi confronti, una indifferenza che ci porta a disertare le chiese e a riempire piuttosto i centri commerciali, per saziarci esclusivamente di “avere”, di “ora e subito”, di immediato, di godibile, avendo ormai perso ogni percezione del nostro “essere” con Lui. Purtroppo, quando ce ne rendiamo conto, quando ci “convertiamo”, il nostro grido a Gesù ─ come nel vangelo ─ è quasi espressione di rabbia: “se tu fossi stato qui con me, non ci sarebbe stata morte!”. Un grido ad un Dio ritenuto assente, ad un Cristo considerato impotente ormai a soccorrerci. Capite a quali conseguenze ci porta la nostra cieca ingratitudine? Quanta prosopopea e quale ignoranza mettiamo nelle nostre recriminazioni!
Abbiamo calpestato i suoi consigli, abbiamo ignorato il suo amore, non abbiamo tenuto conto della sua Parola, che ci diceva: “Io sono la risurrezione e la vita”. Nel nostro delirio di perdizione e di disinteresse lamentiamo pretestuosamente un Dio lontano, un Dio assente, gettandogli quasi una sfida: condizionando il nostro ritorno a Lui, il nostro ripensamento, la nostra conversione, ad una sua “visibile” compartecipazione al nostro pianto: vogliamo vederlo piangere sul nostro pianto, vogliamo sentirlo dire: “togliete la pietra”, vogliamo sentirlo gridare: “vieni fuori!”.
È vero: Gesù davanti alla morte di Lazzaro si commuove, piange, si unisce al dolore e al lutto delle sorelle. Egli non può accettare tanto dolore e disperazione per la scomparsa dell'amico e compie il miracolo della risurrezione. Poteva dire a Marta ed a Maria: «Non piangete. Ritroverete vostro fratello nella vita eterna». Invece no. Lui che aveva il potere di farlo, lo risuscita. Certo, con lui al nostro fianco è tutto più facile. Veramente. Ma è “più facile” solo nella misura in cui noi rispondiamo alla sua domanda iniziale: “Credi questo?”. Quindi nessun diritto, come vorremmo noi; nessuna pretesa, nessun merito vantato; ma fede, tanta fede. Tutto il resto è fatua ebbrezza di personalismo.
La risurrezione di Lazzaro è un segnale forte per la nostra fede, per la nostra speranza. Anche noi risorgeremo, sicuramente. La vita che viviamo è un rapido passaggio, e la nostra stessa morte non è definitiva, in quanto destinati ad una vita che non tramonta, alla vita eterna. Nella Pasqua ormai imminente celebriamo infatti Gesù che risorge dalla morte e ci apre il passaggio a questa visione di eternità. Anche noi risorgeremo e saremo immortali, in seno al Padre, nel tripudio dell’amore.
Ecco perché non dobbiamo guardare alla morte, in tutta la sua tragicità, come all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere lapidata: e l'ha salvata. La morte fisica è pertanto soltanto il simbolo di numerose altre morti altrettanto dolorose che incombono anche oggi sull'uomo.
Di conseguenza, il nostro discorso cristiano di fronte a tante tragedie, non può limitarsi ad essere semplicemente consolatorio. Il Vangelo non ci dice: «Rassegnati, tanto non puoi farci nulla». Gesù si impegna a fondo per ogni sofferenza dell'uomo, né più né meno come per l'ultima e definitiva, la morte: Egli infatti comanda a Lazzaro di risorgere, per dimostrarci che, con l'aiuto di Dio, non esistono limiti al nostro impegno di solidarietà contro qualunque tipo di morte. C'è un dovere di compartecipazione: il dolore dei nostri fratelli non può lasciarci indifferenti. Dobbiamo avere «un cuore grande»: perché nulla di quanto succede nel mondo deve essere estraneo ai discepoli, a coloro che seguono le orme di Cristo. Soltanto se ci commuoviamo e facciamo quel che possiamo per gli affamati, i disoccupati, i malati, i sofferenti, i bambini abbandonati, le famiglie senza casa, solo allora potremo credere a buon diritto che anche noi risorgeremo dai morti. Altrimenti la nostra speranza è abusiva. È la fede che ci deve restituire in pieno all'uomo, ci deve porre sul sentiero delle sofferenze umane con maggiore solidarietà e speranza. Guai se la fede nella nostra risurrezione dai morti ci portasse ad avere minor compassione e solidarietà con i vivi. Non sarebbe più fede, non sarebbe la fede che aveva Gesù. Credere nella vita eterna, ci deve portare ad amare la vita, a lottare per la vita, affinché il diritto alla vita sia riconosciuto a tutti, ad ogni livello. Vivere, è un dono di Dio; e Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. Cristo è la risurrezione e la vita. È la mia risurrezione, è la mia vita. È la forza della risurrezione per me e per tutti.
Questo vangelo, in definitiva, è un inno alla vita; ci dice che la vita è più forte di tutto. Perché la vita vuol vivere, vuole esprimersi, vuole espandersi, non si rassegna mai e non si dà mai per morta. Quando tutto sembra finito, la vita ci crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di nascere e di sbocciare nella maniera più incredibile o inaspettata. Gli alberi sono fatti per crescere per svilupparsi; le gemme sono fatte per germogliare e per fiorire; gli uomini sono fatti per crescere come persone, per esprimere tutto il loro potenziale interiore e l'amore che contengono. La vita vuole venire fuori, vuole uscire, vuole esplodere, “vuole vivere”. Quando ci sentiamo piegati dal peso del dolore, dell’affanno, delle colpe, dei giudizi taglienti delle persone; quando in certe giornate nere tutto ci sembra negativo, il malessere sembra dilagare, il tormento della malattia, della morte sembrano soffocarci, allora ascoltiamo quella voce, lontana ma autoritaria, che ci dice dentro di noi: “Vieni fuori, non lasciarti schiacciare”; “Vieni fuori, non permettere che ti impediscano di vivere”. “Vieni fuori dal sepolcro in cui ti hanno posto, vivi la vita”. Quando vediamo la primavera che ritorna dopo la morte dell'inverno, e la vita si riapre come per meraviglia e per incanto, e dove quello che era brullo torna a riempirsi di colori, noi ci rendiamo conto che la vita è più forte della morte. Quando percepiamo dentro di noi la vicinanza, la presenza protettiva e concreta delle persone care che sono già morte, noi comprendiamo che la vita è più forte. Quando vediamo le persone che cambiano, che diventano diverse, che evolvono, che diventano mature, che stanno in piedi sulle proprie gambe, che ritornano ad essere felici dopo esperienze tragiche, noi sentiamo che la vita è più forte. Si, fratelli, la vita è indistruttibile. Perché è l’amore che la dona, è l’amore che la alimenta.
Ma attenzione, dobbiamo stare molto attenti, perché se è vero che l’amore dà vita, è anche vero che c’è un “amore” che può dare morte, che può uccidere la “vita”. Dire sempre “Io lo faccio per amore”, talvolta può essere pericoloso: potrebbe non avere alcuna garanzia di amore. Perché? Perché per un presunto amore si può anche distruggere, picchiare, umiliare, prendere in giro, tormentare una persona; perché c'è un amore che fa vivere e uno che uccide, c'è un amore che rende liberi e autonomi e un amore che incatena.
Quando amiamo troppo egoisticamente, in maniera esagerata, senza compostezza mentale, il più delle volte non amiamo affatto: perché inconsciamente siamo dominati dalla paura di rimanere soli, di non essere a nostra volta degni di amore, di non valere niente, di essere ignorati. Le nostre paure, in nome dell’amore, ci portano ad attaccarci morbosamente all'altro, ci convincono che senza di lui non potremmo vivere; e non ci accorgiamo che intanto l’altro soffoca. Quando per esempio il marito sorveglia strettamente la moglie ed è geloso all'inverosimile, non la fa vivere, ma morire. Quando il papà pretende in nome dell’amore di sostituirsi al figlio in tutto e per tutto, non fa sicuramente bene al figlio, perché lo rende insicuro. Quando una mamma dice: “Lo faccio io, ti preparo io, vengo io, ci sono io, ci penso io”, dimostra di non amare il figlio, perché lo rende un incapace, un disadattato. La mamma che vuole sapere per filo e per segno ogni passo della figlia, legge di nascosto il suo diario, fruga nei suoi cassetti, non la fa assolutamente vivere; la fa morire, perché le toglie la sua dignità di persona. Chi interviene continuamente dicendo cosa fare o non fare, cosa è bene o non bene, come va fatto o non fatto, non agisce per amore, ma uccide nell’altro qualunque possibilità di espressione personale. L’amore non consiste nel voler fare tutto, nel dare tutto, nell’imporre continuamente la nostra presenza: l’amore è amare, senza esibizionismi, in silenzio, sempre pronti a intervenire, senza imporre la nostra personalità, senza prevaricare sull’altro. Sempre solleciti, ma nella discrezione. Perché se il nostro amore lega, costringe, ingabbia, si sostituisce, imprigiona gli altri, non è amore vero, ma è un amore che uccide.
E concludo: a tutti i “Lazzari”, a tutte le vittime dell’ignoranza, della violenza, dell’odio, del peccato, dell’egoismo, delle proprie debolezze, delle proprie paure irrazionali, Gesù dice: “Uscite fuori”. Cioè: “Non siate rinunciatari passivi, non permettete a nessuno di ridurvi come morti, di costringervi in situazioni da sepolcro, in cui la vostra anima e la vostra vita possono soltanto marcire”. “Non vi accartocciate nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti umani”.”Venite fuori”. “Dovete trovare il coraggio e la forza di sottrarvi a questo lento morire quotidiano, a questa rinuncia graduale ma inarrestabile che porta alla morte”. “Venite fuori... venite fuori... venite fuori...”.
Di fronte a tanto amore, a tanta sollecitudine, dobbiamo avere il coraggio di non nascondere le cose: se abbiamo sbagliato, riconosciamolo francamente, cambiamo rotta, modifichiamo i nostri atteggiamenti; se c'è qualcosa da portare a galla, facciamolo, con fiducia, senza paura, senza sentirci delle schifezze o essere distrutti dalla vergogna. Amare non è non sbagliare mai, essere sempre al top, irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; amare è accorgersi e riconoscere che certi nostri stili di vita non portano vita, ma fanno morire la vita.
Lasciamo allora che questa nostra riflessione diventi preghiera:
«Gesù, noi sappiamo che sei il nostro Salvatore. Come già Lazzaro, vorremmo tanto anche noi sentire il tuo grido che ci invita a uscire dalle nostre tombe. Fa risorgere la nostra speranza che muore tutte le volte che non riusciamo ad affrontare il dolore e il sacrificio; fa risorgere la nostra fede, sempre troppo debole per capire la tua grandezza e il tuo amore. Fa che avvertiamo nitida la tua presenza quando siamo tentati di accusarti di essere assente e di lasciarci soli. Fa che udiamo distintamente le tue parole di risurrezione: “Vieni fuori dalla tua tomba, dalle tue tenebre, dalle tue insicurezze; vieni fuori dai tuoi pregiudizi, dai tuoi schemi mentali distorti, dai tuoi egoismi; vieni fuori dal peccato, vieni fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in te, perché io sono la tua Luce, la tua Risurrezione, la tua via, la tua verità, la tua Vita”». Parole meravigliose, fratelli, che ci devono ridare nuovo slancio, nuovo vigore; parole che ci devono far rinascere a nuova speranza, a nuova vita: ascoltiamole queste parole, usciamo dalle nostre tombe, abbandoniamo le tenebre della morte e del peccato e torniamo a vivere nella luce di Cristo, nostra Pasqua”. Amen.
giovedì 31 marzo 2011
3 Aprile 2011 – IV Domenica di Quaresima
«Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita...». Proseguiamo il nostro cammino di approfondimento della fede: dalla "domenica dell'acqua" di otto giorni fa', passiamo oggi alla "domenica della luce". Acqua e luce, due simboli che ci parlano di vita: lo Spirito Santo (acqua) e Cristo (luce) sono le realtà che ci portano alla vita eterna. Dopo la samaritana, il personaggio chiave di domenica scorsa, oggi incontriamo un altro debole, un altro ferito dalla società, un altro rifiuto umano: il cieco nato. Un vangelo, quello di oggi che, tra le righe, punta il dito contro una delle debolezze umane ancora oggi molto diffuse: quella di lasciarsi condizionare acriticamente dalle idee, dal pensiero e dalle opinioni altrui, non sempre disinteressate, anzi il più delle volte smaccatamente di parte e in evidente contrasto con la realtà e il raziocinio! Oggi viviamo in un relativismo sfrenato, in cui impazzano e si intersecano ideologie, teorie, opinioni, e teoremi, in continua evoluzione e trasformazione. Lo vediamo concretamente nell'ambito politico e giudiziario, in quello religioso, nell'ambito della teologia, della sacra Scrittura, in quello dei rapporti familiari tra marito e moglie, tra figli e genitori... Assistiamo da indolenti e passivi spettatori allo scempio iconoclasta dei nostri principi e del nostro Credo. I giornali vendono la loro verità, e noi lì pronti ad assorbirla fino all’ultima goccia; la pubblicità vende la sua verità, e noi, appecoronati, acquistiamo i suoi prodotti; la politica vende la sua verità, e noi ci lasciamo catturare dalle chimere di quelli che gridano più forte; la moda diffonde la sua verità, e noi, entusiasti, siamo pronti a seguirla; il rivoluzionario ci offre la sua verità, e noi ci infiammiamo alle sue provocazioni; l'intollerante ci zittisce con la sua verità, e noi tacciamo sconcertati ma in silenzio; lo “scandalo” scopre le sue verità, e noi ne restiamo confusi e avviliti. Verità sacrosanta si dichiara il denaro, verità si proclama il sesso, verità promette la droga. E noi in mezzo a tutte queste verità, pur frastornati e insicuri, ci abbandoniamo comunque a quelle vaghezze che le mille sirene del mondo ci propinano giorno e notte. Come liberarsi allora da tutti questi imbrogli, per poter riconquistare quella verità e quella saggezza che unisce invece di dividere, che dona amore invece di odio, e che non è deperibile ma dura nei secoli? Dobbiamo rimettere le cose al proprio posto, dobbiamo ritornare alla verità e alla saggezza del Vangelo, dobbiamo mettere i "piedi per terra", altrimenti non potremo mai più capire noi stessi e soprattutto non potremo mai più capire gli altri. In altre parole dobbiamo cercare, cari fratelli, di non cadere nelle contraddizioni in cui sono caduti i Giudei del Vangelo di oggi, i quali, pur messi di fronte all’evidenza, si sono arroccati nel pregiudizio e non hanno accettato la realtà. Il loro "teorema" era che Gesù non poteva essere il Messia; punto. Un teorema così ben radicato nelle loro "teste", nelle loro idee, inculcato così bene dagli “esperti” dell’epoca, da indurli a rifiutare a priori e in maniera radicale e preconcetta, qualunque ipotesi contraria, anche se evidente. E hanno sbagliato tutto. Per cattiveria? No, per ignoranza, diciamo noi. La loro è stata un'ignoranza pretestuosa. Né più né meno di quell’ignoranza dei nostri giorni, di chi crede di sapere tutto, di chi parla e urla di tutto, di chi fa grande sfoggio di sé partorendo idee astruse: persone che in fondo sono e rimangono sempre di un’ignoranza abissale. E questo è un dato estremamente preoccupante, perché dimostra un totale disinteresse per quello che è lo scopo principale della nostra esistenza; per quelli cioè che sono i valori civili, religiosi e morali della vita: “Da dove vengo?, che scopo ha la mia vita?, come mi comporto nei confronti degli altri?, dove vado dopo la morte?”. Ecco, fratelli: soltanto se risponderemo a queste domande con onestà, mettendoci di fronte alla nostra coscienza, potremo camminare sicuri verso la Luce vera: se invece non riusciamo o non vogliamo farlo, allora, ahimè, continueremo a vagare smarriti, senza meta, in balia delle varie cassandre del momento! E quanti esempi ne abbiamo! Cattolici che ammirano, difendono e seguono correnti di pensiero materialista, ateo, in netta antitesi con la loro fede cattolica; cattolici che sostengono e divulgano senza vergogna tesi decisamente contrarie ai valori inalienabili della nostra fede; cattolici che si pongono in contrasto con il pensiero dell’autorità e del magistero della Chiesa; cattolici insomma che antepongono il loro personale tornaconto, il loro egoismo, il loro orgoglio alla loro fede; Sono tanti, fratelli; troppi! e proviamo imbarazzo, vergogna e dolore anche solo a immaginare possibilità del genere. Approfittiamo allora della Parola di oggi, raccogliamo l'insegnamento di questo Vangelo, cerchiamo di diventare nel bene un po’ più critici e meno creduloni, cerchiamo insomma di usare più intelligentemente la nostra testa: i mezzi e i punti di riferimento per non sbagliare li abbiamo tutti, a nostra disposizione già da oltre venti secoli, e sempre a portata di mano. Basta volerli seguire. Non demandiamo un compito tanto importante come quello di cercare la Verità, a conduttori televisivi, a giornalisti, a conferenzieri fasulli, a politici senza scrupoli; dobbiamo essere noi a giudicare, ad andare fino in fondo, ad imboccare la strada giusta: siamo noi che dobbiamo evitare di cadere in quella cecità mentale, molto più dannosa e invalidante di quella materiale. Ma torniamo al nostro vangelo: un brano dunque che, come tanti, ripropone oggi la stessa situazione di allora: ci sono cioè persone che accolgono Gesù Cristo con grande fede, e persone cieche, insensibili, immature, che lo combattono non solo come persona, ma addirittura come idea. All’epoca la cecità materiale – come del resto ogni malattia – era considerata come la punizione che Dio riservava a quanti avevano peccato; era il peccato la causa di tutti i mali, anche di quelli corporali. Se poi la malattia era congenita, l’elemento scatenante era da ricercarsi nei peccati dei genitori. In ogni caso Dio non lasciava conti in sospeso nei confronti del peccato di chicchessia. Il cieco del racconto di oggi, è visto pertanto come un uomo non soltanto senza luce ma anche senza speranza, un maledetto da Dio, un punito da Dio. È tollerato dalla comunità, non ha diritti, né alcuna opportunità. Finché non incontra Gesù: e guarda caso quello stesso Dio che, in teoria, lo avrebbe punito, senza fare o chiedere nulla, soltanto per grazia, per dono gratuito, per amore, lo guarisce. Egli non ha mai visto la luce e di conseguenza non conosce tutte quelle cose meravigliose che prendono forma proprio dalla luce; però ha sicuramente sentito parlare di Gesù, anche se le tenebre che lo avvolgono e lo stato di isolamento in cui è costretto a vivere, gli hanno impedito di incontrarlo. È quindi Gesù che prima lo vede, poi si mette accanto a lui, impasta del fango con la saliva e glielo spalma sugli occhi. Così, spontaneamente, senza profferir parola. Il cieco ovviamente non vede tutto questo, ma sente il tocco della mano di Gesù, sente poi la sua voce che gli ordina di andare a lavarsi nella piscina di Siloe. Alla iniziativa personale e gratuita di Dio egli pure deve rispondere con qualcosa; deve obbedire alla Sua parola, deve recarsi alla piscina, in ogni caso, anche se non ci vede. Deve fidarsi della parola del Signore che l'ha toccato con amore, e deve rischiare ancora: deve rischiare di camminare nel buio, di inciampare, di cadere; perché solo dopo aver corso questi ulteriori rischi potrà sperimentare la potenza di ciò che Gesù ha fatto in lui, e potrà finalmente iniziare a vedere. E il cieco fa puntualmente quello che Gesù gli ordina di fare, pur non vedendo e pur non avendolo ancora mai visto in volto. Ecco, fratelli: Dio agisce sempre cosi anche con noi; ci riporta alla vita piena, ma a determinate condizioni, lasciandoci liberi poi di osservarle o meno. Anche noi, se vogliamo che Dio ci illumini con la sua luce, dobbiamo fare la nostra parte, dobbiamo cioè ascoltare la Parola di Dio e metterla in pratica. La storia del cieco nato si adatta molto bene alle nostre esperienze: perché le analogie tra la sua e la nostra vita sono tante. Anche noi, infatti, ci troviamo come lui nella impossibilità di "vedere" la via d’uscita dalle nostre difficili situazioni di vita; non sappiamo cosa fare, dove andare; restiamo là, impotenti, ad elemosinare qualcosa dai fratelli, in una situazione assolutamente precaria. Ma Dio, che ci conosce personalmente, ci è sempre vicino, soprattutto quando abbiamo il cuore ferito, quando siamo ammalati spiritualmente e materialmente, e ci tende sempre la sua mano per riportarci alla luce. Tutto nella nostra vita è dono gratuito di Dio. Tutto dipende dalla sua iniziativa. Sì, perché se noi siamo ciechi, Dio al contrario ci vede sempre e molto bene: è Lui che si accorge di noi, mendicanti ciechi, ogni volta che barcolliamo. Eppure, quante volte pensiamo che Dio sia cieco! Che non veda le nostre sofferenze, le nostre necessità, che non si chini a guardare le nostre ferite, a curarle, a sanarle! No, fratelli, lo ripeto: Dio ci vede benissimo; è solo la nostra cecità interiore che ci fa dubitare di Lui. Il volto che Gesù ci svela è sempre quello di un Dio misericordioso, attento, delicato, rispettoso, che conosce e guarisce le nostre miserie anche quelle più nascoste. Anche noi, come il cieco guarito, dobbiamo incontrare la nostra fede autentica e sincera. Dobbiamo credere, fratelli, con tutte le nostre forze e a tutti i costi. Anche se sappiamo che vivendo la fede fino in fondo, ci mettiamo completamente in discussione col mondo; dobbiamo accantonare qualsiasi forma di rispetto umano, non curarci di ciò che la gente potrebbe pensare di noi: cosa molto difficile e compromettente per tutti. Ma come il cieco, anche noi, se vivremo di fede profonda, acquisteremo una nuova mentalità, la mentalità del vangelo, e verremo proiettati a pieno titolo in una dimensione ben più profonda e gratificante: quella dell’amicizia e dell’amore. Ecco, questo è il nostro percorso, fratelli: come il cieco, anche noi siamo chiamati a superare la nostra cecità spirituale, ad essere accesi e illuminati dalla Parola, per comunicarla al mondo intero. Riconosciamo di essere ciechi, di non poter nulla senza la Sua luce; non chiudiamoci nella nostra cecità ingannatrice, come è successo ai farisei, che sicuri della loro "vista", non perdevano occasione per giudicare gli altri. Ascoltiamo Paolo, che nella seconda lettura ci raccomanda di vivere come “figli della luce”, di essere “luce nel Signore”. Smettiamo di sopravvivere carichi di pregiudizi e di vergognarci della nostra fede: sappiamo bene, perché lo abbiamo sicuramente provato, che quella luce che illumina e riscalda così intensamente il nostro cuore è un dono della tenerezza di Dio. Impariamo a fidarci di Lui, fratelli, sempre: anche quando non vediamo la strada che dobbiamo percorrere, anche quando temiamo che l’oscurità totale torni ad avvolgerci nell’angoscia e nella disperazione. Fidiamoci di Lui! Non dobbiamo avere più paura di nulla: «Si nobiscum Deus, quis contra nos? – Se il Signore è con noi, chi mai sarà contro di noi?» Chi dovremo temere? Di cosa dovremo aver paura? Accogliamo la sfida del mondo, di quelli che ignorano Dio, che non lo “vedono”, che non lo vogliono vedere: indichiamo loro la strada della Luce, mettiamoli di fronte alla luce della Sua misericordia, del Suo amore; e preghiamo. Preghiamo umilmente perché, come è successo miracolosamente con noi, Gesù tocchi anche i loro occhi e i loro cuori, e li guarisca come solo Lui sa fare. Amen.
mercoledì 23 marzo 2011
27 Marzo 2011 – III Domenica di Quaresima
«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».
Da questa domenica c’è una scelta diversa per l’autore del vangelo: le tre pericopi che scandiscono la terza, la quarta e la quinta Domenica di Quaresima, che ci conducono alla domenica delle palme e alla settimana santa, venivano usate come spunto di studio, di riflessione e di scrutinio nella formazione dei catecumeni, i quali concludevano il loro percorso di iniziazione cristiana nella notte di Pasqua, ricevendo il Battesimo. L’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicar, la guarigione del cieco nato e la risurrezione di Lazzaro, segnano anche oggi le tappe di questo cammino (in presenza di catecumeni possono essere ripetute in queste domeniche anche nei cicli B o C), poiché si prestano egregiamente non solo a descrivere il percorso di fede dei vari protagonisti, ma anche a fare, da parte dei battezzati, un serio esame critico sui progressi della loro vita cristiana.
Abbiamo quindi un passaggio di consegne da Matteo a Giovanni. Ma perché proprio Giovanni? Perché parlando di Gesù, Giovanni non si accontenta di accennare ai fatti in maniera distaccata e scarna, come fanno gli altri, ma nel suo Vangelo ogni singolo episodio viene affrontato con estrema ricchezza di particolari, di sfumature, di annotazioni psicologiche, soprattutto nel descrivere gli incontri faccia a faccia. Sono scene così ben descritte che si impongono alla nostra attenzione, che toccano le corde più sensibili del nostro cuore e trasmettono un profondo insegnamento. Un immediato riscontro lo abbiamo infatti oggi stesso, nella prima delle tre pericopi, che descrive appunto in maniera stupenda il colloquio fra Gesù e la donna di Samaria, presso il pozzo di Giacobbe.
Siamo nel periodo dell’anno che precede la mietitura, quindi in estate già avanzata. Gesù, stanco per il lungo camminare, accaldato, si ferma a riposare in prossimità di Sicar, ai bordi di quel pozzo che fu di Giacobbe. Gesù è solo: i suoi discepoli lo hanno lasciato per cercare qualcosa per il pranzo. Il caldo è insopportabile; ha una gran sete, ma essendo sprovvisto di qualsiasi tipo di recipiente, non può attingere l’acqua, laggiù in basso, a circa una trentina di metri. Caso veramente fortunato per quell’ora, si presenta una donna che ha con sé una brocca. Certo deve essere una donna piuttosto singolare, se ha scelto di andare al pozzo nell’ora meno indicata: una donna che sceglie di attingere acqua sotto il solleone, lo fa sicuramente per evitare incontri imbarazzanti o per sottrarsi all’ascolto delle maldicenze sussurrate dalle altre donne nei suoi confronti. La sua reputazione, per motivi sentimentali, è in realtà molto compromessa: è una donna leggera, una poco di buono, giudicata e condannata dai benpensanti di ieri e di oggi. Per questo il giudizio su di lei è molto pesante, come molto pesante ed arido è il suo cuore, per essersi dissetata fino ad allora soltanto con acqua “inquinata”.
Ed è lì, al pozzo, che incrocia quell'ebreo stanco e assetato, che attacca bottone.
È guardinga, la samaritana: è stufa di farsi sedurre, è stufa di essere illusa, pensa subito che quel tale che le chiede da bere, voglia corteggiarla. Non sa ancora che quell’incontro è unico, irripetibile, determinante, profondo e miracoloso proprio per entrambi: si, perché Gesù trova la fede in una persona che, a giudizio di tutti, non l’aveva mai avuta o non l’aveva più; la donna invece incontra l'Amore: l’Amore quello vero, quello totale e coinvolgente, quell’Amore che tutti aspettavano da secoli. Un incontro, quello tra i due, che sconvolge ogni regola, che va contro il buon senso, che è contrario ad ogni norma religiosa. Gesù, il maestro, scavalca impassibile tutte le barriere di quel tempo: la barriera del sesso (un rabbino, un maestro, non doveva mai rivolgere la parola ad una donna fuori di casa, fosse pure la moglie!); la barriera di razza (i samaritani erano considerati dei bastardi in quanto erano mescolanza con gli assiri); la barriera di nazionalità ( i samaritani erano considerati forestieri); la barriera di religione (erano considerati scismatici e impuri); la barriera del buon comportamento (parlare al pozzo ad una donna era corteggiarla, farle delle avances, "provarci" insomma, e la cosa sarebbe andata sulla bocca di tutti; gli stessi discepoli ne rimangono scandalizzati!).
A Gesù tutto questo non interessa, egli rompe ogni schema e le parla. Egli è un uomo al di sopra di qualunque pregiudizio, ed è per questo che nella sua vita ha sempre fatto incontri meravigliosi. Gesù non si ferma a ciò che si dice in giro; è completamente indifferente a ciò che gli uni pensano e dicono degli altri. Gesù non dice: “Questo è ricco (Zaccheo), questa è una donna di malaffare (adultera, samaritana), questo è un ladro (Matteo Levi), questo la legge non lo permette (guarire di sabato), questo non sta bene (la donna che lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò), questi sono pagani, eretici (samaritani), questi sono peccatori (pubblicani, prostitute)!” Gesù è al di fuori di ogni schema umano: per questo risulta scomodo e fastidioso a tutte quelle persone che sono piene di regole, a tutte quelle persone che sono rigide, con una mentalità bacchettona e ristretta.
Il dialogo che Gesù intavola con la Samaritana è dunque un capolavoro di finezza psicologica e di delicatezza divina.
Allo straniero che gli chiede un piacere, la Samaritana si presenta subito insofferente e molto sicura di sé. Alla richiesta di aiuto: “Dammi da bere!”, la sua secca risposta: “Come mai un Giudeo si abbassa a chiedere da bere a me che sono samaritana?” non è delle più incoraggianti per Gesù; ma a Lui è comunque sufficiente, perché se ne serve come aggancio, come pretesto, per portare subito il discorso là dove Egli voleva; è la sete della donna per “un’altra acqua” quella che interessa a Gesù: tant’è che la sua sete personale, il suo “dissetarsi”, viene accantonato, dimenticato, non se ne parla più. Gettato il ponte della comunicazione, Gesù dimentica la sua “arsura” e tutta la sua attenzione è volta a lei, alla samaritana: alla sua persona, al suo credo, al suo cuore. Ebbene, quella samaritana siamo tutti noi, fratelli, con le nostre necessità, i nostri problemi, le nostre difficoltà. Succede sempre così: se da un lato il Signore usa il pretesto di chiederci qualche inezia, lo fa per darci di più: anzi egli ci dà tutto, ha sempre cose molto più importanti da offrirci; ce lo fa capire chiaramente anche in questo racconto, attraverso questa donna, in apparenza molto disinvolta e sicura di sé, ma in realtà molto angosciata e insoddisfatta della sua vita. Si, fratelli: perché, lo ripeto, lei e noi siamo sullo stesso piano, entrambi abbiamo sete, tanta sete: una sete profonda, totale, subdola. È la sete di amore, di bene, di affetto, di luce, di pace, di senso che inquieta le nostre vite.
Una sete profonda, misteriosa, che rischiamo di sottovalutare o, peggio, di saziare con acqua inquinata e “salata” che, dopo una prima apparente soddisfazione, amplifica a dismisura l’arsura e il desiderio di bere. Lei ne sa qualcosa. E anche noi. Entrambi siamo fragili, non abbiamo trovato in questo mondo niente e nessuno che ci possa dissetare sul serio. Abbiamo ancora sete, sete d'Amore. Come tutti.
Gesù ci ha aspettato al nostro pozzo battesimale: continua ad aspettarci sempre alla sorgente di acqua viva dei suoi sacramenti: qui egli ci cerca, uno per uno. Egli continua ad aspettarci, continua ad avere sete di noi, non per giudicarci, ma per dissetarci. Egli ha sete della nostra fede, del nostro amore. Stanco di aspettare, è Lui che per primo prende l'iniziativa: si, stanco; perché Dio è stanco di correre dietro alle sue pecore infedeli, che insistono a dissetarsi in cisterne fatiscenti, piene di acqua putrida, ignorando volutamente le fresche e vive sorgenti di acqua limpida che sgorgano dal suo cuore. Stolti!
E Gesù insiste: “se vuoi essere dissetata - fa capire alla donna - devi essere onesta con te stessa. Dio non ti giudica, Dio non ti condanna, gli altri sì, sempre, sistematicamente, tutti, anche quelli che si dicono uomini di Dio: più si sentono di chiesa, peggio ti giudicano; no, stai serena: con me non hai nessun esame da superare, devi solo renderti conto dei tuoi limiti”. Beh, per chi è carico di pregiudizi, anche un’offerta così vantaggiosa è difficile da accettare, non vi pare?
La donna infatti svicola, non capisce e la mette sul religioso: “Ma Dio non bisogna pregarlo a Gerusalemme, nel tempio, o qui in Samaria, sul Garizim?”. Domanda ingenua! Domanda pretestuosa, tanto per prendere tempo: lei sa perfettamente infatti che, pubblica peccatrice, non può entrare in alcun Tempio, né in quello di Gerusalemme, né tantomeno in quello dei Samaritani, in quanto inesistente, già distrutto. La religione esteriore ha le proprie regole, e lei è decisamente fuori. “E invece no”, dice Gesù: “il tuo cuore è già un tempio; la tua verità, il tuo spirito, il tuo cuore ti permettono di entrare nella gloria. Tu sei un tempio e lì puoi incontrare Dio”. Tace, la donna. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l'aveva amata. Il mondo si era diviso in chi l'aveva usata e in chi l'aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. E beve, ora, la samaritana: beve avidamente, a garganella, come se mai avesse provato il gusto dell'acqua, come sei mai avesse assaggiato l'acqua fresca di sorgente. Beve, e sente aprirsi dentro di lei una sorgente impetuosa, sente il suo cuore, costretto e inaridito dal dolore, spalancarsi con l’impeto di un fiume in piena, sente la roccia del suo cuore frantumarsi in un Amore nuovo, sconosciuto, senza limiti, un Amore che la travolge. E corre. Abbandona la brocca (che le importa, ora?), corre dai suoi vicini, dai suoi concittadini e grida: è arrivato il Messia! La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, si trasforma in un'opera d'arte. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l'epifania del volto di Dio.
Continua a bere, ora, la samaritana: perché anche lei è diventata sorgente inarrestabile.
Follia, fratelli, follia. Riusciremo mai anche noi a convertirci a tanto?
Incontrare Gesù, fratelli, è ammettere la realtà di noi stessi, è come guardarsi allo specchio. Incontrare Gesù, aver fede in lui, non si risolve in un pio esercizio ascetico, ma è l'incontro con ciò che siamo realmente. Perché Gesù ci conosce. Gesù è colui che ci smaschera, che se nascondiamo qualcosa, Lui ce lo rinfaccia, davanti e subito. Non si può incontrare Gesù e pensare di nasconderci. Di fronte a Lui non si può mentire, scappare, raccontarsi “balle”. E chi vuol evitare quest'incontro, evita Dio stesso, evita l'Incontro, perché Dio è Spirito e Verità. Non facciamo come la donna samaritana al pozzo: pur di evitare la verità, pur di non vedersi per quello che è, sposta il discorso sul piano religioso. Eppure, fratelli, quante volte ci appelliamo anche noi ad un “dialogo sui massimi sistemi”! Quante volte ci tuffiamo in discorsi che riguardano Dio, la teologia, la spiritualità, la preghiera, pur di non guardare dentro di noi, pur di non leggere i segnali della nostra tremenda arsura che cuore e anima disperatamente ci lanciano. Certo è più facile parlare di Dio, di vera religione; è più semplice parlare della società, della politica e soprattutto degli altri, piuttosto che mettere in piena luce il nostro spirito aggressivo, capire il nostro cuore ferito e impaurito, per correre ai ripari. Gesù è chiaro: se non incontri il tuo spirito nella verità, non puoi crescere. Se vuoi l'acqua viva, devi scendere nel pozzo della tua vita e bagnarti, lavarti, lavarti nella Verità. Neanche la tua fede è vera se non tocca il tuo spirito, il tuo cuore, il tuo profondo. Neanche la tua fede è vera se non passa al vaglio della Verità. Ogni uomo, ogni donna si porta in cuore "un crepaccio assetato di Infinito", scriveva Kierkegaard. È l’infinito dell’Amore di Dio, la nostra salvezza.
Purtroppo la nostra vita è tutta un vagare da un pozzo all'altro e spesso ci illudiamo di spegnere la nostra grande sete con cento, mille piccoli sorsi di un'acqua imbevibile. E così la sete aumenta... la ricerca spasmodica di una vita più felice, più bella, più gratificante, diventa una corsa ossessiva, disperante e disperata: si riduce ad un comprare, consumare, fare esperienze sempre più sensazionali, provare emozioni sempre più forti, cercare di guadagnare sempre di più per godere più che si può. Il risultato? Insoddisfazione crescente, nausea dominante, il baratro della noia e della depressione.
È in questo deserto del mondo contemporaneo che l’umanità, divorata dalla sete, continua a gridare, come gli Ebrei a Mosè: “Dacci da bere! Stiamo morendo di sete...”. Un grido che sale imperioso anche verso chi governa, verso le ideologie, verso la cultura. Ma è il grido soprattutto rivolto alla Chiesa: “Dacci da bere!” Un grido che, volenti o nolenti, raggiunge anche noi, popolo e chiesa di Dio. Una responsabilità che è anche nostra, fratelli. Che fine ha fatto l'acqua viva che dobbiamo offrire a questi fratelli assetati? Che cosa possiamo mai offrire di nostro alle immense attese degli uomini contemporanei? Che ne abbiamo fatto del nostro Battesimo? Dove abbiamo messo l’acqua viva che ci è stata donata? Dove sono le nostre riserve di cristiani? Tremenda richiesta di aiuto, fratelli! Tremenda nostra responsabilità, se per negligenza abbiamo lasciato ostruire i canali di trasmissione! Certo, è inquietante se pensiamo che Dio prende i suoi annunciatori tra la feccia, come la samaritana, che raccoglie per strada i reietti come noi, e li innalza alla dignità di discepoli! È inquietante, ma ci deve far coraggio: una cosa che ci deve far meditare profondamente fratelli. Ma allora, se le cose stanno così, che aspettiamo ancora? Riallacciamoci immediatamente alla Sorgente: diamo nuovo flusso e nuova vita nel nostro cuore a quel Dio, a quell’Amore inesauribile, che i nostri fratelli si aspettano da noi; diventiamo torrenti, canali, fiumi impetuosi di quell’Acqua Viva che, lo sappiamo bene, è l’unica che può mitigare la sete ardente e implacabile del mondo. Dissetiamoci e facciamo dissetare! Tutti quelli che ci avvicinano. Il tempo è breve, fratelli: siamo già col sole allo zenit, non aspettiamo la sera! Amen.
Da questa domenica c’è una scelta diversa per l’autore del vangelo: le tre pericopi che scandiscono la terza, la quarta e la quinta Domenica di Quaresima, che ci conducono alla domenica delle palme e alla settimana santa, venivano usate come spunto di studio, di riflessione e di scrutinio nella formazione dei catecumeni, i quali concludevano il loro percorso di iniziazione cristiana nella notte di Pasqua, ricevendo il Battesimo. L’incontro di Gesù con la samaritana al pozzo di Sicar, la guarigione del cieco nato e la risurrezione di Lazzaro, segnano anche oggi le tappe di questo cammino (in presenza di catecumeni possono essere ripetute in queste domeniche anche nei cicli B o C), poiché si prestano egregiamente non solo a descrivere il percorso di fede dei vari protagonisti, ma anche a fare, da parte dei battezzati, un serio esame critico sui progressi della loro vita cristiana.
Abbiamo quindi un passaggio di consegne da Matteo a Giovanni. Ma perché proprio Giovanni? Perché parlando di Gesù, Giovanni non si accontenta di accennare ai fatti in maniera distaccata e scarna, come fanno gli altri, ma nel suo Vangelo ogni singolo episodio viene affrontato con estrema ricchezza di particolari, di sfumature, di annotazioni psicologiche, soprattutto nel descrivere gli incontri faccia a faccia. Sono scene così ben descritte che si impongono alla nostra attenzione, che toccano le corde più sensibili del nostro cuore e trasmettono un profondo insegnamento. Un immediato riscontro lo abbiamo infatti oggi stesso, nella prima delle tre pericopi, che descrive appunto in maniera stupenda il colloquio fra Gesù e la donna di Samaria, presso il pozzo di Giacobbe.
Siamo nel periodo dell’anno che precede la mietitura, quindi in estate già avanzata. Gesù, stanco per il lungo camminare, accaldato, si ferma a riposare in prossimità di Sicar, ai bordi di quel pozzo che fu di Giacobbe. Gesù è solo: i suoi discepoli lo hanno lasciato per cercare qualcosa per il pranzo. Il caldo è insopportabile; ha una gran sete, ma essendo sprovvisto di qualsiasi tipo di recipiente, non può attingere l’acqua, laggiù in basso, a circa una trentina di metri. Caso veramente fortunato per quell’ora, si presenta una donna che ha con sé una brocca. Certo deve essere una donna piuttosto singolare, se ha scelto di andare al pozzo nell’ora meno indicata: una donna che sceglie di attingere acqua sotto il solleone, lo fa sicuramente per evitare incontri imbarazzanti o per sottrarsi all’ascolto delle maldicenze sussurrate dalle altre donne nei suoi confronti. La sua reputazione, per motivi sentimentali, è in realtà molto compromessa: è una donna leggera, una poco di buono, giudicata e condannata dai benpensanti di ieri e di oggi. Per questo il giudizio su di lei è molto pesante, come molto pesante ed arido è il suo cuore, per essersi dissetata fino ad allora soltanto con acqua “inquinata”.
Ed è lì, al pozzo, che incrocia quell'ebreo stanco e assetato, che attacca bottone.
È guardinga, la samaritana: è stufa di farsi sedurre, è stufa di essere illusa, pensa subito che quel tale che le chiede da bere, voglia corteggiarla. Non sa ancora che quell’incontro è unico, irripetibile, determinante, profondo e miracoloso proprio per entrambi: si, perché Gesù trova la fede in una persona che, a giudizio di tutti, non l’aveva mai avuta o non l’aveva più; la donna invece incontra l'Amore: l’Amore quello vero, quello totale e coinvolgente, quell’Amore che tutti aspettavano da secoli. Un incontro, quello tra i due, che sconvolge ogni regola, che va contro il buon senso, che è contrario ad ogni norma religiosa. Gesù, il maestro, scavalca impassibile tutte le barriere di quel tempo: la barriera del sesso (un rabbino, un maestro, non doveva mai rivolgere la parola ad una donna fuori di casa, fosse pure la moglie!); la barriera di razza (i samaritani erano considerati dei bastardi in quanto erano mescolanza con gli assiri); la barriera di nazionalità ( i samaritani erano considerati forestieri); la barriera di religione (erano considerati scismatici e impuri); la barriera del buon comportamento (parlare al pozzo ad una donna era corteggiarla, farle delle avances, "provarci" insomma, e la cosa sarebbe andata sulla bocca di tutti; gli stessi discepoli ne rimangono scandalizzati!).
A Gesù tutto questo non interessa, egli rompe ogni schema e le parla. Egli è un uomo al di sopra di qualunque pregiudizio, ed è per questo che nella sua vita ha sempre fatto incontri meravigliosi. Gesù non si ferma a ciò che si dice in giro; è completamente indifferente a ciò che gli uni pensano e dicono degli altri. Gesù non dice: “Questo è ricco (Zaccheo), questa è una donna di malaffare (adultera, samaritana), questo è un ladro (Matteo Levi), questo la legge non lo permette (guarire di sabato), questo non sta bene (la donna che lavò con le lacrime i suoi piedi e con i capelli glieli asciugò), questi sono pagani, eretici (samaritani), questi sono peccatori (pubblicani, prostitute)!” Gesù è al di fuori di ogni schema umano: per questo risulta scomodo e fastidioso a tutte quelle persone che sono piene di regole, a tutte quelle persone che sono rigide, con una mentalità bacchettona e ristretta.
Il dialogo che Gesù intavola con la Samaritana è dunque un capolavoro di finezza psicologica e di delicatezza divina.
Allo straniero che gli chiede un piacere, la Samaritana si presenta subito insofferente e molto sicura di sé. Alla richiesta di aiuto: “Dammi da bere!”, la sua secca risposta: “Come mai un Giudeo si abbassa a chiedere da bere a me che sono samaritana?” non è delle più incoraggianti per Gesù; ma a Lui è comunque sufficiente, perché se ne serve come aggancio, come pretesto, per portare subito il discorso là dove Egli voleva; è la sete della donna per “un’altra acqua” quella che interessa a Gesù: tant’è che la sua sete personale, il suo “dissetarsi”, viene accantonato, dimenticato, non se ne parla più. Gettato il ponte della comunicazione, Gesù dimentica la sua “arsura” e tutta la sua attenzione è volta a lei, alla samaritana: alla sua persona, al suo credo, al suo cuore. Ebbene, quella samaritana siamo tutti noi, fratelli, con le nostre necessità, i nostri problemi, le nostre difficoltà. Succede sempre così: se da un lato il Signore usa il pretesto di chiederci qualche inezia, lo fa per darci di più: anzi egli ci dà tutto, ha sempre cose molto più importanti da offrirci; ce lo fa capire chiaramente anche in questo racconto, attraverso questa donna, in apparenza molto disinvolta e sicura di sé, ma in realtà molto angosciata e insoddisfatta della sua vita. Si, fratelli: perché, lo ripeto, lei e noi siamo sullo stesso piano, entrambi abbiamo sete, tanta sete: una sete profonda, totale, subdola. È la sete di amore, di bene, di affetto, di luce, di pace, di senso che inquieta le nostre vite.
Una sete profonda, misteriosa, che rischiamo di sottovalutare o, peggio, di saziare con acqua inquinata e “salata” che, dopo una prima apparente soddisfazione, amplifica a dismisura l’arsura e il desiderio di bere. Lei ne sa qualcosa. E anche noi. Entrambi siamo fragili, non abbiamo trovato in questo mondo niente e nessuno che ci possa dissetare sul serio. Abbiamo ancora sete, sete d'Amore. Come tutti.
Gesù ci ha aspettato al nostro pozzo battesimale: continua ad aspettarci sempre alla sorgente di acqua viva dei suoi sacramenti: qui egli ci cerca, uno per uno. Egli continua ad aspettarci, continua ad avere sete di noi, non per giudicarci, ma per dissetarci. Egli ha sete della nostra fede, del nostro amore. Stanco di aspettare, è Lui che per primo prende l'iniziativa: si, stanco; perché Dio è stanco di correre dietro alle sue pecore infedeli, che insistono a dissetarsi in cisterne fatiscenti, piene di acqua putrida, ignorando volutamente le fresche e vive sorgenti di acqua limpida che sgorgano dal suo cuore. Stolti!
E Gesù insiste: “se vuoi essere dissetata - fa capire alla donna - devi essere onesta con te stessa. Dio non ti giudica, Dio non ti condanna, gli altri sì, sempre, sistematicamente, tutti, anche quelli che si dicono uomini di Dio: più si sentono di chiesa, peggio ti giudicano; no, stai serena: con me non hai nessun esame da superare, devi solo renderti conto dei tuoi limiti”. Beh, per chi è carico di pregiudizi, anche un’offerta così vantaggiosa è difficile da accettare, non vi pare?
La donna infatti svicola, non capisce e la mette sul religioso: “Ma Dio non bisogna pregarlo a Gerusalemme, nel tempio, o qui in Samaria, sul Garizim?”. Domanda ingenua! Domanda pretestuosa, tanto per prendere tempo: lei sa perfettamente infatti che, pubblica peccatrice, non può entrare in alcun Tempio, né in quello di Gerusalemme, né tantomeno in quello dei Samaritani, in quanto inesistente, già distrutto. La religione esteriore ha le proprie regole, e lei è decisamente fuori. “E invece no”, dice Gesù: “il tuo cuore è già un tempio; la tua verità, il tuo spirito, il tuo cuore ti permettono di entrare nella gloria. Tu sei un tempio e lì puoi incontrare Dio”. Tace, la donna. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l'aveva amata. Il mondo si era diviso in chi l'aveva usata e in chi l'aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. E beve, ora, la samaritana: beve avidamente, a garganella, come se mai avesse provato il gusto dell'acqua, come sei mai avesse assaggiato l'acqua fresca di sorgente. Beve, e sente aprirsi dentro di lei una sorgente impetuosa, sente il suo cuore, costretto e inaridito dal dolore, spalancarsi con l’impeto di un fiume in piena, sente la roccia del suo cuore frantumarsi in un Amore nuovo, sconosciuto, senza limiti, un Amore che la travolge. E corre. Abbandona la brocca (che le importa, ora?), corre dai suoi vicini, dai suoi concittadini e grida: è arrivato il Messia! La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, si trasforma in un'opera d'arte. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l'epifania del volto di Dio.
Continua a bere, ora, la samaritana: perché anche lei è diventata sorgente inarrestabile.
Follia, fratelli, follia. Riusciremo mai anche noi a convertirci a tanto?
Incontrare Gesù, fratelli, è ammettere la realtà di noi stessi, è come guardarsi allo specchio. Incontrare Gesù, aver fede in lui, non si risolve in un pio esercizio ascetico, ma è l'incontro con ciò che siamo realmente. Perché Gesù ci conosce. Gesù è colui che ci smaschera, che se nascondiamo qualcosa, Lui ce lo rinfaccia, davanti e subito. Non si può incontrare Gesù e pensare di nasconderci. Di fronte a Lui non si può mentire, scappare, raccontarsi “balle”. E chi vuol evitare quest'incontro, evita Dio stesso, evita l'Incontro, perché Dio è Spirito e Verità. Non facciamo come la donna samaritana al pozzo: pur di evitare la verità, pur di non vedersi per quello che è, sposta il discorso sul piano religioso. Eppure, fratelli, quante volte ci appelliamo anche noi ad un “dialogo sui massimi sistemi”! Quante volte ci tuffiamo in discorsi che riguardano Dio, la teologia, la spiritualità, la preghiera, pur di non guardare dentro di noi, pur di non leggere i segnali della nostra tremenda arsura che cuore e anima disperatamente ci lanciano. Certo è più facile parlare di Dio, di vera religione; è più semplice parlare della società, della politica e soprattutto degli altri, piuttosto che mettere in piena luce il nostro spirito aggressivo, capire il nostro cuore ferito e impaurito, per correre ai ripari. Gesù è chiaro: se non incontri il tuo spirito nella verità, non puoi crescere. Se vuoi l'acqua viva, devi scendere nel pozzo della tua vita e bagnarti, lavarti, lavarti nella Verità. Neanche la tua fede è vera se non tocca il tuo spirito, il tuo cuore, il tuo profondo. Neanche la tua fede è vera se non passa al vaglio della Verità. Ogni uomo, ogni donna si porta in cuore "un crepaccio assetato di Infinito", scriveva Kierkegaard. È l’infinito dell’Amore di Dio, la nostra salvezza.
Purtroppo la nostra vita è tutta un vagare da un pozzo all'altro e spesso ci illudiamo di spegnere la nostra grande sete con cento, mille piccoli sorsi di un'acqua imbevibile. E così la sete aumenta... la ricerca spasmodica di una vita più felice, più bella, più gratificante, diventa una corsa ossessiva, disperante e disperata: si riduce ad un comprare, consumare, fare esperienze sempre più sensazionali, provare emozioni sempre più forti, cercare di guadagnare sempre di più per godere più che si può. Il risultato? Insoddisfazione crescente, nausea dominante, il baratro della noia e della depressione.
È in questo deserto del mondo contemporaneo che l’umanità, divorata dalla sete, continua a gridare, come gli Ebrei a Mosè: “Dacci da bere! Stiamo morendo di sete...”. Un grido che sale imperioso anche verso chi governa, verso le ideologie, verso la cultura. Ma è il grido soprattutto rivolto alla Chiesa: “Dacci da bere!” Un grido che, volenti o nolenti, raggiunge anche noi, popolo e chiesa di Dio. Una responsabilità che è anche nostra, fratelli. Che fine ha fatto l'acqua viva che dobbiamo offrire a questi fratelli assetati? Che cosa possiamo mai offrire di nostro alle immense attese degli uomini contemporanei? Che ne abbiamo fatto del nostro Battesimo? Dove abbiamo messo l’acqua viva che ci è stata donata? Dove sono le nostre riserve di cristiani? Tremenda richiesta di aiuto, fratelli! Tremenda nostra responsabilità, se per negligenza abbiamo lasciato ostruire i canali di trasmissione! Certo, è inquietante se pensiamo che Dio prende i suoi annunciatori tra la feccia, come la samaritana, che raccoglie per strada i reietti come noi, e li innalza alla dignità di discepoli! È inquietante, ma ci deve far coraggio: una cosa che ci deve far meditare profondamente fratelli. Ma allora, se le cose stanno così, che aspettiamo ancora? Riallacciamoci immediatamente alla Sorgente: diamo nuovo flusso e nuova vita nel nostro cuore a quel Dio, a quell’Amore inesauribile, che i nostri fratelli si aspettano da noi; diventiamo torrenti, canali, fiumi impetuosi di quell’Acqua Viva che, lo sappiamo bene, è l’unica che può mitigare la sete ardente e implacabile del mondo. Dissetiamoci e facciamo dissetare! Tutti quelli che ci avvicinano. Il tempo è breve, fratelli: siamo già col sole allo zenit, non aspettiamo la sera! Amen.
giovedì 17 marzo 2011
20 Marzo 2011 – II Domenica di Quaresima
«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…».
Oggi il Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione, la sua “location”. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli. Oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza, dal ”toccare il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. Ad un Gesù troppo umano, che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù troppo divino che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai sacrifici e alla preghiera continua? Dov'è il giusto? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci. Oggi, in particolare, Gesù cerca di dare una risposta su ciò che può rendere felice l’uomo in questa terra. Ci dà un piccolo assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il sorriso e la fiducia. Bene: Gesù, in poche parole, ci dice che la nostra vita può diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un anticipo paradisiaco semplicemente attraverso l’amore. Sì, fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, quanto sia immenso l’amore che Dio ha per tutti noi.
La “trasfigurazione”, la nostra “trasfigurazione”, è dunque questo: vedere e sperimentare con gli occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano potrà mai percepire. Questo ci dice il vangelo di oggi. Ma per capirlo, dobbiamo capire l’amore, fratelli: infatti, solo se siamo stati almeno una volta innamorati, se abbiamo perso la testa e fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato di vedere il mondo come un paradiso, un immenso giardino fiorito, perché qualcuno ci ha detto “ti amo”, solo allora possiamo sperare di capire il vangelo di oggi: sì, perché Gesù è un innamorato, un passionale convinto (ricordate con quanta decisione si dirige verso Gerusalemme, per incontrore la sua "passione"?), è un fuoco che divampa, che brucia, che infuoca chiunque incontri. “Dio è amore” ci conferma Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi all’amore e viverlo, può capire Dio. Tutti quelli che tengono chiuso il loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, lo continueranno a cercare, ma invano.
Trasfigurarsi: ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati veri, quelli che sono persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bambino, l'universo immenso nella faccia rugosa di un vecchio, le stelle, l'universo e tutti i soli che brillano, negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso che sarà successo anche a Voi, fratelli, di piangere davanti ad un volto disperato, al dolore di una perdita, a scene di altruismo e di amore eroico, come pure davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di esservi sentiti così pieni di gioia, di sensazioni profonde, di commozione così intensa, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Ma oggi invece so che vuol dire essere vivi, vuol dire percepire ciò che si vive dentro, ciò che gli "altri" vivono dentro; vuol dire lasciarci toccare il cuore, vuol dire lasciarci colpire e farci coinvolgere da ciò che succede intorno a noi, non essere duri come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo, in ogni caso freddi, gelidi, impassibili. In altre parole vuol dire lasciarsi “trasfigurare”. Sì, fratelli, sono questi i momenti della nostra "trasfigurazione"; sono i momenti in cui sentiamo con assoluta certezza che vale la pena di vivere, anche solo per pochi istanti; sono i momenti in cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità di esistere, di amare, di credere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la forza e il coraggio di andare avanti e di affrontare le "discese" dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di vita, di infinito, di "Dio", tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, "nero", indegno di essere vissuto, uno schifo. Dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci invada, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si muova (e-mozione), che nasca continuamente. E se questo non ci dovesse accadere, dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente se il nostro cuore viva ancora o sia già morto. Perché è proprio lo stupore, la capacità di emozionarci, di amare, che ci dice quanto siamo ancora vivi.
Questa è la Trasfigurazione. La nostra trasfigurazione. E noi ne possiamo fare esperienza diretta continuamente, basta avere gli “occhi” per vedere: per esempio quando ci innamoriamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando nel buio di una situazione difficile entra improvvisamente uno sprazzo di luce e, già persi, ritroviamo Dio, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando vediamo, percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, anche se dal di fuori non si vede nulla, questa è trasfigurazione. Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro faccia vera, il loro volto genuino, la loro figura così come è stata inizialmente creata da Dio, prima ancora di venire deformata dai giorni bui, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo, di essere così pieni, così ricchi da sentirci immensi, caldi come il sole, scintillanti come le vette innevate, o profondi come il mare, beh, dobbiamo sapere, fratelli, che anche questa è trasfigurazione. Il mondo, nella sua infelicità, dirà che noi siamo matti: in realtà forse un po’ matti anche lo saremo, ma sicuramente siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico” e “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci chiama quindi a tagliare tutti i cordoni ombelicali (dipendenze) per poter nascere, crescere e vivere ogni giorno: se infatti il cordone ombelicale non venisse tagliato, il bambino morirebbe; non tagliare certi legami (cioè limitarsi a cambiarli, cercare di renderli più liberi o veri, chiuderli, perdonarli, modificarli, trasformarli) non serve a nulla, fratelli: ci farebbero solo morire. Dobbiamo recidere senza esitazione questi cordoni per poter andare avanti: dobbiamo tagliare i cordoni ombelicali con quelle esperienze che ci hanno fatto male, con i traumi, con ciò che ci sarebbe piaciuto essere ma che non siamo mai stati e che mai potremo essere. Dobbiamo in una parola tagliare via tutto ciò che ci fa o ci ha fatto del male: perché conservarlo nel nostro cuore, anche se è solo un ricordo di tanti anni fa, significa farlo tornare ogni sacrosanto giorno, puntualmente, per rifarci del male; non tagliarlo significa continuare ad inseguire fantasie inutili, che esistono solo nella nostra mente, che non possono esistere, e che non sono mai esistite nella realtà. La vita, in questo senso, è un continuo tagliare cordoni ombelicali per poter crescere, per sviluppare e portare frutti. Ma c’è anche un cordone ombelicale che non va tagliato. È il legame con Dio che deve rimanere per sempre. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei attaccato qui, legato a me (re-ligione = essere legati), allora sei al sicuro. Questo legame rimane in eterno, questo cordone è d'acciaio e non si può troncare. Per quanto in basso tu cada o vada, questa corda ti terrà legato a me, e tu non ti perderai”.
Tabor significa poi anche "principio di luce". E noi abbiamo bisogno di luce, fratelli, abbiamo bisogno di esperienze che ci illuminino sulla nostra reale identità, che ci facciano scoprire le nostre possibilità, che ci facciano sentire forti, perché, solo in Dio, noi possiamo qualunque cosa. Abbiamo bisogno di sentire la nostra forza, di sentirci dire che "non è vero che siamo ad un punto di non ritorno"; che "non è vero che non possiamo cambiare"; che "non è vero che non possiamo essere felici in questa vita"; che "non è vero che siamo destinati a vivere nella mediocrità, nel tirare avanti". Abbiamo bisogno di persone che ci guardino negli occhi e che ci dicano: "Tu puoi"; che ci ripetano: "No, tu puoi essere diverso, tu puoi vivere meglio"; che ci strattonino e ci sveglino: "Osa, vola, non adattarti; sei un'aquila, non vivere come un pollo per paura!"; di persone che ci dicano: "Tu hai la luce nell’anima, io la vedo attraverso i tuoi occhi: sprigionala, tirala fuori, falla uscire". Abbiamo bisogno di "madri" che ci amino, che ci stimino, che ci accolgano, che siano per noi un abbraccio caldo e accogliente per la nostra paura, un porto sicuro nel momento di sconforto, di tristezza, di buio e di difficoltà. Abbiamo bisogno di "madri" che ci diano quell'amore che ci fa credere in noi, che ci fa sentire belli, buoni, desiderabili, importanti, preziosi, così da poter anche noi un giorno credere in noi stessi e andare avanti. Abbiamo bisogno di "padri" che ci trasmettano la forza di andare al largo, di non vivacchiare, che ci diano l'entusiasmo e la passione di vivere in pieno, con energia, con tutto noi stessi; di "padri" che ci invitino ad osare, a provare, a non aver paura.
Allora potremo andare serenamente anche verso la “passione”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro avremo energia, forza, entusiasmo: avremo Dio nel cuore.
Nella nostra “trasfigurazione”, nella nostra vita cristiana, chiediamoci in tutta umiltà e sincerità: “È ancora bello per noi stare qui con te, Signore?” “È ancora bello stare con te nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una risposta franca in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena di entusiasmo e di felicità: «Domine, bonum est nos hic esse – Signore, è bello per noi stare qui….». È vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, indistintamente, siamo chiamati a sperimentare nella nostra vita quanto sia bello stare con Dio.
Per farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dedicare tempo, coltivare l'amore, metterci in sintonia con la natura. Per farlo, come suggerisce il Padre, dobbiamo ascoltare. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello ha da dire l'uomo, ogni uomo, ogni nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per questo dobbiamo ascoltare: perché ascoltando riusciremo a recuperare nella nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio, dell'amore di Dio. Si, fratelli: perché è proprio dalla bellezza e dalla calda luminosità di Dio che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono mediaticamente dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, bene, bontà, amore. La bellezza di Dio, la bellezza della nostra anima innamorata: dobbiamo capire, fratelli, che la vera bellezza non è una questione esteriore, un fatto di canoni estetici! Possiamo infatti ricorrere a tutti gli “aiutini” di questo mondo, possiamo farci tagliuzzare in mille pezzi, possiamo farci siliconare a più non posso, senza con questo riuscire ad essere delle “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, immagine della bellezza di Dio, noi finiremmo con l’assomigliare a fredde, tirate, dure e infelici bambole, piuttosto che a “belle” persone!
Dobbiamo riappropriarci ad ogni costo di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in alto, lassù, sul monte Tabor, a fissare il nostro sguardo estatico sul Cristo trasfigurato. Perché è con la sua luce, con il calore del suo amore, che dobbiamo fare delle nostre chiese altrettanti Tabor, altrettanti luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, i momenti in cui preghiamo, devono riportare nella nostra quotidianità un briciolo di quella bellezza: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza, di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza: la bellezza e l'amore di Dio. Allora la vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente imparato a viverla e a donarla. Amen.
Oggi il Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione, la sua “location”. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli. Oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza, dal ”toccare il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. Ad un Gesù troppo umano, che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù troppo divino che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai sacrifici e alla preghiera continua? Dov'è il giusto? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci. Oggi, in particolare, Gesù cerca di dare una risposta su ciò che può rendere felice l’uomo in questa terra. Ci dà un piccolo assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il sorriso e la fiducia. Bene: Gesù, in poche parole, ci dice che la nostra vita può diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un anticipo paradisiaco semplicemente attraverso l’amore. Sì, fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, quanto sia immenso l’amore che Dio ha per tutti noi.
La “trasfigurazione”, la nostra “trasfigurazione”, è dunque questo: vedere e sperimentare con gli occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano potrà mai percepire. Questo ci dice il vangelo di oggi. Ma per capirlo, dobbiamo capire l’amore, fratelli: infatti, solo se siamo stati almeno una volta innamorati, se abbiamo perso la testa e fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato di vedere il mondo come un paradiso, un immenso giardino fiorito, perché qualcuno ci ha detto “ti amo”, solo allora possiamo sperare di capire il vangelo di oggi: sì, perché Gesù è un innamorato, un passionale convinto (ricordate con quanta decisione si dirige verso Gerusalemme, per incontrore la sua "passione"?), è un fuoco che divampa, che brucia, che infuoca chiunque incontri. “Dio è amore” ci conferma Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi all’amore e viverlo, può capire Dio. Tutti quelli che tengono chiuso il loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, lo continueranno a cercare, ma invano.
Trasfigurarsi: ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati veri, quelli che sono persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bambino, l'universo immenso nella faccia rugosa di un vecchio, le stelle, l'universo e tutti i soli che brillano, negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso che sarà successo anche a Voi, fratelli, di piangere davanti ad un volto disperato, al dolore di una perdita, a scene di altruismo e di amore eroico, come pure davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di esservi sentiti così pieni di gioia, di sensazioni profonde, di commozione così intensa, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Ma oggi invece so che vuol dire essere vivi, vuol dire percepire ciò che si vive dentro, ciò che gli "altri" vivono dentro; vuol dire lasciarci toccare il cuore, vuol dire lasciarci colpire e farci coinvolgere da ciò che succede intorno a noi, non essere duri come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo, in ogni caso freddi, gelidi, impassibili. In altre parole vuol dire lasciarsi “trasfigurare”. Sì, fratelli, sono questi i momenti della nostra "trasfigurazione"; sono i momenti in cui sentiamo con assoluta certezza che vale la pena di vivere, anche solo per pochi istanti; sono i momenti in cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità di esistere, di amare, di credere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la forza e il coraggio di andare avanti e di affrontare le "discese" dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di vita, di infinito, di "Dio", tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, "nero", indegno di essere vissuto, uno schifo. Dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci invada, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si muova (e-mozione), che nasca continuamente. E se questo non ci dovesse accadere, dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente se il nostro cuore viva ancora o sia già morto. Perché è proprio lo stupore, la capacità di emozionarci, di amare, che ci dice quanto siamo ancora vivi.
Questa è la Trasfigurazione. La nostra trasfigurazione. E noi ne possiamo fare esperienza diretta continuamente, basta avere gli “occhi” per vedere: per esempio quando ci innamoriamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando nel buio di una situazione difficile entra improvvisamente uno sprazzo di luce e, già persi, ritroviamo Dio, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando vediamo, percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, anche se dal di fuori non si vede nulla, questa è trasfigurazione. Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro faccia vera, il loro volto genuino, la loro figura così come è stata inizialmente creata da Dio, prima ancora di venire deformata dai giorni bui, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo, di essere così pieni, così ricchi da sentirci immensi, caldi come il sole, scintillanti come le vette innevate, o profondi come il mare, beh, dobbiamo sapere, fratelli, che anche questa è trasfigurazione. Il mondo, nella sua infelicità, dirà che noi siamo matti: in realtà forse un po’ matti anche lo saremo, ma sicuramente siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico” e “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci chiama quindi a tagliare tutti i cordoni ombelicali (dipendenze) per poter nascere, crescere e vivere ogni giorno: se infatti il cordone ombelicale non venisse tagliato, il bambino morirebbe; non tagliare certi legami (cioè limitarsi a cambiarli, cercare di renderli più liberi o veri, chiuderli, perdonarli, modificarli, trasformarli) non serve a nulla, fratelli: ci farebbero solo morire. Dobbiamo recidere senza esitazione questi cordoni per poter andare avanti: dobbiamo tagliare i cordoni ombelicali con quelle esperienze che ci hanno fatto male, con i traumi, con ciò che ci sarebbe piaciuto essere ma che non siamo mai stati e che mai potremo essere. Dobbiamo in una parola tagliare via tutto ciò che ci fa o ci ha fatto del male: perché conservarlo nel nostro cuore, anche se è solo un ricordo di tanti anni fa, significa farlo tornare ogni sacrosanto giorno, puntualmente, per rifarci del male; non tagliarlo significa continuare ad inseguire fantasie inutili, che esistono solo nella nostra mente, che non possono esistere, e che non sono mai esistite nella realtà. La vita, in questo senso, è un continuo tagliare cordoni ombelicali per poter crescere, per sviluppare e portare frutti. Ma c’è anche un cordone ombelicale che non va tagliato. È il legame con Dio che deve rimanere per sempre. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei attaccato qui, legato a me (re-ligione = essere legati), allora sei al sicuro. Questo legame rimane in eterno, questo cordone è d'acciaio e non si può troncare. Per quanto in basso tu cada o vada, questa corda ti terrà legato a me, e tu non ti perderai”.
Tabor significa poi anche "principio di luce". E noi abbiamo bisogno di luce, fratelli, abbiamo bisogno di esperienze che ci illuminino sulla nostra reale identità, che ci facciano scoprire le nostre possibilità, che ci facciano sentire forti, perché, solo in Dio, noi possiamo qualunque cosa. Abbiamo bisogno di sentire la nostra forza, di sentirci dire che "non è vero che siamo ad un punto di non ritorno"; che "non è vero che non possiamo cambiare"; che "non è vero che non possiamo essere felici in questa vita"; che "non è vero che siamo destinati a vivere nella mediocrità, nel tirare avanti". Abbiamo bisogno di persone che ci guardino negli occhi e che ci dicano: "Tu puoi"; che ci ripetano: "No, tu puoi essere diverso, tu puoi vivere meglio"; che ci strattonino e ci sveglino: "Osa, vola, non adattarti; sei un'aquila, non vivere come un pollo per paura!"; di persone che ci dicano: "Tu hai la luce nell’anima, io la vedo attraverso i tuoi occhi: sprigionala, tirala fuori, falla uscire". Abbiamo bisogno di "madri" che ci amino, che ci stimino, che ci accolgano, che siano per noi un abbraccio caldo e accogliente per la nostra paura, un porto sicuro nel momento di sconforto, di tristezza, di buio e di difficoltà. Abbiamo bisogno di "madri" che ci diano quell'amore che ci fa credere in noi, che ci fa sentire belli, buoni, desiderabili, importanti, preziosi, così da poter anche noi un giorno credere in noi stessi e andare avanti. Abbiamo bisogno di "padri" che ci trasmettano la forza di andare al largo, di non vivacchiare, che ci diano l'entusiasmo e la passione di vivere in pieno, con energia, con tutto noi stessi; di "padri" che ci invitino ad osare, a provare, a non aver paura.
Allora potremo andare serenamente anche verso la “passione”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro avremo energia, forza, entusiasmo: avremo Dio nel cuore.
Nella nostra “trasfigurazione”, nella nostra vita cristiana, chiediamoci in tutta umiltà e sincerità: “È ancora bello per noi stare qui con te, Signore?” “È ancora bello stare con te nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una risposta franca in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena di entusiasmo e di felicità: «Domine, bonum est nos hic esse – Signore, è bello per noi stare qui….». È vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, indistintamente, siamo chiamati a sperimentare nella nostra vita quanto sia bello stare con Dio.
Per farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dedicare tempo, coltivare l'amore, metterci in sintonia con la natura. Per farlo, come suggerisce il Padre, dobbiamo ascoltare. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello ha da dire l'uomo, ogni uomo, ogni nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per questo dobbiamo ascoltare: perché ascoltando riusciremo a recuperare nella nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio, dell'amore di Dio. Si, fratelli: perché è proprio dalla bellezza e dalla calda luminosità di Dio che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono mediaticamente dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, bene, bontà, amore. La bellezza di Dio, la bellezza della nostra anima innamorata: dobbiamo capire, fratelli, che la vera bellezza non è una questione esteriore, un fatto di canoni estetici! Possiamo infatti ricorrere a tutti gli “aiutini” di questo mondo, possiamo farci tagliuzzare in mille pezzi, possiamo farci siliconare a più non posso, senza con questo riuscire ad essere delle “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, immagine della bellezza di Dio, noi finiremmo con l’assomigliare a fredde, tirate, dure e infelici bambole, piuttosto che a “belle” persone!
Dobbiamo riappropriarci ad ogni costo di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in alto, lassù, sul monte Tabor, a fissare il nostro sguardo estatico sul Cristo trasfigurato. Perché è con la sua luce, con il calore del suo amore, che dobbiamo fare delle nostre chiese altrettanti Tabor, altrettanti luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, i momenti in cui preghiamo, devono riportare nella nostra quotidianità un briciolo di quella bellezza: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza, di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza: la bellezza e l'amore di Dio. Allora la vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente imparato a viverla e a donarla. Amen.
giovedì 10 marzo 2011
13 Marzo 2011 – I Domenica di Quaresima
«Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse…».
Dopo la lunga paternale delle beatitudini con cui Gesù in queste ultime domeniche ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità, è arrivata finalmente la quaresima. Beh, finalmente per modo di dire, perché la quaresima non è il tempo dell’adagiarsi, del riposare sugli allori, del tirare finalmente il fiato dopo le sberle che abbiamo incassato; nossignori. Quaresima vuol dire “convertirsi” da “con-vertere”, ossia fare una inversione ad “u” rispetto alla direzione che stavamo seguendo; significa tornare indietro, tornare sui nostri passi, sui valori autentici del vangelo, per ripartire, questa volta, col piede giusto. Quaresima è il tempo della prova, il tempo del rodaggio su strada dei nostri buoni propositi, di quelli cioè che di fronte a Dio abbiamo deciso di portare avanti: “Sì, Signore, hai ragione; è come dici tu: se mi misuro con quanto hai detto, sono proprio zero, una nullità. Non ho ancora capito nulla di te; debbo proprio rimboccarmi le maniche: e questa volta ti farò vedere…”. Ecco, è quel “ti farò vedere”, quella decisione presa in un istante di vergognosa sincerità, sgorgata giù, nell’intimo del nostro cuore, che automaticamente spazza via ogni velleità di “riposo”.
Non c’è riposo nel cammino che ci porta a seguire Cristo. Illusi noi, se pensassimo ad una tale eventualità. Quaresima, dunque: tempo di bilanci, tempo di verifiche, tempo di analisi sulla nostra salute spirituale, tempo per pianificare concretamente la nostra “conversione”, la nostra ripartenza, ma soprattutto tempo di far vedere a Dio che siamo persone serie e non i soliti burattini.
Finalmente il carnevale è finito, fratelli: ora è tempo di gettare le maschere, quelle maschere che da anni, troppi, ci portiamo incollate addosso, quelle che ci fanno illudere di essere diversi, quelle che ci piace tanto ostentare davanti agli altri, per essere considerati migliori di quello che siamo! Quelle che a volte non ci vergogniamo di indossare neppure quando siamo soli, a tu per tu con Dio! Quanto siamo meschini! Eppure “ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!”. Lo abbiamo sentito mercoledì scorso dal sacerdote che ci imponeva le sacre ceneri. Polvere, fratelli, siamo solo polvere; insignificante e arida polvere del deserto primordiale. Senza il soffio di Dio, siamo polvere senza vita. Senza di Lui, siamo polvere inutile: perché è Dio che ci riempie di immortalità, di speranza, di sogni.
Purtroppo viviamo in un mondo carico di odio, di lotte e di continue contrapposizioni a tutti i livelli: politico, religioso, culturale, sociale, economico. L’unico scopo della nostra vita sembra essere quello di vincere battaglie, tutte le battaglie, e di assicurarci un posto dalla parte “ricca” del vincitore. Siamo in continua ansia da guerra: e quel che è peggio ci siamo convinti di essere noi i più forti, di essere sempre noi i vincitori, gli indistruttibili, gli unici, i migliori. E questo nonostante Gesù con la sua vita ci abbia insegnato il contrario: egli infatti non è venuto tra noi per vincere. Non è venuto per dimostrarsi potente e senza problemi. Non è venuto per vincere nessuna battaglia; si è calato nei nostri deserti quotidiani, nelle nostre fragilità umane fatte di fame, di debolezza e di peccato, per dimostrarci che non siamo soli e soprattutto che non siamo senza speranza. Gesù è entrato in questo nostro deserto, altrimenti invivibile: è entrato, e resta con noi, come uno di noi.
E nel vangelo di oggi, con il suo ritirarsi nella preghiera e nel silenzio, ci insegna come fare la nostra “con-versione”, come ripartire per un nuovo cammino, ci indica la nuova strada, quella sicura di seguire le sue orme, la strada dell’amore e della felicità; e per prima cosa ci insegna a liberarci dalle striscianti e ambigue illusioni del nemico tentatore.
Sì, Gesù ci dice di combattere le tentazioni: ma che sono le tentazioni? Qualcuno oggi parla ancora di tentazioni? In una società in cui tutto è permesso, tutto abbordabile e tutto attuabile (“desidero qualcosa? Me la prendo!”), che senso ha parlare di tentazioni? Eppure il cammino verso la nostra Pasqua, passa proprio di qui: quelle che Gesù vive e combatte in prima persona, sono le nostre grandi illusioni, i grandi inganni della nostra vita, quelli che non conosciamo ancora abbastanza, quelli che addirittura non vogliamo conoscere e che inesorabilmente ci ostacolano il cammino, o addirittura ci sviano. Gesù ce ne indica tre: il primo consiste nel voler sostituire Dio con le “cose”, assolutizzandole: “dì che queste pietre diventino pane”; è l’inganno di pensare che tutta la nostra vita consista e si realizzi qui, nel presente, che serva soltanto a saziare le nostre voglie. Il secondo inganno è quello che costruiamo pretendendo un sistematico intervento di Dio, teso a sanare i nostri egoismi, a rimediare ai nostri errori: «i suoi angeli ti porteranno sulle loro mani…». Infine, l’inganno più ambito, quello di rincorrere ricchezze, successo e potere, esigendoli ad ogni costo e con ogni mezzo, anche calpestando il prossimo e vendendo al diavolo la propria anima: «tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Ebbene, fratelli, sono queste le tentazioni che Gesù ha sconfitto; sono queste le tentazioni da cui ci mette in guardia; ma sono anche queste – idolatrare le cose, pretendere interventi risolutori di Dio, rincorrere le ricchezze e i piaceri materiali – le grandi conquiste dalle quali l’uomo si sente attratto, quelle che lui considera le sue grandi affermazioni personali.
Da qui la lezione di Gesù, chiara come al solito. Nella vita si impone una costante scelta; come diceva Sartre, l’uomo è condannato a scegliere, è condannato ad esercitare la sua libertà. E la libertà, lo sappiamo fratelli, la vera libertà, è un bene difficile da gestire.
Troppo spesso noi siamo “tentati” di delegare ad altri le nostre scelte di vita, le nostre opinioni, in quanto occupati a cercare altrove la sorgente della nostra felicità.
Nuovi Adamo ed Eva, giriamo senza sosta fra i tanti serpenti che ci incantano, facendoci credere che la felicità, la soluzione ad ogni nostro problema, è vicina, evidente, ovvia. E invece poi scopriamo che nessuna cosa di questo mondo riesce a soddisfare e a rendere felice l'incontentabile nostro cuore.
Nei vangeli il peccato è superato, perdonato, scomparso, a causa dell'immensa misericordia di Dio. È considerato solo indirettamente, di riflesso, come cartina di tornasole per dimostrare la bontà e l'amore senza limiti di Dio. Ma il peccato, con le sue suadenti e irresistibili tentazioni, il grande assente dalla nostra moderna mentalità, esiste, fratelli; eccome esiste! È il segno, la dimostrazione del dna dell’uomo, della sua libertà di scegliere e di sbagliare.
Ecco allora perché, in questo deserto della quaresima, è necessario che torniamo all'essenziale; che impariamo a capire chi, o che cosa, conduca la nostra vita, e verso dove; che ci rendiamo conto degli errori che facciamo, soprattutto quando insistiamo sempre negli stessi; quando ci incaponiamo in scelte scellerate, continuando a considerarci altrettanti Dio, a sentirci suoi pari. Già, proprio come successe ad Adamo ed Eva che peccarono pensando di diventare onnipotenti; sperimentarono invece che fu proprio grazie alla loro arroganza che si allontanarono tra loro, dal Creato e da Dio.
Questa quaresima ci metta in guardia su questa realtà; sia un invito a tener sempre presente la nostra innata fragilità, a guardare questa nostra nudità; sia pertanto occasione per riconoscere i nostri peccati, per gettarli tutti nel cuore incandescente di Dio. Appropriamoci così della nostra autenticità, e della nostra integrità morale.
Non cediamo alla tentazione di voler vincere sempre e a tutti i costi, ritenendoci inattaccabili.
Accettiamo con grande umiltà la nostra vita, nella sua precarietà, come ci ha insegnato Gesù. Perché solo allora sentiremo realizzate pienamente in noi le parole divine di amore, di conforto, di speranza. Solo allora ci sentiremo veramente beati, non perché perfetti, ma perché tanto amati. La nostra vita, oltre che deserto e fragilità, sarà allora anche certezza di avere Gesù sempre più vicino a noi, con noi, dentro di noi.
Ecco: questo è quanto ci dice oggi il vangelo: questa è la Parola che Gesù riversa nei nostri cuori; ascoltiamola e viviamola, fratelli. Anzi, diventiamo noi stessi bocca di Dio, voce di Dio, per portare, per condividere questa sua Parola, con tutti i nostri fratelli: perché alle parole ingannatrici di questo mondo, dobbiamo contrapporre la Parola di Dio, che è verità assoluta; alle parole di morte e di odio di questa nostra società, dobbiamo contrapporre la Parola di Dio, che è vita e amore. Amen.
Dopo la lunga paternale delle beatitudini con cui Gesù in queste ultime domeniche ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità, è arrivata finalmente la quaresima. Beh, finalmente per modo di dire, perché la quaresima non è il tempo dell’adagiarsi, del riposare sugli allori, del tirare finalmente il fiato dopo le sberle che abbiamo incassato; nossignori. Quaresima vuol dire “convertirsi” da “con-vertere”, ossia fare una inversione ad “u” rispetto alla direzione che stavamo seguendo; significa tornare indietro, tornare sui nostri passi, sui valori autentici del vangelo, per ripartire, questa volta, col piede giusto. Quaresima è il tempo della prova, il tempo del rodaggio su strada dei nostri buoni propositi, di quelli cioè che di fronte a Dio abbiamo deciso di portare avanti: “Sì, Signore, hai ragione; è come dici tu: se mi misuro con quanto hai detto, sono proprio zero, una nullità. Non ho ancora capito nulla di te; debbo proprio rimboccarmi le maniche: e questa volta ti farò vedere…”. Ecco, è quel “ti farò vedere”, quella decisione presa in un istante di vergognosa sincerità, sgorgata giù, nell’intimo del nostro cuore, che automaticamente spazza via ogni velleità di “riposo”.
Non c’è riposo nel cammino che ci porta a seguire Cristo. Illusi noi, se pensassimo ad una tale eventualità. Quaresima, dunque: tempo di bilanci, tempo di verifiche, tempo di analisi sulla nostra salute spirituale, tempo per pianificare concretamente la nostra “conversione”, la nostra ripartenza, ma soprattutto tempo di far vedere a Dio che siamo persone serie e non i soliti burattini.
Finalmente il carnevale è finito, fratelli: ora è tempo di gettare le maschere, quelle maschere che da anni, troppi, ci portiamo incollate addosso, quelle che ci fanno illudere di essere diversi, quelle che ci piace tanto ostentare davanti agli altri, per essere considerati migliori di quello che siamo! Quelle che a volte non ci vergogniamo di indossare neppure quando siamo soli, a tu per tu con Dio! Quanto siamo meschini! Eppure “ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!”. Lo abbiamo sentito mercoledì scorso dal sacerdote che ci imponeva le sacre ceneri. Polvere, fratelli, siamo solo polvere; insignificante e arida polvere del deserto primordiale. Senza il soffio di Dio, siamo polvere senza vita. Senza di Lui, siamo polvere inutile: perché è Dio che ci riempie di immortalità, di speranza, di sogni.
Purtroppo viviamo in un mondo carico di odio, di lotte e di continue contrapposizioni a tutti i livelli: politico, religioso, culturale, sociale, economico. L’unico scopo della nostra vita sembra essere quello di vincere battaglie, tutte le battaglie, e di assicurarci un posto dalla parte “ricca” del vincitore. Siamo in continua ansia da guerra: e quel che è peggio ci siamo convinti di essere noi i più forti, di essere sempre noi i vincitori, gli indistruttibili, gli unici, i migliori. E questo nonostante Gesù con la sua vita ci abbia insegnato il contrario: egli infatti non è venuto tra noi per vincere. Non è venuto per dimostrarsi potente e senza problemi. Non è venuto per vincere nessuna battaglia; si è calato nei nostri deserti quotidiani, nelle nostre fragilità umane fatte di fame, di debolezza e di peccato, per dimostrarci che non siamo soli e soprattutto che non siamo senza speranza. Gesù è entrato in questo nostro deserto, altrimenti invivibile: è entrato, e resta con noi, come uno di noi.
E nel vangelo di oggi, con il suo ritirarsi nella preghiera e nel silenzio, ci insegna come fare la nostra “con-versione”, come ripartire per un nuovo cammino, ci indica la nuova strada, quella sicura di seguire le sue orme, la strada dell’amore e della felicità; e per prima cosa ci insegna a liberarci dalle striscianti e ambigue illusioni del nemico tentatore.
Sì, Gesù ci dice di combattere le tentazioni: ma che sono le tentazioni? Qualcuno oggi parla ancora di tentazioni? In una società in cui tutto è permesso, tutto abbordabile e tutto attuabile (“desidero qualcosa? Me la prendo!”), che senso ha parlare di tentazioni? Eppure il cammino verso la nostra Pasqua, passa proprio di qui: quelle che Gesù vive e combatte in prima persona, sono le nostre grandi illusioni, i grandi inganni della nostra vita, quelli che non conosciamo ancora abbastanza, quelli che addirittura non vogliamo conoscere e che inesorabilmente ci ostacolano il cammino, o addirittura ci sviano. Gesù ce ne indica tre: il primo consiste nel voler sostituire Dio con le “cose”, assolutizzandole: “dì che queste pietre diventino pane”; è l’inganno di pensare che tutta la nostra vita consista e si realizzi qui, nel presente, che serva soltanto a saziare le nostre voglie. Il secondo inganno è quello che costruiamo pretendendo un sistematico intervento di Dio, teso a sanare i nostri egoismi, a rimediare ai nostri errori: «i suoi angeli ti porteranno sulle loro mani…». Infine, l’inganno più ambito, quello di rincorrere ricchezze, successo e potere, esigendoli ad ogni costo e con ogni mezzo, anche calpestando il prossimo e vendendo al diavolo la propria anima: «tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Ebbene, fratelli, sono queste le tentazioni che Gesù ha sconfitto; sono queste le tentazioni da cui ci mette in guardia; ma sono anche queste – idolatrare le cose, pretendere interventi risolutori di Dio, rincorrere le ricchezze e i piaceri materiali – le grandi conquiste dalle quali l’uomo si sente attratto, quelle che lui considera le sue grandi affermazioni personali.
Da qui la lezione di Gesù, chiara come al solito. Nella vita si impone una costante scelta; come diceva Sartre, l’uomo è condannato a scegliere, è condannato ad esercitare la sua libertà. E la libertà, lo sappiamo fratelli, la vera libertà, è un bene difficile da gestire.
Troppo spesso noi siamo “tentati” di delegare ad altri le nostre scelte di vita, le nostre opinioni, in quanto occupati a cercare altrove la sorgente della nostra felicità.
Nuovi Adamo ed Eva, giriamo senza sosta fra i tanti serpenti che ci incantano, facendoci credere che la felicità, la soluzione ad ogni nostro problema, è vicina, evidente, ovvia. E invece poi scopriamo che nessuna cosa di questo mondo riesce a soddisfare e a rendere felice l'incontentabile nostro cuore.
Nei vangeli il peccato è superato, perdonato, scomparso, a causa dell'immensa misericordia di Dio. È considerato solo indirettamente, di riflesso, come cartina di tornasole per dimostrare la bontà e l'amore senza limiti di Dio. Ma il peccato, con le sue suadenti e irresistibili tentazioni, il grande assente dalla nostra moderna mentalità, esiste, fratelli; eccome esiste! È il segno, la dimostrazione del dna dell’uomo, della sua libertà di scegliere e di sbagliare.
Ecco allora perché, in questo deserto della quaresima, è necessario che torniamo all'essenziale; che impariamo a capire chi, o che cosa, conduca la nostra vita, e verso dove; che ci rendiamo conto degli errori che facciamo, soprattutto quando insistiamo sempre negli stessi; quando ci incaponiamo in scelte scellerate, continuando a considerarci altrettanti Dio, a sentirci suoi pari. Già, proprio come successe ad Adamo ed Eva che peccarono pensando di diventare onnipotenti; sperimentarono invece che fu proprio grazie alla loro arroganza che si allontanarono tra loro, dal Creato e da Dio.
Questa quaresima ci metta in guardia su questa realtà; sia un invito a tener sempre presente la nostra innata fragilità, a guardare questa nostra nudità; sia pertanto occasione per riconoscere i nostri peccati, per gettarli tutti nel cuore incandescente di Dio. Appropriamoci così della nostra autenticità, e della nostra integrità morale.
Non cediamo alla tentazione di voler vincere sempre e a tutti i costi, ritenendoci inattaccabili.
Accettiamo con grande umiltà la nostra vita, nella sua precarietà, come ci ha insegnato Gesù. Perché solo allora sentiremo realizzate pienamente in noi le parole divine di amore, di conforto, di speranza. Solo allora ci sentiremo veramente beati, non perché perfetti, ma perché tanto amati. La nostra vita, oltre che deserto e fragilità, sarà allora anche certezza di avere Gesù sempre più vicino a noi, con noi, dentro di noi.
Ecco: questo è quanto ci dice oggi il vangelo: questa è la Parola che Gesù riversa nei nostri cuori; ascoltiamola e viviamola, fratelli. Anzi, diventiamo noi stessi bocca di Dio, voce di Dio, per portare, per condividere questa sua Parola, con tutti i nostri fratelli: perché alle parole ingannatrici di questo mondo, dobbiamo contrapporre la Parola di Dio, che è verità assoluta; alle parole di morte e di odio di questa nostra società, dobbiamo contrapporre la Parola di Dio, che è vita e amore. Amen.
giovedì 3 marzo 2011
6 Marzo 2011 – IX Domenica del Tempo Ordinario
«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli…».
Parole semplici, all’apparenza tranquille, ma in realtà, a ben meditarle, sono un po’ come il classico colpo che ti stende, che ti mette a KO. Ricordate Matteo capitolo cinque? Beh, non è che Matteo capitolo sette sia da meno. Gesù ci aveva già messo in crisi: ma in quel meraviglioso scenario che sovrasta il lago di Genezareth, prima di concludere il “discorso della montagna”, egli continua imperterrito a smontare una ad una tutte le nostre sicurezze, le nostre facciate di parata, il nostro perbenismo di maniera, le nostre troppe costruzioni, magari anche belle e geniali, ma fondate sulle sabbie inconsistenti del nostro voler apparire ad ogni costo, del nostro superbo egoismo.
Le nostre fidate compagne di viaggio – ostentazione, doppiezza, esteriorità, banalità, superficialità – rendono il nostro cristianesimo fin troppo facile. Con queste partner, il nostro cammino sembra volare, non esistono sacrifici o privazioni che si frappongano al nostro procedere, che intralcino la nostra strada: tutto fila liscio. Del resto come sarebbe possibile il contrario, visto che tutto è fondato sulle sfumature dell’apparire e del dire piuttosto che sulla concretezza dell’essere e del fare?
Anche oggi abbiamo dunque un Gesù che non lascia ampi margini alla nostra furbizia e inventiva, un Gesù che condanna decisamente le nostre chiacchiere magistrali, il darla a bere a chiunque, il vendere fischi per fiaschi: cose che, con la nostra grande disinvoltura, ci riescono sempre magistralmente.
Ma «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio…».
È inappellabile, Gesù: nessun “distinguo”. Nessuna eccezione. Ancora una volta ci viene ribadito che il tempo di vivacchiare, illudendoci, è finito: ancora una volta il nostro tirare avanti viene messo in discussione; così: non può bastare il nostro piccolo sforzo domenicale di andare in chiesa, semplicemente; non può bastare lo stare lì impalati, con la testa chissà dove; non può bastare la nostra offerta, spesso fatta con ostentazione, a beneficio di chi guarda; non può bastare il sorriso di circostanza nel dare la pace al vicino. Tutto questo non basta più. Non sono atteggiamenti che caratterizzano una vita cristiana. Sono atteggiamenti da istrioni.
Gesù ci ricorda, fratelli, che la nostra fede non ammette finzioni scenografiche: il cristianesimo è autenticità, non è sinonimo di parvenza, non si identifica con quel teatrale bigottismo, che purtroppo ancora si annida nelle nostre chiese. Questo modo di comportarsi non è gradito a Dio; non corrisponde al «fare la volontà» di Dio.
Inutile che scuotiamo increduli il capo: se non mettiamo in pratica i nostri credo, se non viviamo in pieno la nostra fede, senza “se” e senza “ma”, siamo automaticamente “out”, siamo fuori, siamo nel peccato (ci ricordiamo ancora del peccato di “omissione”?), la nostra vita è motivo di condanna.
«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, le prostitute prenderanno il vostro posto nel regno dei cieli». Capite? Autenticità e trasparenza sono quindi indispensabili per non fallire nel nostro cammino di vita spirituale; perché, fratelli, qualunque maschera indossiamo, arriviamo semmai ad ingannare gli altri, e forse anche noi stessi, ma non Dio; di sicuro!
Gesù non apprezza i fanfaroni, quelli che mettono se stessi e lo loro chiacchiere avanti a tutto e a tutti. Ciò che conta per il Signore, è la perfetta sintonia fra il dire e il fare, fra l'ascoltare la voce di Dio e il mettere in pratica i suoi insegnamenti. Quindi dobbiamo costruire la nostra spiritualità non sulla fragilità delle nostre infatuazioni o delle nostre pseudo aspirazioni, ma sulla concretezza del nostro vissuto, sulla roccia dei nostri comportamenti. Perché quando la tempesta arriva – e prima o poi, fratelli, arriva per tutti – i nostri sogni sfumano, le nostre devozioni aridamente esibite svaniscono, le nostre false sembianze si dissolvono. Ciò che resta, come dice il Signore, è soltanto quello che abbiamo costruito sulla salda roccia del Vangelo.
Per meglio rendere la sua idea Gesù ci parla di due case. Due case all’apparenza identiche: una però costruita sulla sabbia, l’altra sulla roccia. Identiche sono anche le avversità che si scatenano contro di loro: il cadere forte della pioggia, lo straripare dei fiumi, il soffiare dei venti. Sono le contrarietà della vita: per tutti infatti arriva il tempo della tempesta, delle difficoltà, del buio, della crisi, del meccanismo che s'inceppa. Ed è qui che si vede quello che realmente siamo, perché quelle case del vangelo siamo noi. È di fronte alle prove che si vede come siamo dentro, in profondità: e se non siamo la casa sulla roccia, se non c’è forza in noi, se non c’è convinzione, fede solida, tutto finisce, tutto crolla, tutto si sgretola.
Quanti programmi di vita, fratelli, abbiamo iniziato con i migliori propositi! Le nostre scelte erano sicuramente convinte, quello che ci siamo proposti lo abbiamo anche iniziato generosamente, convinti di seguire la nostra vocazione; non c’era inganno nelle nostre decisioni: ma, purtroppo, non c'era sufficiente profondità e convinzione nel nostro agire. E così dopo qualche tempo, con il passare dei giorni, l’entusiasmo si è spento, tutto si è appiattito; abbiamo continuato alla meglio, abbiamo "tirato avanti" per non sfigurare davanti ai superiori, alla famiglia, agli amici, alla gente.
Quanti ripensamenti! Quanti giovani sono passati e continuano a passare, attraverso l’esperienza del matrimonio, quanti per i seminari, quanti per i conventi e la vita religiosa, senza perseveranza alcuna; quanti cristiani, quanti sposi, quanti preti, quanti frati e suore, intraprendono pieni di entusiasmo e di grandi risorse il cammino radioso della loro vocazione e – dopo un inizio esaltante: “Andrò fino in fondo; non mollerò mai; è la svolta della mia vita; Signore, ti seguirò fino alla morte” – non resistono alla prova, non riescono a tenere; dopo aver “messo mano all’aratro”, per una piccola difficoltà, per una delusione, per un primo scontro, “si girano indietro” e abbandonano tutto; non hanno stabilità e risorse per affrontare le tempeste, i venti, l'afa, la calura, il “pondus diei et aestus”, la pesantezza del momento: e i loro buoni propositi, i loro giuramenti, si sciolgono come neve al sole... Non avevano le radici saldamente ancorate!
Quante volte, fratelli, ci è capitato di vedere lungo le strade alberi imponenti abbattuti dal vento. Alberi altissimi, dalla chioma lussureggiante, con tronchi massicci; alberi enormi, possenti, forti…, ma con radici cortissime! Un soffio di vento fuori dal normale è stato sufficiente per abbatterli e umiliarli a terra. Era un piacere ammirarli: ma a tanta bellezza esteriore non corrispondeva altrettanta fortezza e robustezza interiore.
Così è per l’uomo, fratelli: così è per noi tutti. La nostra forza, ripeto, non sta nell’essere seducenti, nell’apparire, ma in ciò che abbiamo dentro, in ciò che siamo dentro. La nostra forza è il nostro cuore innamorato di Dio. Custodiamolo attentamente questo nostro cuore, perché come sarà il nostro cuore così saremo noi.
Una vita vittoriosa e fedele, non s'improvvisa. Non è frutto di magia. Va costruita piano piano, con eroica dedizione. La convivenza con il prossimo, con i confratelli, con la comunità, con la famiglia, non elimina i nostri problemi personali, anzi li amplifica; così se in noi c'è desiderio di verità, se c'è dialogo, se c'è profondità, se c’è amore, se c’è dedizione, la vita comune li amplifica; ma essa amplifica anche paure, insicurezze, cattiverie, egoismi, permalosità.
Non aspettiamoci miracoli dagli altri. I miracoli devono sgorgare dal nostro cuore.
Quante volte, nella prova, ci piangiamo inutilmente addosso: “Sono depresso; sono triste; non sento più amore; non ho più voglia di vivere; mi dà fastidio tutto; che mondo schifoso; non ci si può fidare di nessuno; è finito tutto…”. Fratelli miei, quando arriva la tempesta è già tardi. Quando soffiano i venti delle prove, è tardi! A cosa pensavamo prima? Come pensavamo di reggere, senza esserci occupati mai della consistenza delle nostre radici? Perché non siamo subito corsi ai ripari? Perché non abbiamo fatto per tempo massicce iniezioni di roccia divina per rinsaldare in Cristo le nostre fondamenta?
Dobbiamo fare molta attenzione, fratelli: perché il terremoto non avverte quando arriva, e non serve a nulla correre ai ripari mentre si sta scatenando. La vita ci riserva eventi che non possiamo prevedere in anticipo. Muoviamoci allora fin che siamo in tempo! Chiediamo a Dio di ritrovare nella sua Parola la forza di ricostruire quelli che dovremmo essere, di vivere in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad oggi. Non è facile seguire Gesù; egli stesso ci dice che non è un cammino semplice, ma la nostra forza sta nel sapere che Egli ci porge la mano dicendoci: “sono con te, coraggio!”.
E concludo: stiamo per entrare nella Quaresima; un motivo in più per cercare di vivere nello spirito delle beatitudini e di praticare l’amore del prossimo, certi che questo, questo solo, significa costruire la nostra casa sulla roccia. Non serve moltiplicare iniziative di grande spiritualità: accontentiamoci semplicemente di approfondire e di sviluppare questa grande verità. L’imposizione delle ceneri di mercoledì prossimo, ci faccia meditare sulla futilità delle parole, e sulla potenza della Parola: apriamoci all’ascolto di Dio Parola, trasformandolo in coerenza di vita. Vi ricordo, per inciso, che “Parola” in ebraico si dice “Dabàr”, un termine dal doppio significato: parola e atto; Dio cioè parla mentre agisce e agisce mentre parla. Noi non siamo Dio, fratelli; ma almeno cerchiamo, il più possibile, di fare altrettanto. Buona Quaresima. Amen.
Parole semplici, all’apparenza tranquille, ma in realtà, a ben meditarle, sono un po’ come il classico colpo che ti stende, che ti mette a KO. Ricordate Matteo capitolo cinque? Beh, non è che Matteo capitolo sette sia da meno. Gesù ci aveva già messo in crisi: ma in quel meraviglioso scenario che sovrasta il lago di Genezareth, prima di concludere il “discorso della montagna”, egli continua imperterrito a smontare una ad una tutte le nostre sicurezze, le nostre facciate di parata, il nostro perbenismo di maniera, le nostre troppe costruzioni, magari anche belle e geniali, ma fondate sulle sabbie inconsistenti del nostro voler apparire ad ogni costo, del nostro superbo egoismo.
Le nostre fidate compagne di viaggio – ostentazione, doppiezza, esteriorità, banalità, superficialità – rendono il nostro cristianesimo fin troppo facile. Con queste partner, il nostro cammino sembra volare, non esistono sacrifici o privazioni che si frappongano al nostro procedere, che intralcino la nostra strada: tutto fila liscio. Del resto come sarebbe possibile il contrario, visto che tutto è fondato sulle sfumature dell’apparire e del dire piuttosto che sulla concretezza dell’essere e del fare?
Anche oggi abbiamo dunque un Gesù che non lascia ampi margini alla nostra furbizia e inventiva, un Gesù che condanna decisamente le nostre chiacchiere magistrali, il darla a bere a chiunque, il vendere fischi per fiaschi: cose che, con la nostra grande disinvoltura, ci riescono sempre magistralmente.
Ma «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio…».
È inappellabile, Gesù: nessun “distinguo”. Nessuna eccezione. Ancora una volta ci viene ribadito che il tempo di vivacchiare, illudendoci, è finito: ancora una volta il nostro tirare avanti viene messo in discussione; così: non può bastare il nostro piccolo sforzo domenicale di andare in chiesa, semplicemente; non può bastare lo stare lì impalati, con la testa chissà dove; non può bastare la nostra offerta, spesso fatta con ostentazione, a beneficio di chi guarda; non può bastare il sorriso di circostanza nel dare la pace al vicino. Tutto questo non basta più. Non sono atteggiamenti che caratterizzano una vita cristiana. Sono atteggiamenti da istrioni.
Gesù ci ricorda, fratelli, che la nostra fede non ammette finzioni scenografiche: il cristianesimo è autenticità, non è sinonimo di parvenza, non si identifica con quel teatrale bigottismo, che purtroppo ancora si annida nelle nostre chiese. Questo modo di comportarsi non è gradito a Dio; non corrisponde al «fare la volontà» di Dio.
Inutile che scuotiamo increduli il capo: se non mettiamo in pratica i nostri credo, se non viviamo in pieno la nostra fede, senza “se” e senza “ma”, siamo automaticamente “out”, siamo fuori, siamo nel peccato (ci ricordiamo ancora del peccato di “omissione”?), la nostra vita è motivo di condanna.
«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, le prostitute prenderanno il vostro posto nel regno dei cieli». Capite? Autenticità e trasparenza sono quindi indispensabili per non fallire nel nostro cammino di vita spirituale; perché, fratelli, qualunque maschera indossiamo, arriviamo semmai ad ingannare gli altri, e forse anche noi stessi, ma non Dio; di sicuro!
Gesù non apprezza i fanfaroni, quelli che mettono se stessi e lo loro chiacchiere avanti a tutto e a tutti. Ciò che conta per il Signore, è la perfetta sintonia fra il dire e il fare, fra l'ascoltare la voce di Dio e il mettere in pratica i suoi insegnamenti. Quindi dobbiamo costruire la nostra spiritualità non sulla fragilità delle nostre infatuazioni o delle nostre pseudo aspirazioni, ma sulla concretezza del nostro vissuto, sulla roccia dei nostri comportamenti. Perché quando la tempesta arriva – e prima o poi, fratelli, arriva per tutti – i nostri sogni sfumano, le nostre devozioni aridamente esibite svaniscono, le nostre false sembianze si dissolvono. Ciò che resta, come dice il Signore, è soltanto quello che abbiamo costruito sulla salda roccia del Vangelo.
Per meglio rendere la sua idea Gesù ci parla di due case. Due case all’apparenza identiche: una però costruita sulla sabbia, l’altra sulla roccia. Identiche sono anche le avversità che si scatenano contro di loro: il cadere forte della pioggia, lo straripare dei fiumi, il soffiare dei venti. Sono le contrarietà della vita: per tutti infatti arriva il tempo della tempesta, delle difficoltà, del buio, della crisi, del meccanismo che s'inceppa. Ed è qui che si vede quello che realmente siamo, perché quelle case del vangelo siamo noi. È di fronte alle prove che si vede come siamo dentro, in profondità: e se non siamo la casa sulla roccia, se non c’è forza in noi, se non c’è convinzione, fede solida, tutto finisce, tutto crolla, tutto si sgretola.
Quanti programmi di vita, fratelli, abbiamo iniziato con i migliori propositi! Le nostre scelte erano sicuramente convinte, quello che ci siamo proposti lo abbiamo anche iniziato generosamente, convinti di seguire la nostra vocazione; non c’era inganno nelle nostre decisioni: ma, purtroppo, non c'era sufficiente profondità e convinzione nel nostro agire. E così dopo qualche tempo, con il passare dei giorni, l’entusiasmo si è spento, tutto si è appiattito; abbiamo continuato alla meglio, abbiamo "tirato avanti" per non sfigurare davanti ai superiori, alla famiglia, agli amici, alla gente.
Quanti ripensamenti! Quanti giovani sono passati e continuano a passare, attraverso l’esperienza del matrimonio, quanti per i seminari, quanti per i conventi e la vita religiosa, senza perseveranza alcuna; quanti cristiani, quanti sposi, quanti preti, quanti frati e suore, intraprendono pieni di entusiasmo e di grandi risorse il cammino radioso della loro vocazione e – dopo un inizio esaltante: “Andrò fino in fondo; non mollerò mai; è la svolta della mia vita; Signore, ti seguirò fino alla morte” – non resistono alla prova, non riescono a tenere; dopo aver “messo mano all’aratro”, per una piccola difficoltà, per una delusione, per un primo scontro, “si girano indietro” e abbandonano tutto; non hanno stabilità e risorse per affrontare le tempeste, i venti, l'afa, la calura, il “pondus diei et aestus”, la pesantezza del momento: e i loro buoni propositi, i loro giuramenti, si sciolgono come neve al sole... Non avevano le radici saldamente ancorate!
Quante volte, fratelli, ci è capitato di vedere lungo le strade alberi imponenti abbattuti dal vento. Alberi altissimi, dalla chioma lussureggiante, con tronchi massicci; alberi enormi, possenti, forti…, ma con radici cortissime! Un soffio di vento fuori dal normale è stato sufficiente per abbatterli e umiliarli a terra. Era un piacere ammirarli: ma a tanta bellezza esteriore non corrispondeva altrettanta fortezza e robustezza interiore.
Così è per l’uomo, fratelli: così è per noi tutti. La nostra forza, ripeto, non sta nell’essere seducenti, nell’apparire, ma in ciò che abbiamo dentro, in ciò che siamo dentro. La nostra forza è il nostro cuore innamorato di Dio. Custodiamolo attentamente questo nostro cuore, perché come sarà il nostro cuore così saremo noi.
Una vita vittoriosa e fedele, non s'improvvisa. Non è frutto di magia. Va costruita piano piano, con eroica dedizione. La convivenza con il prossimo, con i confratelli, con la comunità, con la famiglia, non elimina i nostri problemi personali, anzi li amplifica; così se in noi c'è desiderio di verità, se c'è dialogo, se c'è profondità, se c’è amore, se c’è dedizione, la vita comune li amplifica; ma essa amplifica anche paure, insicurezze, cattiverie, egoismi, permalosità.
Non aspettiamoci miracoli dagli altri. I miracoli devono sgorgare dal nostro cuore.
Quante volte, nella prova, ci piangiamo inutilmente addosso: “Sono depresso; sono triste; non sento più amore; non ho più voglia di vivere; mi dà fastidio tutto; che mondo schifoso; non ci si può fidare di nessuno; è finito tutto…”. Fratelli miei, quando arriva la tempesta è già tardi. Quando soffiano i venti delle prove, è tardi! A cosa pensavamo prima? Come pensavamo di reggere, senza esserci occupati mai della consistenza delle nostre radici? Perché non siamo subito corsi ai ripari? Perché non abbiamo fatto per tempo massicce iniezioni di roccia divina per rinsaldare in Cristo le nostre fondamenta?
Dobbiamo fare molta attenzione, fratelli: perché il terremoto non avverte quando arriva, e non serve a nulla correre ai ripari mentre si sta scatenando. La vita ci riserva eventi che non possiamo prevedere in anticipo. Muoviamoci allora fin che siamo in tempo! Chiediamo a Dio di ritrovare nella sua Parola la forza di ricostruire quelli che dovremmo essere, di vivere in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad oggi. Non è facile seguire Gesù; egli stesso ci dice che non è un cammino semplice, ma la nostra forza sta nel sapere che Egli ci porge la mano dicendoci: “sono con te, coraggio!”.
E concludo: stiamo per entrare nella Quaresima; un motivo in più per cercare di vivere nello spirito delle beatitudini e di praticare l’amore del prossimo, certi che questo, questo solo, significa costruire la nostra casa sulla roccia. Non serve moltiplicare iniziative di grande spiritualità: accontentiamoci semplicemente di approfondire e di sviluppare questa grande verità. L’imposizione delle ceneri di mercoledì prossimo, ci faccia meditare sulla futilità delle parole, e sulla potenza della Parola: apriamoci all’ascolto di Dio Parola, trasformandolo in coerenza di vita. Vi ricordo, per inciso, che “Parola” in ebraico si dice “Dabàr”, un termine dal doppio significato: parola e atto; Dio cioè parla mentre agisce e agisce mentre parla. Noi non siamo Dio, fratelli; ma almeno cerchiamo, il più possibile, di fare altrettanto. Buona Quaresima. Amen.
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