«Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli…».
Parole semplici, all’apparenza tranquille, ma in realtà, a ben meditarle, sono un po’ come il classico colpo che ti stende, che ti mette a KO. Ricordate Matteo capitolo cinque? Beh, non è che Matteo capitolo sette sia da meno. Gesù ci aveva già messo in crisi: ma in quel meraviglioso scenario che sovrasta il lago di Genezareth, prima di concludere il “discorso della montagna”, egli continua imperterrito a smontare una ad una tutte le nostre sicurezze, le nostre facciate di parata, il nostro perbenismo di maniera, le nostre troppe costruzioni, magari anche belle e geniali, ma fondate sulle sabbie inconsistenti del nostro voler apparire ad ogni costo, del nostro superbo egoismo.
Le nostre fidate compagne di viaggio – ostentazione, doppiezza, esteriorità, banalità, superficialità – rendono il nostro cristianesimo fin troppo facile. Con queste partner, il nostro cammino sembra volare, non esistono sacrifici o privazioni che si frappongano al nostro procedere, che intralcino la nostra strada: tutto fila liscio. Del resto come sarebbe possibile il contrario, visto che tutto è fondato sulle sfumature dell’apparire e del dire piuttosto che sulla concretezza dell’essere e del fare?
Anche oggi abbiamo dunque un Gesù che non lascia ampi margini alla nostra furbizia e inventiva, un Gesù che condanna decisamente le nostre chiacchiere magistrali, il darla a bere a chiunque, il vendere fischi per fiaschi: cose che, con la nostra grande disinvoltura, ci riescono sempre magistralmente.
Ma «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio…».
È inappellabile, Gesù: nessun “distinguo”. Nessuna eccezione. Ancora una volta ci viene ribadito che il tempo di vivacchiare, illudendoci, è finito: ancora una volta il nostro tirare avanti viene messo in discussione; così: non può bastare il nostro piccolo sforzo domenicale di andare in chiesa, semplicemente; non può bastare lo stare lì impalati, con la testa chissà dove; non può bastare la nostra offerta, spesso fatta con ostentazione, a beneficio di chi guarda; non può bastare il sorriso di circostanza nel dare la pace al vicino. Tutto questo non basta più. Non sono atteggiamenti che caratterizzano una vita cristiana. Sono atteggiamenti da istrioni.
Gesù ci ricorda, fratelli, che la nostra fede non ammette finzioni scenografiche: il cristianesimo è autenticità, non è sinonimo di parvenza, non si identifica con quel teatrale bigottismo, che purtroppo ancora si annida nelle nostre chiese. Questo modo di comportarsi non è gradito a Dio; non corrisponde al «fare la volontà» di Dio.
Inutile che scuotiamo increduli il capo: se non mettiamo in pratica i nostri credo, se non viviamo in pieno la nostra fede, senza “se” e senza “ma”, siamo automaticamente “out”, siamo fuori, siamo nel peccato (ci ricordiamo ancora del peccato di “omissione”?), la nostra vita è motivo di condanna.
«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, le prostitute prenderanno il vostro posto nel regno dei cieli». Capite? Autenticità e trasparenza sono quindi indispensabili per non fallire nel nostro cammino di vita spirituale; perché, fratelli, qualunque maschera indossiamo, arriviamo semmai ad ingannare gli altri, e forse anche noi stessi, ma non Dio; di sicuro!
Gesù non apprezza i fanfaroni, quelli che mettono se stessi e lo loro chiacchiere avanti a tutto e a tutti. Ciò che conta per il Signore, è la perfetta sintonia fra il dire e il fare, fra l'ascoltare la voce di Dio e il mettere in pratica i suoi insegnamenti. Quindi dobbiamo costruire la nostra spiritualità non sulla fragilità delle nostre infatuazioni o delle nostre pseudo aspirazioni, ma sulla concretezza del nostro vissuto, sulla roccia dei nostri comportamenti. Perché quando la tempesta arriva – e prima o poi, fratelli, arriva per tutti – i nostri sogni sfumano, le nostre devozioni aridamente esibite svaniscono, le nostre false sembianze si dissolvono. Ciò che resta, come dice il Signore, è soltanto quello che abbiamo costruito sulla salda roccia del Vangelo.
Per meglio rendere la sua idea Gesù ci parla di due case. Due case all’apparenza identiche: una però costruita sulla sabbia, l’altra sulla roccia. Identiche sono anche le avversità che si scatenano contro di loro: il cadere forte della pioggia, lo straripare dei fiumi, il soffiare dei venti. Sono le contrarietà della vita: per tutti infatti arriva il tempo della tempesta, delle difficoltà, del buio, della crisi, del meccanismo che s'inceppa. Ed è qui che si vede quello che realmente siamo, perché quelle case del vangelo siamo noi. È di fronte alle prove che si vede come siamo dentro, in profondità: e se non siamo la casa sulla roccia, se non c’è forza in noi, se non c’è convinzione, fede solida, tutto finisce, tutto crolla, tutto si sgretola.
Quanti programmi di vita, fratelli, abbiamo iniziato con i migliori propositi! Le nostre scelte erano sicuramente convinte, quello che ci siamo proposti lo abbiamo anche iniziato generosamente, convinti di seguire la nostra vocazione; non c’era inganno nelle nostre decisioni: ma, purtroppo, non c'era sufficiente profondità e convinzione nel nostro agire. E così dopo qualche tempo, con il passare dei giorni, l’entusiasmo si è spento, tutto si è appiattito; abbiamo continuato alla meglio, abbiamo "tirato avanti" per non sfigurare davanti ai superiori, alla famiglia, agli amici, alla gente.
Quanti ripensamenti! Quanti giovani sono passati e continuano a passare, attraverso l’esperienza del matrimonio, quanti per i seminari, quanti per i conventi e la vita religiosa, senza perseveranza alcuna; quanti cristiani, quanti sposi, quanti preti, quanti frati e suore, intraprendono pieni di entusiasmo e di grandi risorse il cammino radioso della loro vocazione e – dopo un inizio esaltante: “Andrò fino in fondo; non mollerò mai; è la svolta della mia vita; Signore, ti seguirò fino alla morte” – non resistono alla prova, non riescono a tenere; dopo aver “messo mano all’aratro”, per una piccola difficoltà, per una delusione, per un primo scontro, “si girano indietro” e abbandonano tutto; non hanno stabilità e risorse per affrontare le tempeste, i venti, l'afa, la calura, il “pondus diei et aestus”, la pesantezza del momento: e i loro buoni propositi, i loro giuramenti, si sciolgono come neve al sole... Non avevano le radici saldamente ancorate!
Quante volte, fratelli, ci è capitato di vedere lungo le strade alberi imponenti abbattuti dal vento. Alberi altissimi, dalla chioma lussureggiante, con tronchi massicci; alberi enormi, possenti, forti…, ma con radici cortissime! Un soffio di vento fuori dal normale è stato sufficiente per abbatterli e umiliarli a terra. Era un piacere ammirarli: ma a tanta bellezza esteriore non corrispondeva altrettanta fortezza e robustezza interiore.
Così è per l’uomo, fratelli: così è per noi tutti. La nostra forza, ripeto, non sta nell’essere seducenti, nell’apparire, ma in ciò che abbiamo dentro, in ciò che siamo dentro. La nostra forza è il nostro cuore innamorato di Dio. Custodiamolo attentamente questo nostro cuore, perché come sarà il nostro cuore così saremo noi.
Una vita vittoriosa e fedele, non s'improvvisa. Non è frutto di magia. Va costruita piano piano, con eroica dedizione. La convivenza con il prossimo, con i confratelli, con la comunità, con la famiglia, non elimina i nostri problemi personali, anzi li amplifica; così se in noi c'è desiderio di verità, se c'è dialogo, se c'è profondità, se c’è amore, se c’è dedizione, la vita comune li amplifica; ma essa amplifica anche paure, insicurezze, cattiverie, egoismi, permalosità.
Non aspettiamoci miracoli dagli altri. I miracoli devono sgorgare dal nostro cuore.
Quante volte, nella prova, ci piangiamo inutilmente addosso: “Sono depresso; sono triste; non sento più amore; non ho più voglia di vivere; mi dà fastidio tutto; che mondo schifoso; non ci si può fidare di nessuno; è finito tutto…”. Fratelli miei, quando arriva la tempesta è già tardi. Quando soffiano i venti delle prove, è tardi! A cosa pensavamo prima? Come pensavamo di reggere, senza esserci occupati mai della consistenza delle nostre radici? Perché non siamo subito corsi ai ripari? Perché non abbiamo fatto per tempo massicce iniezioni di roccia divina per rinsaldare in Cristo le nostre fondamenta?
Dobbiamo fare molta attenzione, fratelli: perché il terremoto non avverte quando arriva, e non serve a nulla correre ai ripari mentre si sta scatenando. La vita ci riserva eventi che non possiamo prevedere in anticipo. Muoviamoci allora fin che siamo in tempo! Chiediamo a Dio di ritrovare nella sua Parola la forza di ricostruire quelli che dovremmo essere, di vivere in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad oggi. Non è facile seguire Gesù; egli stesso ci dice che non è un cammino semplice, ma la nostra forza sta nel sapere che Egli ci porge la mano dicendoci: “sono con te, coraggio!”.
E concludo: stiamo per entrare nella Quaresima; un motivo in più per cercare di vivere nello spirito delle beatitudini e di praticare l’amore del prossimo, certi che questo, questo solo, significa costruire la nostra casa sulla roccia. Non serve moltiplicare iniziative di grande spiritualità: accontentiamoci semplicemente di approfondire e di sviluppare questa grande verità. L’imposizione delle ceneri di mercoledì prossimo, ci faccia meditare sulla futilità delle parole, e sulla potenza della Parola: apriamoci all’ascolto di Dio Parola, trasformandolo in coerenza di vita. Vi ricordo, per inciso, che “Parola” in ebraico si dice “Dabàr”, un termine dal doppio significato: parola e atto; Dio cioè parla mentre agisce e agisce mentre parla. Noi non siamo Dio, fratelli; ma almeno cerchiamo, il più possibile, di fare altrettanto. Buona Quaresima. Amen.
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