«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…».
Oggi il Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione, la sua “location”. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli. Oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza, dal ”toccare il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. Ad un Gesù troppo umano, che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù troppo divino che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai sacrifici e alla preghiera continua? Dov'è il giusto? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci. Oggi, in particolare, Gesù cerca di dare una risposta su ciò che può rendere felice l’uomo in questa terra. Ci dà un piccolo assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il sorriso e la fiducia. Bene: Gesù, in poche parole, ci dice che la nostra vita può diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un anticipo paradisiaco semplicemente attraverso l’amore. Sì, fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, quanto sia immenso l’amore che Dio ha per tutti noi.
La “trasfigurazione”, la nostra “trasfigurazione”, è dunque questo: vedere e sperimentare con gli occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano potrà mai percepire. Questo ci dice il vangelo di oggi. Ma per capirlo, dobbiamo capire l’amore, fratelli: infatti, solo se siamo stati almeno una volta innamorati, se abbiamo perso la testa e fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato di vedere il mondo come un paradiso, un immenso giardino fiorito, perché qualcuno ci ha detto “ti amo”, solo allora possiamo sperare di capire il vangelo di oggi: sì, perché Gesù è un innamorato, un passionale convinto (ricordate con quanta decisione si dirige verso Gerusalemme, per incontrore la sua "passione"?), è un fuoco che divampa, che brucia, che infuoca chiunque incontri. “Dio è amore” ci conferma Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi all’amore e viverlo, può capire Dio. Tutti quelli che tengono chiuso il loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, lo continueranno a cercare, ma invano.
Trasfigurarsi: ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati veri, quelli che sono persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bambino, l'universo immenso nella faccia rugosa di un vecchio, le stelle, l'universo e tutti i soli che brillano, negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso che sarà successo anche a Voi, fratelli, di piangere davanti ad un volto disperato, al dolore di una perdita, a scene di altruismo e di amore eroico, come pure davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di esservi sentiti così pieni di gioia, di sensazioni profonde, di commozione così intensa, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Ma oggi invece so che vuol dire essere vivi, vuol dire percepire ciò che si vive dentro, ciò che gli "altri" vivono dentro; vuol dire lasciarci toccare il cuore, vuol dire lasciarci colpire e farci coinvolgere da ciò che succede intorno a noi, non essere duri come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo, in ogni caso freddi, gelidi, impassibili. In altre parole vuol dire lasciarsi “trasfigurare”. Sì, fratelli, sono questi i momenti della nostra "trasfigurazione"; sono i momenti in cui sentiamo con assoluta certezza che vale la pena di vivere, anche solo per pochi istanti; sono i momenti in cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità di esistere, di amare, di credere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la forza e il coraggio di andare avanti e di affrontare le "discese" dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di vita, di infinito, di "Dio", tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, "nero", indegno di essere vissuto, uno schifo. Dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci invada, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si muova (e-mozione), che nasca continuamente. E se questo non ci dovesse accadere, dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente se il nostro cuore viva ancora o sia già morto. Perché è proprio lo stupore, la capacità di emozionarci, di amare, che ci dice quanto siamo ancora vivi.
Questa è la Trasfigurazione. La nostra trasfigurazione. E noi ne possiamo fare esperienza diretta continuamente, basta avere gli “occhi” per vedere: per esempio quando ci innamoriamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando nel buio di una situazione difficile entra improvvisamente uno sprazzo di luce e, già persi, ritroviamo Dio, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando vediamo, percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, anche se dal di fuori non si vede nulla, questa è trasfigurazione. Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro faccia vera, il loro volto genuino, la loro figura così come è stata inizialmente creata da Dio, prima ancora di venire deformata dai giorni bui, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo, di essere così pieni, così ricchi da sentirci immensi, caldi come il sole, scintillanti come le vette innevate, o profondi come il mare, beh, dobbiamo sapere, fratelli, che anche questa è trasfigurazione. Il mondo, nella sua infelicità, dirà che noi siamo matti: in realtà forse un po’ matti anche lo saremo, ma sicuramente siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico” e “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci chiama quindi a tagliare tutti i cordoni ombelicali (dipendenze) per poter nascere, crescere e vivere ogni giorno: se infatti il cordone ombelicale non venisse tagliato, il bambino morirebbe; non tagliare certi legami (cioè limitarsi a cambiarli, cercare di renderli più liberi o veri, chiuderli, perdonarli, modificarli, trasformarli) non serve a nulla, fratelli: ci farebbero solo morire. Dobbiamo recidere senza esitazione questi cordoni per poter andare avanti: dobbiamo tagliare i cordoni ombelicali con quelle esperienze che ci hanno fatto male, con i traumi, con ciò che ci sarebbe piaciuto essere ma che non siamo mai stati e che mai potremo essere. Dobbiamo in una parola tagliare via tutto ciò che ci fa o ci ha fatto del male: perché conservarlo nel nostro cuore, anche se è solo un ricordo di tanti anni fa, significa farlo tornare ogni sacrosanto giorno, puntualmente, per rifarci del male; non tagliarlo significa continuare ad inseguire fantasie inutili, che esistono solo nella nostra mente, che non possono esistere, e che non sono mai esistite nella realtà. La vita, in questo senso, è un continuo tagliare cordoni ombelicali per poter crescere, per sviluppare e portare frutti. Ma c’è anche un cordone ombelicale che non va tagliato. È il legame con Dio che deve rimanere per sempre. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei attaccato qui, legato a me (re-ligione = essere legati), allora sei al sicuro. Questo legame rimane in eterno, questo cordone è d'acciaio e non si può troncare. Per quanto in basso tu cada o vada, questa corda ti terrà legato a me, e tu non ti perderai”.
Tabor significa poi anche "principio di luce". E noi abbiamo bisogno di luce, fratelli, abbiamo bisogno di esperienze che ci illuminino sulla nostra reale identità, che ci facciano scoprire le nostre possibilità, che ci facciano sentire forti, perché, solo in Dio, noi possiamo qualunque cosa. Abbiamo bisogno di sentire la nostra forza, di sentirci dire che "non è vero che siamo ad un punto di non ritorno"; che "non è vero che non possiamo cambiare"; che "non è vero che non possiamo essere felici in questa vita"; che "non è vero che siamo destinati a vivere nella mediocrità, nel tirare avanti". Abbiamo bisogno di persone che ci guardino negli occhi e che ci dicano: "Tu puoi"; che ci ripetano: "No, tu puoi essere diverso, tu puoi vivere meglio"; che ci strattonino e ci sveglino: "Osa, vola, non adattarti; sei un'aquila, non vivere come un pollo per paura!"; di persone che ci dicano: "Tu hai la luce nell’anima, io la vedo attraverso i tuoi occhi: sprigionala, tirala fuori, falla uscire". Abbiamo bisogno di "madri" che ci amino, che ci stimino, che ci accolgano, che siano per noi un abbraccio caldo e accogliente per la nostra paura, un porto sicuro nel momento di sconforto, di tristezza, di buio e di difficoltà. Abbiamo bisogno di "madri" che ci diano quell'amore che ci fa credere in noi, che ci fa sentire belli, buoni, desiderabili, importanti, preziosi, così da poter anche noi un giorno credere in noi stessi e andare avanti. Abbiamo bisogno di "padri" che ci trasmettano la forza di andare al largo, di non vivacchiare, che ci diano l'entusiasmo e la passione di vivere in pieno, con energia, con tutto noi stessi; di "padri" che ci invitino ad osare, a provare, a non aver paura.
Allora potremo andare serenamente anche verso la “passione”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro avremo energia, forza, entusiasmo: avremo Dio nel cuore.
Nella nostra “trasfigurazione”, nella nostra vita cristiana, chiediamoci in tutta umiltà e sincerità: “È ancora bello per noi stare qui con te, Signore?” “È ancora bello stare con te nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una risposta franca in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena di entusiasmo e di felicità: «Domine, bonum est nos hic esse – Signore, è bello per noi stare qui….». È vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, indistintamente, siamo chiamati a sperimentare nella nostra vita quanto sia bello stare con Dio.
Per farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dedicare tempo, coltivare l'amore, metterci in sintonia con la natura. Per farlo, come suggerisce il Padre, dobbiamo ascoltare. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello ha da dire l'uomo, ogni uomo, ogni nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per questo dobbiamo ascoltare: perché ascoltando riusciremo a recuperare nella nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio, dell'amore di Dio. Si, fratelli: perché è proprio dalla bellezza e dalla calda luminosità di Dio che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono mediaticamente dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, bene, bontà, amore. La bellezza di Dio, la bellezza della nostra anima innamorata: dobbiamo capire, fratelli, che la vera bellezza non è una questione esteriore, un fatto di canoni estetici! Possiamo infatti ricorrere a tutti gli “aiutini” di questo mondo, possiamo farci tagliuzzare in mille pezzi, possiamo farci siliconare a più non posso, senza con questo riuscire ad essere delle “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, immagine della bellezza di Dio, noi finiremmo con l’assomigliare a fredde, tirate, dure e infelici bambole, piuttosto che a “belle” persone!
Dobbiamo riappropriarci ad ogni costo di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in alto, lassù, sul monte Tabor, a fissare il nostro sguardo estatico sul Cristo trasfigurato. Perché è con la sua luce, con il calore del suo amore, che dobbiamo fare delle nostre chiese altrettanti Tabor, altrettanti luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, i momenti in cui preghiamo, devono riportare nella nostra quotidianità un briciolo di quella bellezza: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza, di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza: la bellezza e l'amore di Dio. Allora la vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente imparato a viverla e a donarla. Amen.
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