Dio è Amore. Da questo amore ha origine e sussistenza il mondo, il tempo, la storia, la vita dell'universo... tutto viene da Dio, tutto è sostenuto da Lui, tutto è orientato verso Dio. Di Cristo Figlio di Dio giustamente si dice: "Ieri, oggi e sempre: Egli è il Salvatore". Ogni tempo trova in Cristo e nell'amore di Dio luce e significato pieno. La liturgia ci aiuta a venerare e a celebrare Maria Ss. Madre di Dio. È lei che ha accolto e generato nel tempo e nella storia il Figlio di Dio, è lei che ci ha portato il Salvatore. Lei ha dato tutta la sua opera e la sua collaborazione alla missione di Gesù Salvatore.
Mentre iniziamo un nuovo anno non affidiamoci agli oroscopi o alla magia per cercare soccorso o luce; affidiamoci a Dio e cerchiamo soccorso e luce in Dio e soltanto in Lui.
Sulla soglia di un nuovo anno e di un tempo così significativo facciamoci dono di una benedizione, cioè di una parola che parta dal cuore e diventi preghiera e carità per chi ci vive accanto.
Il vangelo ci indica la strada della benedizione: è la strada di Betlemme. Infatti Dio è tra noi, è con noi; Dio ci è venuto incontro, è dentro la nostra storia. Ora siamo noi che dobbiamo muovere i passi verso di Lui: siamo noi che dobbiamo aprirci, affinché la Luce entri e illumini la nostra vita.
Maria Ss. è la donna che ha ascoltato la voce di Dio, lo ha accolto, ha obbedito alla sua volontà; è stata attenta a cogliere tutti i segni di Dio per rinnovare ogni giorno il suo "sì".
Maria ha saputo sempre cantare il suo Magnificat, il suo ringraziamento. "Maria nella stalla di Betlemme, con in braccio il bambino Gesù, è l'immagine della gioia, è il massimo della gioia. Infatti quando c'è Dio, si può vivere anche in un tugurio ed essere contenti; quando c'è Dio si può essere poveri e ammalati, ma pieni di gioia.
Maria è la donna della fede, accanto a Gesù piccolo e bisognoso di tutto, accanto a lui nella vita di Nazareth, sul Calvario e nella gioia della resurrezione.
In questo giorno la Chiesa invoca anche la benedizione e la pace sul mondo intero, perché il tempo e la storia siano secondo il progetto di Dio che vuole gli uomini tutti fratelli, perché suoi figli.
Molti sono i problemi, i drammi, le ingiustizie e le guerre del nostro tempo. Per questo occorre pregare e impegnarci, conoscere le situazioni dei popoli e portare nella nostra storia così piena di conflitti la luce della parola e dell'amore di Dio e l'insegnamento del magistero della Chiesa.
Per questo vi auguro la pace. Augurare la Pace è augurare l’incontro con Dio. Tutti gli uomini, come te e come me, possano conoscere Dio non solo nelle Liturgie della Chiese o nelle preghiere di Sinagoghe e Moschee, ma lo possano conoscere anche nell’incontro con l’altro, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto nelle difficoltà, nel perdono dopo lo scontro, nell’amore che possiamo darci sempre e in ogni occasione.
Sia Pace in te… Sia Dio in te!
Sia Pace nel mondo… Sia Dio in ogni uomo.
martedì 22 dicembre 2009
27 Dicembre 2009 - Santa Famiglia
Sacra Famiglia, modello delle famiglie. Resto sempre un po' in imbarazzo a parlare di "modello" quando parlo della Santa Famiglia; ben poco rassomiglia alle nostre famiglie: un bambino che è la presenza di Dio, un padre e una madre coinvolti in un Mistero inaudito, senza confini. Possono davvero dirci qualcosa? Credo proprio di sì. Non solo: credo che in questi tempi dobbiamo avere il coraggio di parlare di più e meglio della famiglia, delle nostre famiglie. La famiglia è in crisi, ci dicono i sociologi. Ma senza scomodarli, ci rendiamo conto che qualcosa non funziona nella nostra società: sempre di più sono le coppie che si sfasciano, che non credono più nella possibilità di un rapporto duraturo. Lasciate perdere un attimo la morale e parliamo da uomini, con sincerità. Il fatto che la famiglia sia in crisi, o, meglio, che la coppia lo sia, è anzitutto un problema umano. Quanta sofferenza e disillusione vedo negli occhi di chi cerca una certezza affettiva! Dobbiamo concludere anche noi che è impossibile amarsi? Che è finito il tempo dell'illusione? Non è un problema da poco: se veramente è impossibile parlare di progetto, di fedeltà, di continuità, allora la famiglia è morta. Eppure questa festa, fratelli, ci ricorda il sogno che Dio ha sulla coppia. Amarsi è possibile; restare fedeli è possibile; crescere in un progetto è possibile. Di più: Dio ci ha piantato nel cuore, quando ci ha creati, questa nostalgia per la comunione. Non siamo stati creati a immagine e somiglianza del Dio che è Comunione Trinitaria? Giuseppe e Maria, allora, nel loro amore pieno di tenerezza e di fatica, ci dicono che Dio ha scelto di nascere in una famiglia, di soggiacere alle dinamiche familiari, di vivere le fatiche del rapporto di coppia.
Questo disegno divino si avvera quando l’uomo e la donna si uniscono intimamente nell’amore per il servizio della vita, partecipando così al potere creatore di Dio e all’amore redentivo di Cristo.
Questo disegno di Dio chiama ogni giorno gli sposi, la famiglia, a vivere la “novità” dell’amore, attraverso la conversione del cuore e la santità della vita, segnata dalla sofferenza della croce e dalla speranza della risurrezione.
La risposta al progetto di Dio impegna la famiglia a svolgere i compiti che le sono propri nel mondo di oggi: l’educazione alla libertà, ad un forte senso morale, alla fede e agli autentici valori umani e cristiani. Ad essa è affidato anzitutto il compito della evangelizzazione e della catechesi; e nell’ambito della più ampia comunità sociale essa testimonia i valori evangelici, promuove la giustizia sociale, aiuta i poveri e gli oppressi.
La famiglia cristiana potrà attuare questo se sarà perseverante nella preghiera comune e, in modo particolare, nella Liturgia che sono fonti di grazia.
Questo disegno divino si avvera quando l’uomo e la donna si uniscono intimamente nell’amore per il servizio della vita, partecipando così al potere creatore di Dio e all’amore redentivo di Cristo.
Questo disegno di Dio chiama ogni giorno gli sposi, la famiglia, a vivere la “novità” dell’amore, attraverso la conversione del cuore e la santità della vita, segnata dalla sofferenza della croce e dalla speranza della risurrezione.
La risposta al progetto di Dio impegna la famiglia a svolgere i compiti che le sono propri nel mondo di oggi: l’educazione alla libertà, ad un forte senso morale, alla fede e agli autentici valori umani e cristiani. Ad essa è affidato anzitutto il compito della evangelizzazione e della catechesi; e nell’ambito della più ampia comunità sociale essa testimonia i valori evangelici, promuove la giustizia sociale, aiuta i poveri e gli oppressi.
La famiglia cristiana potrà attuare questo se sarà perseverante nella preghiera comune e, in modo particolare, nella Liturgia che sono fonti di grazia.
25 Dicembre 2009 - NATALE DEL SIGNORE
Ecco Dio. Miagola, pigola, vagisce con una flebile voce, come fanno i cuccioli d'uomo appena nati. Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all'acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno.
La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra.
Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, pensando a quando, poche ore prima, la levatrice lo aveva rudemente pulito dalla placenta e dal sangue, incurante delle urla di protesta del piccolo.
Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore.
Anch'io taccio, in un angolo della stalla, senza fare rumore, sospeso fra la commozione e la stanchezza. Ecco Dio, dunque.
Siamo tutti spiazzati, ancora. Ecco Dio. Ecco com'è veramente. Che ha a che vedere, questo neonato, con l'idea che siamo fatti di Lui? Che c'entra? Guardo lungamente, ora anche Maria appoggia il capo alla parete di pietra, cercando un improbabile sonno. Ecco Dio: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano di accarezzarlo.
Maria ha creduto nelle parole del principe degli angeli, ha messo la sua vita nelle mani di Dio. E ora è lì, con il mistero dell'Universo che stringe a sé. Frastornata e meditabonda, con il suo cuore, immenso cuore di discepola, altalenante fra il gioire dell'essere diventata madre e lo stupirsi nel tenere Dio appeso al suo collo. Prima fra i folli di Dio, prima fra i credenti, prima fra le donne, benedette figlie di Eva che di Dio condividono il generare.
Giuseppe siede stanco. Anche lui ha detto sì, ma il suo è stato sofferto, faticoso, strappato.
I suoi sogni ora sono il sogno di Dio, non ha più futuro, né spazio, né ambizione, né comprensibile orgoglio di padre. Il Padre lo ha reso padre, lui, ora dovrà accudire Dio e la sua madre, proteggerli e lasciarli crescere, loro così abitati dal Mistero, lui così consapevole che la vita non si misura dai risultati ma dalla fedeltà agli eventi.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli zingari, gli arraffatori, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, bestemmiano in cuor loro la sorte, ricacciando il dolore che sale a soffocare la gola e a riempire gli occhi di lacrime. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce. E un angelo appare loro. Per voi…dice. Una mangiatoia... dice.
E vanno. E trovano Dio che abita una mangiatoia, come se fosse un trono, e capiscono che anche una mangiatoia che odora di sterco di pecora può diventare il trono del Dio degli sconfitti.
A est, lontano, un gruppo di curiosi accampati discutono, alzando il prezzo della scommessa: chi sostiene che il segno nel cielo indica la nascita di un re, altri dicono che, invece, prospetta una catastrofe, altri ancora che non significa nulla. E scherzano e ridono, mentre i servi portano la carne cotta al fuoco. Andranno a dormire presto, domani ripartiranno verso la Giudea. Sazi di denaro, sazi di cultura, sazi di beni. Ma ancora curiosi, ancora si interrogano e cercano.
A Gerusalemme i Sommi Sacerdoti commentano la giornata, pianificano il futuro del nuovo, splendido tempio. Alla fine si congedano, pregano, invocano al venuta del Messia. Qualcuno sorride: ci mancherebbe la venuta del Messia, ora.
Erode caccia la concubina dal suo letto, stenta a prendere sonno. Si affaccia sulla terrazza del palazzo che domina la sua città. No, la folla non lo ama, nonostante tutto, pazienza: se non sarà ricordato per la sua gloria, sarà ricordato per il suo odio.
E Noi? Ecco Dio, mi ripeto nella penombra della chiesa. Dio non si è ancora stancato di noi, se chiede di nascere. Prego, ora, affidando tutti, e tutti non riescono a stare nella mia povera preghiera. Penso a chi soffre, questa notte, perché nessun angelo gli ha ancora detto che Dio nasce proprio per lui. Prego per i tanti, migliaia, che ho incontrato in questo anno così doloroso e intenso, e a come Dio sia stupefacente nel disegnare nuove strade per chi si affida a Lui. Penso alla nostra Italia così litigiosa, così affaticata e delusa, che non ha più speranza, che pensa di essere davvero mediocre come appare, e chiedo al Signore un regalo: di ricordarci da dove proveniamo e verso chi andiamo, tutti.
Vedo il bambino, nella penombra della chiesa. E mi dico in che cavolo di guaio mi sono messo, seguendo un Dio che, invece di risolvermi i problemi, me ne crea a bizzeffe. Vorrei stringerlo fra le mie braccia, riempirlo di baci questo Dio, dire che lo amo, proprio perché così imprevedibile, perché così misteriosamente incontrabile e banale.
Apro un libretto di canti del banco e trovo un'immaginetta: contiene una preghiera di uno dei più feroci atei del secolo scorso, maestro del dubbio e della noia: Sartre.
«Maria guarda Gesù e pensa: questo Dio è mio figlio.
È Dio. E mi assomiglia.
Un Dio bambino che si può prendere fra le braccia, e coprire di baci.
Un Dio caldo, che sorride e respira.
Un Dio che si può toccare e che respira, un Dio che si può toccare e ride.
È in uno di questi momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore.»
Buon Natale, cercatori di Dio. Lasciatevi trovare!.
La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra.
Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, pensando a quando, poche ore prima, la levatrice lo aveva rudemente pulito dalla placenta e dal sangue, incurante delle urla di protesta del piccolo.
Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore.
Anch'io taccio, in un angolo della stalla, senza fare rumore, sospeso fra la commozione e la stanchezza. Ecco Dio, dunque.
Siamo tutti spiazzati, ancora. Ecco Dio. Ecco com'è veramente. Che ha a che vedere, questo neonato, con l'idea che siamo fatti di Lui? Che c'entra? Guardo lungamente, ora anche Maria appoggia il capo alla parete di pietra, cercando un improbabile sonno. Ecco Dio: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano di accarezzarlo.
Maria ha creduto nelle parole del principe degli angeli, ha messo la sua vita nelle mani di Dio. E ora è lì, con il mistero dell'Universo che stringe a sé. Frastornata e meditabonda, con il suo cuore, immenso cuore di discepola, altalenante fra il gioire dell'essere diventata madre e lo stupirsi nel tenere Dio appeso al suo collo. Prima fra i folli di Dio, prima fra i credenti, prima fra le donne, benedette figlie di Eva che di Dio condividono il generare.
Giuseppe siede stanco. Anche lui ha detto sì, ma il suo è stato sofferto, faticoso, strappato.
I suoi sogni ora sono il sogno di Dio, non ha più futuro, né spazio, né ambizione, né comprensibile orgoglio di padre. Il Padre lo ha reso padre, lui, ora dovrà accudire Dio e la sua madre, proteggerli e lasciarli crescere, loro così abitati dal Mistero, lui così consapevole che la vita non si misura dai risultati ma dalla fedeltà agli eventi.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli zingari, gli arraffatori, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, bestemmiano in cuor loro la sorte, ricacciando il dolore che sale a soffocare la gola e a riempire gli occhi di lacrime. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce. E un angelo appare loro. Per voi…dice. Una mangiatoia... dice.
E vanno. E trovano Dio che abita una mangiatoia, come se fosse un trono, e capiscono che anche una mangiatoia che odora di sterco di pecora può diventare il trono del Dio degli sconfitti.
A est, lontano, un gruppo di curiosi accampati discutono, alzando il prezzo della scommessa: chi sostiene che il segno nel cielo indica la nascita di un re, altri dicono che, invece, prospetta una catastrofe, altri ancora che non significa nulla. E scherzano e ridono, mentre i servi portano la carne cotta al fuoco. Andranno a dormire presto, domani ripartiranno verso la Giudea. Sazi di denaro, sazi di cultura, sazi di beni. Ma ancora curiosi, ancora si interrogano e cercano.
A Gerusalemme i Sommi Sacerdoti commentano la giornata, pianificano il futuro del nuovo, splendido tempio. Alla fine si congedano, pregano, invocano al venuta del Messia. Qualcuno sorride: ci mancherebbe la venuta del Messia, ora.
Erode caccia la concubina dal suo letto, stenta a prendere sonno. Si affaccia sulla terrazza del palazzo che domina la sua città. No, la folla non lo ama, nonostante tutto, pazienza: se non sarà ricordato per la sua gloria, sarà ricordato per il suo odio.
E Noi? Ecco Dio, mi ripeto nella penombra della chiesa. Dio non si è ancora stancato di noi, se chiede di nascere. Prego, ora, affidando tutti, e tutti non riescono a stare nella mia povera preghiera. Penso a chi soffre, questa notte, perché nessun angelo gli ha ancora detto che Dio nasce proprio per lui. Prego per i tanti, migliaia, che ho incontrato in questo anno così doloroso e intenso, e a come Dio sia stupefacente nel disegnare nuove strade per chi si affida a Lui. Penso alla nostra Italia così litigiosa, così affaticata e delusa, che non ha più speranza, che pensa di essere davvero mediocre come appare, e chiedo al Signore un regalo: di ricordarci da dove proveniamo e verso chi andiamo, tutti.
Vedo il bambino, nella penombra della chiesa. E mi dico in che cavolo di guaio mi sono messo, seguendo un Dio che, invece di risolvermi i problemi, me ne crea a bizzeffe. Vorrei stringerlo fra le mie braccia, riempirlo di baci questo Dio, dire che lo amo, proprio perché così imprevedibile, perché così misteriosamente incontrabile e banale.
Apro un libretto di canti del banco e trovo un'immaginetta: contiene una preghiera di uno dei più feroci atei del secolo scorso, maestro del dubbio e della noia: Sartre.
«Maria guarda Gesù e pensa: questo Dio è mio figlio.
È Dio. E mi assomiglia.
Un Dio bambino che si può prendere fra le braccia, e coprire di baci.
Un Dio caldo, che sorride e respira.
Un Dio che si può toccare e che respira, un Dio che si può toccare e ride.
È in uno di questi momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore.»
Buon Natale, cercatori di Dio. Lasciatevi trovare!.
giovedì 17 dicembre 2009
20 Dicembre 2009 - IV Domenica di Avvento
Siamo ormai alle soglie del Natale. La liturgia di questa domenica ci consegna al giorno del Natale di Gesù. E ci consegna così come siamo: forse un poco più pronti ad accogliere il Signore, se ci siamo lasciati toccare il cuore dal Vangelo; oppure ancora appesantiti dai nostri pensieri e dai nostri affanni quotidiani tanto da trovare con fatica un po' di spazio per accogliere il Signore che viene. E' un giorno di grazia questa domenica perché ci apre al Natale e ci ripete di affrettare i passi del nostro cuore perché il Natale è per tutti. Tutti possiamo rinascere, nessuno è condannato a restare sempre identico a se stesso; e il mondo non è condannato al buio. Una luce sta per venire e tutti potranno vederla.
Sta davanti a noi la Madre di Gesù. Maria è l'esempio di come il credente attende il Signore, di come si può vivere il Natale. Per Lei il Natale non era quello facile e ormai scontato degli addobbi e delle vetrine a festa. Si trattava di un Natale vero, ossia della nascita di un bambino che le stava cambiando tutta la vita e tutte le decisioni che pure aveva già preso. Maria viene ad annunciarci questo Natale; viene ad annunciarlo in mezzo a noi con lo stesso amore con cui andò ad annunciarlo all'anziana cugina Elisabetta. Ella viene in mezzo a noi. Non parte più da Nazareth ma dal cielo e scende giù accanto ad ognuno di noi. Sì, attraversa i cieli per starci vicino.
E' venuta qui. Ma le resta da fare ancora un altro pezzo di strada, che è forse più arduo e più difficile di quello di traversare i cieli. E' quel tratto di cammino che lei deve compiere per raggiungere e toccare il nostro cuore. Le lasceremo superare le montagne di indifferenza e di egoismo che si ergono dentro di noi? Le permetteremo di oltrepassare le voragini di odio e di inimicizia che abbiamo scavato nel nostro animo? Le lasceremo aprirsi un varco tra le erbe velenose e amare che rendono insensibili i nostri cuori, cattivi i nostri pensieri e violenti i comportamenti? E riusciranno a sentire il suo saluto? Riusciranno ad ascoltare il Vangelo che ci viene annunciato? Beati noi se, visitati da Maria, ascoltiamo il suo saluto. Accadrà a noi quello che accadde ad Elisabetta. Scrive l'evangelista: "Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!" Queste parole le ripetiamo ogni volta che recitiamo l'Ave Maria. Ma il loro vero senso glielo diamo oggi, ossia se il saluto di Maria ci tocca il cuore, se ci lasciamo commuovere da lei e dalla sua tenerezza nell'attesa di Gesù.
Lei è davvero "benedetta" tra tutti noi. Benedetta perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore". Questa prima beatitudine che leggiamo nel Vangelo è la ragione della nostra fede, il motivo della nostra gioia, anche se talora può costarci sacrificio. Così Maria si è preparata al Natale: accogliendo anzitutto la parola dell'angelo. Potremmo dire: ascoltando il Vangelo. Da questo ascolto è iniziata per lei una vita nuova. Ha deciso di seguire quello che l'angelo le ha detto, anche a costo di essere mal capita, anzi criticata, persino rigettata da Giuseppe. E, saputo dall'angelo di sua cugina Elisabetta era incinta, ha lasciato Nazareth per andare ad aiutarla, affrontando un lungo viaggio. Non è rimasta a preparare casa il Natale, è andata da un'anziana donna bisognosa d'aiuto. Ecco come fare spazio al Signore: una ragazza che visita un'anziana. Il cuore si allarga se smettiamo di pensare sempre a noi stessi; i pensieri diventano più teneri se ci avviciniamo a chi ha bisogno di aiuto; i comportamenti diventano più dolci se stiamo vicino ai poveri, ai deboli, ai malati, e impariamo ad amarli. La carità è una grande scuola di vita. Così Maria si è preparata al Natale: con il Vangelo ascoltato, custodito e messo in pratica. Oggi viene tra noi per coinvolgerci nell'attesa del suo Figlio. Facciamo in modo che questo sia anche il nostro Natale!
Sta davanti a noi la Madre di Gesù. Maria è l'esempio di come il credente attende il Signore, di come si può vivere il Natale. Per Lei il Natale non era quello facile e ormai scontato degli addobbi e delle vetrine a festa. Si trattava di un Natale vero, ossia della nascita di un bambino che le stava cambiando tutta la vita e tutte le decisioni che pure aveva già preso. Maria viene ad annunciarci questo Natale; viene ad annunciarlo in mezzo a noi con lo stesso amore con cui andò ad annunciarlo all'anziana cugina Elisabetta. Ella viene in mezzo a noi. Non parte più da Nazareth ma dal cielo e scende giù accanto ad ognuno di noi. Sì, attraversa i cieli per starci vicino.
E' venuta qui. Ma le resta da fare ancora un altro pezzo di strada, che è forse più arduo e più difficile di quello di traversare i cieli. E' quel tratto di cammino che lei deve compiere per raggiungere e toccare il nostro cuore. Le lasceremo superare le montagne di indifferenza e di egoismo che si ergono dentro di noi? Le permetteremo di oltrepassare le voragini di odio e di inimicizia che abbiamo scavato nel nostro animo? Le lasceremo aprirsi un varco tra le erbe velenose e amare che rendono insensibili i nostri cuori, cattivi i nostri pensieri e violenti i comportamenti? E riusciranno a sentire il suo saluto? Riusciranno ad ascoltare il Vangelo che ci viene annunciato? Beati noi se, visitati da Maria, ascoltiamo il suo saluto. Accadrà a noi quello che accadde ad Elisabetta. Scrive l'evangelista: "Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!" Queste parole le ripetiamo ogni volta che recitiamo l'Ave Maria. Ma il loro vero senso glielo diamo oggi, ossia se il saluto di Maria ci tocca il cuore, se ci lasciamo commuovere da lei e dalla sua tenerezza nell'attesa di Gesù.
Lei è davvero "benedetta" tra tutti noi. Benedetta perché "ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore". Questa prima beatitudine che leggiamo nel Vangelo è la ragione della nostra fede, il motivo della nostra gioia, anche se talora può costarci sacrificio. Così Maria si è preparata al Natale: accogliendo anzitutto la parola dell'angelo. Potremmo dire: ascoltando il Vangelo. Da questo ascolto è iniziata per lei una vita nuova. Ha deciso di seguire quello che l'angelo le ha detto, anche a costo di essere mal capita, anzi criticata, persino rigettata da Giuseppe. E, saputo dall'angelo di sua cugina Elisabetta era incinta, ha lasciato Nazareth per andare ad aiutarla, affrontando un lungo viaggio. Non è rimasta a preparare casa il Natale, è andata da un'anziana donna bisognosa d'aiuto. Ecco come fare spazio al Signore: una ragazza che visita un'anziana. Il cuore si allarga se smettiamo di pensare sempre a noi stessi; i pensieri diventano più teneri se ci avviciniamo a chi ha bisogno di aiuto; i comportamenti diventano più dolci se stiamo vicino ai poveri, ai deboli, ai malati, e impariamo ad amarli. La carità è una grande scuola di vita. Così Maria si è preparata al Natale: con il Vangelo ascoltato, custodito e messo in pratica. Oggi viene tra noi per coinvolgerci nell'attesa del suo Figlio. Facciamo in modo che questo sia anche il nostro Natale!
giovedì 10 dicembre 2009
13 Dicembre 2009 - III Domenica di Avvento
"Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi".
È la domenica chiamata "gaudete", la domenica della gioia. Paolo era in carcere a Roma e forse aveva già di fronte la prospettiva della sentenza capitale. Eppure esorta a gioire perché, aggiunge, "Il Signore e vicino". Il motivo della gioia sta proprio nella prossima venuta del Signore. Abbiamo ascoltato anche il profeta Sofonia che dice a Gerusalemme di rallegrarsi: "Gioisci Israele e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!".
Perché? "Il Signore - dice il profeta - ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico... Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente... Ti rinnoverà con il suo amore". Si parla della liberazione di Gerusalemme: scompare la condanna, si toglie l'assedio alla città, il nemico è disperso e la città può finalmente tornare a vivere. Il Signore l'ha salvata. La Parola di Dio invita a non lasciarci sopraffare dall'angoscia. Certo, ne abbiamo tutti i motivi guardando il nostro mondo, vedendo le numerose guerre e le innumerevoli ingiustizie. Come non essere tristi e angosciati di fronte a tanta violenza? Eppure siamo esortati a gioire. Non è questione di ottimismo: è l'avvicinarsi del Natale il motivo della nostra gioia. Non siamo più soli, il Signore viene accanto a noi. La liturgia interrompe la stessa severità del tempo di Avvento come a farci pregustare il Natale. Tutto nella liturgia si fa invito pressante perché ognuno si disponga ad accogliere il Signore; perché ognuno si sollevi dal sonno dell'egoismo e dall'ubriacatura dell'orgoglio per andare incontro a Gesù.
Restano pochi giorni al Natale e il nostro cuore è ancora distratto e impreparato. Luca scrive che tutto il popolo era nell'attesa del Messia, di colui che avrebbe cambiato la vita, che avrebbe liberato gli uomini e le donne dalle schiavitù di questo mondo. Per questo molti lasciavano le loro città per recarsi nel deserto ed incontrare Giovanni Battista. Anche noi abbiamo lasciato le nostre case per partecipare alla santa liturgia. E Giovanni Battista, in certo modo, continua a parlare con lo
stesso vigore, con la stessa forza di cambiamento che aveva nel deserto accanto al fiume Giordano. Assieme a quella folla di uomini e di donne, assieme a quei soldati e a quei pubblicani, ci siamo anche noi e, con loro, chiediamo: "Che cosa dobbiamo fare?". È la nostra domanda di oggi: "che cosa dobbiamo fare per accogliere il Signore che viene?". Giovanni risponde con semplicità e chiarezza: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". È la carità la prima risposta. E poi, rivolto ai pubblicani e ai soldati, dice di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato, di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno.
Chiede, insomma, di essere giusti e rispettosi gli uni degli altri.
Il predicatore del deserto ci ricorda che l'attesa del Messia si compie tra carità e giustizia, tra misericordia e rispetto, tra tenerezza e compassione. Non dice forse Paolo ai Filippesi: "La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini"? Il Signore verrà, scenderà nel cuore di ognuno e ci battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Nessuno resterà con quello che possiede. nessuno rimarrà così com'è. Lo Spirito Santo allargherà le pareti dei nostri cuori e il fuoco del suo amore ci guiderà.
È la domenica chiamata "gaudete", la domenica della gioia. Paolo era in carcere a Roma e forse aveva già di fronte la prospettiva della sentenza capitale. Eppure esorta a gioire perché, aggiunge, "Il Signore e vicino". Il motivo della gioia sta proprio nella prossima venuta del Signore. Abbiamo ascoltato anche il profeta Sofonia che dice a Gerusalemme di rallegrarsi: "Gioisci Israele e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!".
Perché? "Il Signore - dice il profeta - ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico... Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente... Ti rinnoverà con il suo amore". Si parla della liberazione di Gerusalemme: scompare la condanna, si toglie l'assedio alla città, il nemico è disperso e la città può finalmente tornare a vivere. Il Signore l'ha salvata. La Parola di Dio invita a non lasciarci sopraffare dall'angoscia. Certo, ne abbiamo tutti i motivi guardando il nostro mondo, vedendo le numerose guerre e le innumerevoli ingiustizie. Come non essere tristi e angosciati di fronte a tanta violenza? Eppure siamo esortati a gioire. Non è questione di ottimismo: è l'avvicinarsi del Natale il motivo della nostra gioia. Non siamo più soli, il Signore viene accanto a noi. La liturgia interrompe la stessa severità del tempo di Avvento come a farci pregustare il Natale. Tutto nella liturgia si fa invito pressante perché ognuno si disponga ad accogliere il Signore; perché ognuno si sollevi dal sonno dell'egoismo e dall'ubriacatura dell'orgoglio per andare incontro a Gesù.
Restano pochi giorni al Natale e il nostro cuore è ancora distratto e impreparato. Luca scrive che tutto il popolo era nell'attesa del Messia, di colui che avrebbe cambiato la vita, che avrebbe liberato gli uomini e le donne dalle schiavitù di questo mondo. Per questo molti lasciavano le loro città per recarsi nel deserto ed incontrare Giovanni Battista. Anche noi abbiamo lasciato le nostre case per partecipare alla santa liturgia. E Giovanni Battista, in certo modo, continua a parlare con lo
stesso vigore, con la stessa forza di cambiamento che aveva nel deserto accanto al fiume Giordano. Assieme a quella folla di uomini e di donne, assieme a quei soldati e a quei pubblicani, ci siamo anche noi e, con loro, chiediamo: "Che cosa dobbiamo fare?". È la nostra domanda di oggi: "che cosa dobbiamo fare per accogliere il Signore che viene?". Giovanni risponde con semplicità e chiarezza: "Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto". È la carità la prima risposta. E poi, rivolto ai pubblicani e ai soldati, dice di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato, di non maltrattare e di non estorcere niente a nessuno.
Chiede, insomma, di essere giusti e rispettosi gli uni degli altri.
Il predicatore del deserto ci ricorda che l'attesa del Messia si compie tra carità e giustizia, tra misericordia e rispetto, tra tenerezza e compassione. Non dice forse Paolo ai Filippesi: "La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini"? Il Signore verrà, scenderà nel cuore di ognuno e ci battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Nessuno resterà con quello che possiede. nessuno rimarrà così com'è. Lo Spirito Santo allargherà le pareti dei nostri cuori e il fuoco del suo amore ci guiderà.
giovedì 3 dicembre 2009
6 Dicembre 2009 - II Domenica di Avvento
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...
(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)
"Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell'anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell'uomo": così scriveva il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. L'intuizione è felicissima e coglie il cuore (l'essenza) del cristianesimo. Il cristianesimo, certo, ha una sua visione del mondo; offre una dottrina su Dio, sull'uomo, sulla vita e la storia; propone anche una morale, un culto e dei riti; ma è questo e tutto questo a partire da un evento, anzi da una persona, il Cristo storicamente esistito, nato, crocifisso e risorto. Scriveva Romano Guardini: "Con Gesù Cristo l'esistenza umana entra in una nuova situazione, il mondo intero viene afferrato dal fervore divampato in Palestina".
Da domenica scorsa abbiamo ripreso la lettura del vangelo di Luca, l'evangelista più attento, tra i quattro, alla imprescindibile e fondante dimensione storica del cristianesimo. È l'unico infatti ad affrescare, all'inizio dell'attività pubblica di Gesù, un grande fondale in cui è ambientata la vicenda di Cristo.
Siamo verso l'anno 28-29 d.C.: a Roma, da 15 anni, è imperatore Tiberio Cesare; Pilato, in suo nome, è prefetto-governatore della Giudea. L'evangelista, in rapida carrellata, parte da Roma, per arrivare alla Palestina e finire a Gerusalemme, dove sono sommi sacerdoti Caifa e il suocero Anna. Come si può notare anche in altri passi della sua opera, s. Luca prende come estremi del vasto scenario Roma e Gerusalemme: il primo volume inizia con una sorta di "grand'angolo" su Gerusalemme (con l'annuncio a Zaccaria: 1,1-25) e termina con Gesù che a Gerusalemme, sul monte degli Ulivi, benedice i suoi prima di salire al cielo (24,50s). Il volume n. 2 dell'opera lucana - gli Atti degli apostoli - ricomincia da Gerusalemme con un secondo racconto dell'ascensione di Gesù al cielo (cfr. At 1,6-11) e termina a Roma con l'arrivo dell'apostolo Paolo.
La Palestina - come Luca la rappresenta con fedele adesione alla storia - appare come un oscuro brano di mondo, divisa in piccole regioni e governata da piccoli potenti: sembrano loro i signori della storia, e invece - ci vuol dire l'evangelista - la storia è dominata dalla parola di Dio, che scende (lett. avvenne: v. 2) su Giovanni: questo è l'avvenimento che fa la differenza e determina un salto di qualità con il passato.
Anche Luca, come Matteo e Marco, riporta la citazione del profeta Isaia: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! (40,3-5), ma solo Luca la prolunga fino alle parole: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio (v. 6). Per dire "salvezza", l'evangelista non usa il termine greco abituale - soterìa - ma un suo sinonimo più raro, sotèrion, che egli poi riprenderà intenzionalmente al termine del suo secondo volume, gli Atti, quando descrive Paolo prigioniero a Roma e riporta le sue ultime parole, quasi come un testamento: "Sia noto a voi - Paolo si rivolge per l'ultima volta ai suoi fratelli ebrei che si ostinano a non accogliere il vangelo di Gesù Cristo - che questa salvezza (sotèrion) viene rivolta ai pagani ed essi l'ascolteranno" (At 28,28). L'evangelista vuol dimostrare che la salvezza preparata da Giovanni e realizzata da Gesù, è destinata a tutti i popoli. Una volta che questo messaggio sarà arrivato a Roma, Luca può chiudere il suo secondo grande racconto, quello degli Atti degli apostoli: la sua "tesi" risulta ampiamente dimostrata.
In questa seconda tappa dell'Avvento, la Chiesa ci mette alla scuola di Giovanni il Battista e ci fa riascoltare il suo grido ruvido e sferzante: "Convertitevi!". Noi ci diciamo credenti e praticanti: e perché mai dovremmo convertirci? La conversione riguarda chi da cattivo diventa buono, da peccatore si fa giusto, ma noi ci sentiamo così puliti, così devoti: del resto non siamo già cristiani?
Non ci rendiamo conto che è proprio da questa presunzione che dobbiamo convertirci: dalla supposizione illusoria e infondata che, tutto sommato, siamo già a posto, che va bene così, e quindi non abbiamo bisogno di alcuna conversione.
Ma proviamo a domandarci: è proprio vero che nelle varie situazioni e circostanze della vita condividiamo sempre gli stessi sentimenti di Gesù Cristo? per esempio, quando subiamo qualche torto o qualche affronto, riusciamo a perdonare di cuore chi ci ha fatto soffrire? Quando ci troviamo in una prova o sotto l'assillo di una grave preoccupazione, è proprio vero che rimettiamo la nostra causa a Dio, nella fiducia che non dobbiamo angustiarci per nulla? Quando siamo chiamati a condividere gioie o dolori, sappiamo sinceramente piangere con chi piange e gioire con chi gioisce? Quando dobbiamo mostrare coraggiosamente la nostra fede, ci capita forse di vergognarci del vangelo? E stiamo imparando a vivere il nostro quotidiano sempre e in ogni situazione, felice o avversa, nella lode al Signore e nel ringraziamento sincero e convinto che tutto è segno, grazia e dono?
È soprattutto nel campo della costruzione della civiltà dell'amore che dobbiamo vigilare. Questo nostro tempo, che si svolge tra il primo e l'ultimo avvento di Cristo, è già carico di eternità. Cammina verso un avvenire: ma quello stesso avvenire lo porta già in seno, come una madre incinta porta in grembo il bambino che dovrà nascere. La storia è il campo di azione in cui l'uomo è chiamato a collaborare con Dio. Il Battista con la sua predicazione e il ministero di battezzatore, ha aperto le porte dell'avvenire. Così ogni uomo è autore di un frammento di storia il cui significato positivo o negativo si ripercuote su tutta la famiglia umana. "Ogni istante del tempo - scriveva s. Francesco di Sales - viene a te con un dovere da compiere e una grazia per compierlo bene; e ritorna all'eternità, per essere per sempre ciò che tu ne avrai fatto". Questo pone la nostra fragile libertà in una situazione drammatica, perché ogni frammento di tempo ha un peso decisivo. Ne siamo consapevoli? E non abbiamo davvero niente da autocontestarci?
"Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio": e chi appartiene ad un'altra religione e senza sua colpa passa tutta la vita senza mai incontrare esplicitamente Gesù Cristo? La parola di Dio ci rassicura: Dio "vuole che tutti gli uomini siano salvati" per mezzo di Gesù Cristo, unico mediatore (1Tm 2,4-6) e per vie solo a lui conosciute porta gli uomini che senza loro colpa ignorano il vangelo alla salvezza. Ma ciò non toglie che noi cristiani abbiamo il dovere di far conoscere Gesù Cristo a quanti ancora non lo conoscono. "Guai a me se non annunciassi il vangelo", gridava s. Paolo. Se a noi il Signore Gesù ha cambiato la vita, come non sentire la passione di farlo conoscere a quanti incontriamo al lavoro, a scuola, nel condominio, in ospedale?
Se ci guardiamo intorno, certamente troviamo persone interessate e disponibili a cominciare o a ricominciare un cammino di fede, se incontrassero dei cristiani innamorati di Gesù Cristo: non dovremmo e non potremmo essere noi quei cristiani?
Ma dobbiamo deciderci una buona volta: dobbiamo spalare le montagne dell'orgoglio e dell'invidia, riempire le voragini scavate dall'indifferenza e dall'indolenza, raddrizzare i sentieri di tanti nostri compromessi e peripezie a zig-zag. Il cantiere è aperto, i lavori sono in corso...
(Fonte: Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi", Ave, Roma 2009)
martedì 24 novembre 2009
29 Novembre 2009 - I Domenica di Avvento
La Parola di Dio ci dice: Vegliate: state svegli, state attenti, vigilate!
Cosa significa essere svegli? Pensiamo all'autista di un camion o di una macchina: un autista deve essere sempre sveglio per non incorrere in pericoli che sarebbero gravissimi.
Cosa significa essere svegli? Pensiamo all'autista di un camion o di una macchina: un autista deve essere sempre sveglio per non incorrere in pericoli che sarebbero gravissimi.
Bene: anche noi dobbiano essere così attenti, così svegli, così vigilanti, perché viene il Signore.
Noi aspettiamo questa venuta. E poiché c'è sempre un'attesa e una preparazione prima di un incontro finale e decisivo, aspettare l'incontro definitivo con il Signore non deve essere causa di pensieri tristi, ma deve essere un pensiero di speranza, di gioia.
Noi aspettiamo questa venuta. E poiché c'è sempre un'attesa e una preparazione prima di un incontro finale e decisivo, aspettare l'incontro definitivo con il Signore non deve essere causa di pensieri tristi, ma deve essere un pensiero di speranza, di gioia.
È bello pensare che al termine della nostra vita il Signore ci aspetta a braccia aperte. Noi sappiamo dove stiamo andando: non sappiamo quando, ma sappiamo dove: nella braccia del Padre nostro che è nei cieli. Questo ci commuove. Noi sappiamo che la nostra vita, a volte travagliata, a volte con prove e sofferenze, questa nostra vita avrà una conclusione felice. Sappiamo che il Signore ci attende per darci la vita che non avrà più fine, nella pace e nella gioia, nella pienezza del suo amore. Quando si sa perché si vive, vale la pena vivere e vivere nel modo migliore. La fede dà questo senso pieno all'esistenza, altrimenti saremmo tentati tante volte di disperazione. Questa attesa del Signore ringiovanisce la nostra vita, ci fa sentire come bambini che hanno tutto il loro futuro davanti. Per noi, anche a 80 anni e più, il futuro è avanti, la nostra piena realizzazione deve ancora arrivare. E se fisicamente sono calate le forze, ci è dato il tempo della vigilanza, della preghiera, della preparazione, dell'amore, in attesa dell'Incontro e dell'abbraccio con il Signore.
"State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso". Non serve consolarsi dicendo che nessuno sa quando sarà la fine del mondo. C'è una venuta, un ritorno di Cristo, che ha luogo nella vita di ogni persona, nel suo passaggio all'eternità. Per migliaia e migliaia di persone la fine del mondo è oggi. Oggi è l'incontro con il Signore. Oggi occorre essere pronti.
Ma Gesù è già presente tra di noi, nella sua comunità che è la Chiesa, nella Parola di Dio che leggiamo e accogliamo; è presente nell'Eucaristia. Lo accogliamo nelle nostre mani e nel nostro cuore: a volte lo prendiamo così veloci che quasi non ci accorgiamo che è il Signore.
Siamo invitati ad essere attenti e svegli perché Dio arriverà. Nello stesso tempo dobbiamo essere attenti perché Gesù è già presente in mezzo a noi: nella Parola, nei sacramenti, nelle persone, nei poveri.
Si tratta di essere attenti davanti alla presenza di Dio, di riconoscerlo. E tante volte Cristo Gesù si rende presente là dove noi non pensiamo.
Iniziamo l'Avvento. Imploriamo la venuta di Gesù, perché ci renda partecipi della grazia e della salvezza.
Come vivere questa implorazione e questa attesa nel mondo concreto di oggi? Ci aiuta in questa preghiera il testo del profeta Isaia che è un ripensare all'amore e alla paternità di Dio, che è un prendere coscienza dei nostri peccati e dei peccati dell'umanità, per gridare al Signore l'invocazione più profonda, più sincera, più accorata: Vieni a salvarci o Signore! Ne fa di peccati l'umanità di oggi? Basta guardarsi attorno o seguire i telegiornali! Ciascuno di noi ne fa di peccati? Basta essere sinceri. Non è buona cosa illudersi, pensare che non abbiamo peccati o sentirci abbastanza a posto. Ne è segno la confessione che facciamo di rado o con un esame di coscienza su poche cose, quasi con un confronto sulla mentalità mondana, anziché su tutti i dieci comandamenti e sul comandamento dell'amore: "Amerai Dio con tutto il cuore e il prossimo come te stesso". Ne è segno a volte la superficialità con cui celebriamo l'Eucaristia o facciamo la comunione.
E' importante prendere coscienza di tutti i peccati nostri e dell'umanità, dei nostri peccati come umanità, non per abbatterci, ma per rivolgerci a chi ci può salvare, a chi ci può dare la forza di fare tutta la nostra parte, nel lottare contro il male e nell'intensificare il bene.
Se chiediamo aiuto per finta, è chiaro che non siamo convinti. Ma se siamo coscienti e sinceri, siamo come quelli che in certe situazioni stanno per essere sommersi dalle acque delle alluvioni e rischiano di morire. Questi non invocavano "venite a salvarci" per finta, ma con tutto se stessi, finché qualcuno con qualunque mezzo, anche l'elicottero, non arriva a portarli in salvo.
Il profeta dice: "Tu Signore sei nostro Padre, da sempre ti chiami nostro Salvatore. Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore? Ritorna per amore dei tuoi servi. Se tu squarciassi i cieli e scendessi"!. Gesù lo ha fatto e lo fa: ha squarciato i cieli.
"Tu hai fato le cose più belle e più grandi, ma noi abbiamo peccato contro di te e siamo stati ribelli e ora ne sperimentiamo tutto il castigo e tutto il male che ci siamo dati da noi stessi.
Ma tu Signore sei nostro Padre, noi siamo argilla e tu Colui che dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani".
Allora "Fa splendere il tuo volto e salvaci, Signore. Mostraci la tua misericordia e donaci la tua salvezza".
C'è questa coscienza dei nostri peccati e dei peccati del mondo? C'è il grido sincero e accorato perché il Signore ci venga a salvare? Siamo pronti a fare la nostra parte in questa opera di salvezza? Abbiamo voglia di vivere così il Natale invocando la presenza di Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore di questa nostra umanità, in tutte le sue disperazioni e malvagità?
Così possiamo credere e accogliere l'incarnazione di Gesù nella nostra storia attuale e in questa nostra storia vogliamo la presenza di Dio.
"State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso". Non serve consolarsi dicendo che nessuno sa quando sarà la fine del mondo. C'è una venuta, un ritorno di Cristo, che ha luogo nella vita di ogni persona, nel suo passaggio all'eternità. Per migliaia e migliaia di persone la fine del mondo è oggi. Oggi è l'incontro con il Signore. Oggi occorre essere pronti.
Ma Gesù è già presente tra di noi, nella sua comunità che è la Chiesa, nella Parola di Dio che leggiamo e accogliamo; è presente nell'Eucaristia. Lo accogliamo nelle nostre mani e nel nostro cuore: a volte lo prendiamo così veloci che quasi non ci accorgiamo che è il Signore.
Siamo invitati ad essere attenti e svegli perché Dio arriverà. Nello stesso tempo dobbiamo essere attenti perché Gesù è già presente in mezzo a noi: nella Parola, nei sacramenti, nelle persone, nei poveri.
Si tratta di essere attenti davanti alla presenza di Dio, di riconoscerlo. E tante volte Cristo Gesù si rende presente là dove noi non pensiamo.
Iniziamo l'Avvento. Imploriamo la venuta di Gesù, perché ci renda partecipi della grazia e della salvezza.
Come vivere questa implorazione e questa attesa nel mondo concreto di oggi? Ci aiuta in questa preghiera il testo del profeta Isaia che è un ripensare all'amore e alla paternità di Dio, che è un prendere coscienza dei nostri peccati e dei peccati dell'umanità, per gridare al Signore l'invocazione più profonda, più sincera, più accorata: Vieni a salvarci o Signore! Ne fa di peccati l'umanità di oggi? Basta guardarsi attorno o seguire i telegiornali! Ciascuno di noi ne fa di peccati? Basta essere sinceri. Non è buona cosa illudersi, pensare che non abbiamo peccati o sentirci abbastanza a posto. Ne è segno la confessione che facciamo di rado o con un esame di coscienza su poche cose, quasi con un confronto sulla mentalità mondana, anziché su tutti i dieci comandamenti e sul comandamento dell'amore: "Amerai Dio con tutto il cuore e il prossimo come te stesso". Ne è segno a volte la superficialità con cui celebriamo l'Eucaristia o facciamo la comunione.
E' importante prendere coscienza di tutti i peccati nostri e dell'umanità, dei nostri peccati come umanità, non per abbatterci, ma per rivolgerci a chi ci può salvare, a chi ci può dare la forza di fare tutta la nostra parte, nel lottare contro il male e nell'intensificare il bene.
Se chiediamo aiuto per finta, è chiaro che non siamo convinti. Ma se siamo coscienti e sinceri, siamo come quelli che in certe situazioni stanno per essere sommersi dalle acque delle alluvioni e rischiano di morire. Questi non invocavano "venite a salvarci" per finta, ma con tutto se stessi, finché qualcuno con qualunque mezzo, anche l'elicottero, non arriva a portarli in salvo.
Il profeta dice: "Tu Signore sei nostro Padre, da sempre ti chiami nostro Salvatore. Perché ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore? Ritorna per amore dei tuoi servi. Se tu squarciassi i cieli e scendessi"!. Gesù lo ha fatto e lo fa: ha squarciato i cieli.
"Tu hai fato le cose più belle e più grandi, ma noi abbiamo peccato contro di te e siamo stati ribelli e ora ne sperimentiamo tutto il castigo e tutto il male che ci siamo dati da noi stessi.
Ma tu Signore sei nostro Padre, noi siamo argilla e tu Colui che dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani".
Allora "Fa splendere il tuo volto e salvaci, Signore. Mostraci la tua misericordia e donaci la tua salvezza".
C'è questa coscienza dei nostri peccati e dei peccati del mondo? C'è il grido sincero e accorato perché il Signore ci venga a salvare? Siamo pronti a fare la nostra parte in questa opera di salvezza? Abbiamo voglia di vivere così il Natale invocando la presenza di Gesù Cristo Figlio di Dio, Salvatore di questa nostra umanità, in tutte le sue disperazioni e malvagità?
Così possiamo credere e accogliere l'incarnazione di Gesù nella nostra storia attuale e in questa nostra storia vogliamo la presenza di Dio.
giovedì 19 novembre 2009
22 Novembre 2009 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Festa di Cristo Re
Con questa domenica si chiude l'anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudiziario, amministrativo, e così via).
Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. E', infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le scadenze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade.
Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagine del Vangelo a scandire il tempo dell'anno liturgico perché i credenti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la storia stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei.
Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito santo sulla Chiesa inviandola sino agli estremi confini della terra. L'anno liturgico, insomma, è Cristo stesso ("annus est Christus", diceva l'antica saggezza cristiana) che ci viene donato.
Quest'ultima domenica dell'anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, Re dell'universo. E' la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. E' una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. E' la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che mentre vediamo Cristo, come Re dell'universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto.
Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? E lo scetticismo di Pilato di fronte all'affermazione di coloro che gielo avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: "Tu sei il re dei giudei?" L'aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l'affermazione fatta da Pilato: "Tu lo dici, io sono re!" Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: "Il mio regno non è di questo mondo". E ne porta una prova lampante: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei".
E' tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarezza: "Il mio regno non è di questo mondo". In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: "Il mio regno non è di quaggiù".
La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul consenso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall'alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l'avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di "uno, simile a figlio d'uomo" che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal "vegliardo" il "potere, la gloria e il regno". E la visione continua con una scena grandiosa: "Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto".
La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pienezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra. Al contrario, pur non essendo del mondo il potere di Cristo si esercita nella terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: "Dunque, tu sei re?" E come dire che l'accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per "rendere testimonianza alla verità". E aggiunge: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!".
La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell'amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3, 16-17).
Gesù è il volto concreto dell'amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone dell'inimmaginabile "passione" di Dio per gli uomini. E' vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell'amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia.
L'amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. E' una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall'inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: "Beati i miti, perché erediteranno la terra" (Mt 5, 5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandezza, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla "verità" di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l'amore sconfigge ogni male, compresa la morte.
In questa domenica che chiude l'anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell'amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: "Ecco, viene sulle nubi del cielo e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto".
Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. E', infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le scadenze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade.
Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagine del Vangelo a scandire il tempo dell'anno liturgico perché i credenti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la storia stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei.
Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito santo sulla Chiesa inviandola sino agli estremi confini della terra. L'anno liturgico, insomma, è Cristo stesso ("annus est Christus", diceva l'antica saggezza cristiana) che ci viene donato.
Quest'ultima domenica dell'anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, Re dell'universo. E' la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. E' una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. E' la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che mentre vediamo Cristo, come Re dell'universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto.
Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? E lo scetticismo di Pilato di fronte all'affermazione di coloro che gielo avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: "Tu sei il re dei giudei?" L'aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l'affermazione fatta da Pilato: "Tu lo dici, io sono re!" Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: "Il mio regno non è di questo mondo". E ne porta una prova lampante: "Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei".
E' tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarezza: "Il mio regno non è di questo mondo". In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: "Il mio regno non è di quaggiù".
La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul consenso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall'alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l'avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di "uno, simile a figlio d'uomo" che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal "vegliardo" il "potere, la gloria e il regno". E la visione continua con una scena grandiosa: "Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto".
La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pienezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra. Al contrario, pur non essendo del mondo il potere di Cristo si esercita nella terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: "Dunque, tu sei re?" E come dire che l'accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per "rendere testimonianza alla verità". E aggiunge: "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!".
La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell'amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Gv 3, 16-17).
Gesù è il volto concreto dell'amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone dell'inimmaginabile "passione" di Dio per gli uomini. E' vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell'amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia.
L'amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. E' una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall'inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: "Beati i miti, perché erediteranno la terra" (Mt 5, 5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandezza, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla "verità" di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l'amore sconfigge ogni male, compresa la morte.
In questa domenica che chiude l'anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell'amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: "Ecco, viene sulle nubi del cielo e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto".
giovedì 12 novembre 2009
15 Novembre 2009 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
Incamminati verso la conclusione dell’Anno liturgico, siamo invitati dalla Parola di Dio a prendere atto di due realtà inseparabili tra di loro e indispensabili per noi: la fedeltà di Dio agli uomini e la fedeltà degli uomini a Dio. Guardando al momento finale del nostro cammino di fede e di speranza, la Liturgia odierna ci ricorda che Dio non abbandona alla morte i suoi figli, perché la vita eterna a noi promessa è il segno pieno e perfetto della carità di Dio per noi.
Gli avvenimenti ultimi della storia dell’uomo e del mondo intero sono legati al mistero di Dio e del suo Cristo: il Signore è il primo e l’ultimo, il principio e la fine. Le realtà celesti fanno irruzione nella storia fin dal primo momento della rivelazione e sempre sono presenti.
Sarà la venuta di Cristo a porre fine alle cose corruttibili e a deporre il germe di immortalità. Questa prenderà forma piena e definitiva con il ritorno glorioso del Signore alla fine del mondo. Nell’attesa, la Comunità cristiana, lungi dall’allentare l’impegno nelle realtà umane (lavoro, politica, società e famiglia), si immerge in esse al fine di elevarle e di trasformarle in “cieli nuovi” e “terra nuova”.
Con la risurrezione di Gesù, il mondo e la storia sono entrati nella loro fase finale, nella pienezza dei tempi. Le promesse di Dio si sono compiute e i cicli e la terra nuovi sono già stati inaugurati. In Cristo, Dio ha già detto la sua parola definitiva; in noi è già stato deposto lo Spirito che è il seme delle realtà future.
Comprendere ciò significa comprendere che il cristiano è l'uomo del futuro. Ciò significa non tanto che il cristiano è l'uomo che “aspetta il futuro” che gli sarà dato dopo la morte; ma piuttosto che è l'uomo che costruisce oggi il suo futuro. In un certo senso, dopo Cristo, tutto è fatto: non attendiamo più nulla di sostanzialmente nuovo. Eppure è altrettanto vero che tutto rimane da fare. Si tratta di far “fare pasqua” al mondo, di “far passare” tutte le realtà della creazione nella sfera di Cristo, il quale alla fine “ricapitolerà” in sé tutte le cose. È questa la grande opera che riempie il tempo della Chiesa; ed è lungi dall'essere compiuta. Oltre che un compito personale e sociale, il cristiano deve svolgere sulla terra anche un compito che potremmo chiamare cosmico. Come il peccato di Adamo non ha avuto solo conseguenze per l'uomo, ma ha avuto un contraccolpo anche nel cosmo e nella materia, che è diventata opaca (nasconde Dio invece di manifestarlo), pesante (trascina verso il basso invece di elevare) e ribelle all'uomo («con il sudore del tuo volto mangerai...»), così la redenzione di Cristo ha toccato tutto l'universo. Egli ha salvato tutto l'uomo, anche il corpo destinato alla risurrezione e alla gloria insieme allo spirito. Solidale con il primo Adamo nella caduta, la creazione è chiamata a partecipare anche alla vittoria del secondo Adamo. San Paolo vede la natura tesa verso la redenzione e sente i suoi gemiti, simili a quelli di una partoriente (Rm 8,12-22). Tutte le cose tendono a Cristo che «ricapitolerà in sé il creato» (Ef 1,9). Salvatore dell'uomo, Cristo lo è anche dell'universo. In questo sforzo, in questa tensione il cristiano è chiamato a svolgere un ruolo insostituibile. È il cristiano che con il suo lavoro, con il sacrificio e la preghiera “umanizzerà” questo mondo e preparerà quella trasformazione dell'universo nei «cieli nuovi» e nella «nuova terra» che inaugurerà il definitivo Regno di Dio. In una parola «ciò che l'anima è nel corpo, questo devono essere i cristiani nel mondo» (Lettera a Diogneto, 6).
II cristiano è un pellegrino su questa terra. Non è un cittadino, ma un esule in marcia verso la vera Patria. Egli considera la terra non come una dimora permanente, ma come la tappa di un viaggio. Per questo non vi costruisce una casa di solida pietra, ma solo una tenda, come il viandante che sosta nel deserto. Una interpretazione unilaterale ed ingiusta delle realtà umane (favorita, peraltro, da certa predicazione altrettanto unilaterale e miope) ha fatto sì che molti uomini del nostro tempo guardino con diffidenza alla religione cristiana, quasi fosse nemica del mondo, della vita, del progresso, dell'impegno umano; una religione di evasione, di disimpegno, di rinuncia passiva e vile; l'oppio che addormenta l'uomo e lo distoglie da ogni interesse verso la città terrena, facendogli balenare la promessa di un aldilà felice e illusorio. Diverso è, invece, il compito del cristiano nel mondo: «Il cristiano non è un evaso, al contrario un impegnato come persona nell’incremento, nella riuscita, nella salvezza del mondo. Sa che l'universo intero ha un solo principio di consistenza, di movimento, di fine: Cristo, perché “per mezzo di lui sono state fatte tutte le cose e in lui trovano la loro consistenza” (Col 1,16-18). Cristo è in tal modo il grande “Adunatore” che lavora nell'intimo delle anime e delle cose a tutto santificare, a tutto unire, a tutto consacrare alla gloria di Dio. Il cristiano si impegna volontariamente a questa gigantesca impresa, al suo posto, a suo tempo, con le proprie risorse. Non lavora da solo: collabora... Lavora con coraggio, perché la fatica è dura; con fede, perché il compito è misterioso e senza proporzione con le forze umane; lavora a far crescere l'universo e a far spuntare la nuova creazione attraverso il travaglio caotico e doloroso, pieno di speranza e di affanni, travaglio che non è, però, quello di un'agonia, ma di un parto» (J. Mouroux).
Dobbiamo, quindi, immergerci con fiducia e con impegno nel fluire del tempo, sapendo di essere costruttori della storia della salvezza, insieme con Cristo. Possiamo comprendere la storia, il mondo e noi stessi solo in intima relazione con Lui. Il Concilio Vaticano II riporta questa stupenda affermazione: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et Spes, 22). È come dire che il temporaneo riceve luce dall’eterno, il finito dall’infinito. La nostra attività di cristiani inizia con la conoscenza di Cristo e continua nell’attesa della sua venuta. L’incontro con Lui è troppo importante perché si possa a cuor leggero vivere spiritualmente disattenti.
Se Domenica scorsa eravamo invitati a misurare la nostra relazione con i beni, oggi la Liturgia ci induce a confrontarci con la storia. E lo fa muovendo il nostro sguardo in direzione del compimento. Non per impaurirci, ma per consolarci. Non per farci almanaccare su date e indizi premonitori, ma per farci vivere bene il presente: con la venuta di Cristo è già eternità, anche se il gioco del tempo continua, con regole nuove.
C’è una consolante certezza che ci viene comunicata oggi: il Signore, Crocifisso e Risorto, ritornerà nella gloria.
Gli avvenimenti ultimi della storia dell’uomo e del mondo intero sono legati al mistero di Dio e del suo Cristo: il Signore è il primo e l’ultimo, il principio e la fine. Le realtà celesti fanno irruzione nella storia fin dal primo momento della rivelazione e sempre sono presenti.
Sarà la venuta di Cristo a porre fine alle cose corruttibili e a deporre il germe di immortalità. Questa prenderà forma piena e definitiva con il ritorno glorioso del Signore alla fine del mondo. Nell’attesa, la Comunità cristiana, lungi dall’allentare l’impegno nelle realtà umane (lavoro, politica, società e famiglia), si immerge in esse al fine di elevarle e di trasformarle in “cieli nuovi” e “terra nuova”.
Con la risurrezione di Gesù, il mondo e la storia sono entrati nella loro fase finale, nella pienezza dei tempi. Le promesse di Dio si sono compiute e i cicli e la terra nuovi sono già stati inaugurati. In Cristo, Dio ha già detto la sua parola definitiva; in noi è già stato deposto lo Spirito che è il seme delle realtà future.
Comprendere ciò significa comprendere che il cristiano è l'uomo del futuro. Ciò significa non tanto che il cristiano è l'uomo che “aspetta il futuro” che gli sarà dato dopo la morte; ma piuttosto che è l'uomo che costruisce oggi il suo futuro. In un certo senso, dopo Cristo, tutto è fatto: non attendiamo più nulla di sostanzialmente nuovo. Eppure è altrettanto vero che tutto rimane da fare. Si tratta di far “fare pasqua” al mondo, di “far passare” tutte le realtà della creazione nella sfera di Cristo, il quale alla fine “ricapitolerà” in sé tutte le cose. È questa la grande opera che riempie il tempo della Chiesa; ed è lungi dall'essere compiuta. Oltre che un compito personale e sociale, il cristiano deve svolgere sulla terra anche un compito che potremmo chiamare cosmico. Come il peccato di Adamo non ha avuto solo conseguenze per l'uomo, ma ha avuto un contraccolpo anche nel cosmo e nella materia, che è diventata opaca (nasconde Dio invece di manifestarlo), pesante (trascina verso il basso invece di elevare) e ribelle all'uomo («con il sudore del tuo volto mangerai...»), così la redenzione di Cristo ha toccato tutto l'universo. Egli ha salvato tutto l'uomo, anche il corpo destinato alla risurrezione e alla gloria insieme allo spirito. Solidale con il primo Adamo nella caduta, la creazione è chiamata a partecipare anche alla vittoria del secondo Adamo. San Paolo vede la natura tesa verso la redenzione e sente i suoi gemiti, simili a quelli di una partoriente (Rm 8,12-22). Tutte le cose tendono a Cristo che «ricapitolerà in sé il creato» (Ef 1,9). Salvatore dell'uomo, Cristo lo è anche dell'universo. In questo sforzo, in questa tensione il cristiano è chiamato a svolgere un ruolo insostituibile. È il cristiano che con il suo lavoro, con il sacrificio e la preghiera “umanizzerà” questo mondo e preparerà quella trasformazione dell'universo nei «cieli nuovi» e nella «nuova terra» che inaugurerà il definitivo Regno di Dio. In una parola «ciò che l'anima è nel corpo, questo devono essere i cristiani nel mondo» (Lettera a Diogneto, 6).
II cristiano è un pellegrino su questa terra. Non è un cittadino, ma un esule in marcia verso la vera Patria. Egli considera la terra non come una dimora permanente, ma come la tappa di un viaggio. Per questo non vi costruisce una casa di solida pietra, ma solo una tenda, come il viandante che sosta nel deserto. Una interpretazione unilaterale ed ingiusta delle realtà umane (favorita, peraltro, da certa predicazione altrettanto unilaterale e miope) ha fatto sì che molti uomini del nostro tempo guardino con diffidenza alla religione cristiana, quasi fosse nemica del mondo, della vita, del progresso, dell'impegno umano; una religione di evasione, di disimpegno, di rinuncia passiva e vile; l'oppio che addormenta l'uomo e lo distoglie da ogni interesse verso la città terrena, facendogli balenare la promessa di un aldilà felice e illusorio. Diverso è, invece, il compito del cristiano nel mondo: «Il cristiano non è un evaso, al contrario un impegnato come persona nell’incremento, nella riuscita, nella salvezza del mondo. Sa che l'universo intero ha un solo principio di consistenza, di movimento, di fine: Cristo, perché “per mezzo di lui sono state fatte tutte le cose e in lui trovano la loro consistenza” (Col 1,16-18). Cristo è in tal modo il grande “Adunatore” che lavora nell'intimo delle anime e delle cose a tutto santificare, a tutto unire, a tutto consacrare alla gloria di Dio. Il cristiano si impegna volontariamente a questa gigantesca impresa, al suo posto, a suo tempo, con le proprie risorse. Non lavora da solo: collabora... Lavora con coraggio, perché la fatica è dura; con fede, perché il compito è misterioso e senza proporzione con le forze umane; lavora a far crescere l'universo e a far spuntare la nuova creazione attraverso il travaglio caotico e doloroso, pieno di speranza e di affanni, travaglio che non è, però, quello di un'agonia, ma di un parto» (J. Mouroux).
Dobbiamo, quindi, immergerci con fiducia e con impegno nel fluire del tempo, sapendo di essere costruttori della storia della salvezza, insieme con Cristo. Possiamo comprendere la storia, il mondo e noi stessi solo in intima relazione con Lui. Il Concilio Vaticano II riporta questa stupenda affermazione: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et Spes, 22). È come dire che il temporaneo riceve luce dall’eterno, il finito dall’infinito. La nostra attività di cristiani inizia con la conoscenza di Cristo e continua nell’attesa della sua venuta. L’incontro con Lui è troppo importante perché si possa a cuor leggero vivere spiritualmente disattenti.
Se Domenica scorsa eravamo invitati a misurare la nostra relazione con i beni, oggi la Liturgia ci induce a confrontarci con la storia. E lo fa muovendo il nostro sguardo in direzione del compimento. Non per impaurirci, ma per consolarci. Non per farci almanaccare su date e indizi premonitori, ma per farci vivere bene il presente: con la venuta di Cristo è già eternità, anche se il gioco del tempo continua, con regole nuove.
C’è una consolante certezza che ci viene comunicata oggi: il Signore, Crocifisso e Risorto, ritornerà nella gloria.
venerdì 6 novembre 2009
8 Novembre 2009 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario
Gesù si trova nel tempio. E Gesù guarda, osserva, quello che accade.
Perché guardando si può vedere; se uno ha gli occhi aperti vede un sacco di cose.
La gente vede gli scribi e dice: "Ma che santi, ma che religiosi, ma che bravi!". Gesù dirà: "Falsi, ipocriti!". La gente vede una povera vedova e dice: "Che donna da poco". Gesù dirà: "Qui c'è la vita, qui c'è il tutto".
E ai discepoli proprio per questo dirà: "State attenti, guardatevi bene dal non farvi ingannare dalle apparenze". "Gli scribi amano passeggiare in lunghe vesti". Al tempo di Gesù tutti portavano il tallit ma gli scribi lo portavano ampio, lungo e sontuoso. Tutti potevano notare e ammirare il loro vestito. Se portavano un vestito così voleva dire che se lo potevano permettere, voleva dire che erano di alto grado sociale. Ciò che portavano era un modo per esibire chi erano. Il loro vestire determinava il grado sociale; quando camminavano erano ammirati, riconosciuti, la gente comune provava un senso di sudditanza nei loro confronti. Nelle sinagoghe avevano un posto riservato, un posto d'onore, che dava le spalle all'armadio sacro e di fronte a tutta l'assemblea.
Nelle feste e nei banchetti erano a capotavola, nei posti più avanti e più vicini al festeggiato.
Uomini come gli scribi faranno di tutto per non perdere la loro immagine perché altrimenti dovrebbero fare l'amara scoperta che dietro c'è il nulla, che non c'è personalità. Sono uomini di cartapesta. Sono come un regalo confezionato meravigliosamente: carta, fiocco, nastrino, busta, ma dentro non c'è il regalo! Per cui uomini così sono di una resistenza incredibile: non cambiano, non si mettono veramente in gioco, mai.
Ma essere individui veri non vuol dire essere fuori, sopra gli altri, ma differenziarsi, essere unici. Gli scribi, come i personaggi famosi, parlavano delle loro imprese: leggevano la Torah, osservavano tutte le leggi, erano scrupolosi in tutto, pregavano più volte al giorno. Ma non c'era la Vita in loro.
Essere vivi vuol dire che gli occhi sono luminosi, che i sentimenti fluiscono, che ci si ascolta con interesse, che ciò che si dice ha un senso e non è banale; che c'è spazio per sé e per l'altro, che ci sente bene a stare con queste persone; che non si ha bisogno di attaccare, né di difendersi, né di elevarsi o di umiliarsi; che si è persone vibranti e che si sa ciò che si vuole e ciò che non si vuole.
Chi non può avere successo si eleva giudicando. Giudicare è un modo per abbassare gli altri, per ridurli alle proprie dimensioni. Siccome vorrei il successo ma non ne sono capace, mi elevo sopra gli altri non mettendomi sopra (non ne sono capace) ma mettendo sotto loro: li giudico.
L'egoista (lo scriba, il narcisista) non è nient’altro che un poveraccio che si preoccupa soltanto della sua immagine: "Cosa si dirà in paese? Cosa si dirà in giro? Cosa si pensa di me? Piaccio?".
L'uomo di fede si interessa della vita. L'egoista crede nella magia dell'immagine e del buon nome; l'unica sua preoccupazione non è per sé, per sviluppare la Vita, il Dio che ha dentro, ma per accrescere il suo potere e avere effetto e successo negli altri. L'uomo di fede, invece, crede in sé e nella vita dello spirito che lo abita dentro. La sua preoccupazione non è risultare gradito ma sviluppare il divino e lo spirito che lo abita.
Agli scribi Gesù dirà: "Guai a voi, Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume… "
Gli scribi erano gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio. Essi parlavano un sacco di Dio. Avevano Dio sempre nella bocca ma non nel loro cuore. Lo conoscevano benissimo con la mente ma erano totalmente ignoranti nella conoscenza del cuore. Dio non era più un'esperienza, un incontro, ma diventava scienza della religione, qualcosa che si poteva imparare a memoria o applicare. Se poi pagavi avevi assicurata la benevolenza di Dio.
Tu puoi sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarti ogni mese, ma se il nome di Gesù non ti fa sussultare l'anima e le sue parole non ti fanno vibrare le corde del tuo cuore; se il suo nome non ti instilla desiderio di verità e di ricerca e non ti "prende", appassiona l'anima per questa vita, a che ti serve tutto quello che sai?
Questo faceva imbestialire Gesù: sapevano tutto di Dio ma non avevano Dio.
Per questo Gesù definirà questi uomini religiosi come degli eretici, senza fede, vipere, falsi e ingannatori.
Nauseato, irritato da essi, Gesù si va a sedere vicino alla cassetta delle offerte posta all'ingresso del tempio. E da li osserva la vedova.
Se non fosse stato per lo sguardo di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna.
Essere vedova, voleva dire non avere sostentamento né reddito: vivere di elemosina, di carità, di quello che altri davano. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli da nutrire e sempre affamati.
E' probabile che quei due spiccioli non fossero altro che il frutto della sua giornata di elemosina. Quella donna, allora, agli occhi superficiali dona poco, anzi qualcosa che può far sorridere, un'inezia. Ma ad occhi attenti quella donna dona proprio tutto quello che ha, tutto di tutto.
Dio non vuole mai qualcosa di noi ma tutto di noi.
Dio non vuole cose da noi; vuole noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Non vuole qualcosa di noi vuole tutto di noi. Dio vuole che noi, per Lui, ci mettiamo in gioco del tutto. Vuole che per Lui noi cambiamo il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di concepire la nostra fede, che diamo ordine diverso alle nostre priorità.
Tu puoi dare dei soldi per i bambini che soffrono e che muoiono di fame. Molto bene. Ma prenderne uno a casa tua o sentire la sofferenza del loro cuore ti cambia la vita. Tu puoi dare un po' di tempo alla preghiera ma affidarsi a Lui, lasciare che Lui ti trasformi, ti porti dove Lui vuole e tu non vorresti, ti cambia la vita. Tu puoi offrire un po' di disponibilità per gli altri ed è buono, molto buono. Ma cambiare dentro perché gli altri si sentano più compresi da te, perché il tuo amore sia più libero e più vero oppure farne dono per la verità, per la giustizia, perché questo mondo sia più umano, questo ti cambia la vita.
Noi spesso giochiamo con Dio ma Lui, invece, ci chiede di giocarci per Lui. Noi vogliamo che Lui ci sia nella nostra vita ma che non interferisca con le nostre scelte, che non ci sia d'intralcio ma soprattutto che non ci faccia vedere qualcosa che non vorremmo vedere e che non ci chieda di cambiare o di mettere in gioco qualcosa per cui soffriremmo. Magari lo vogliamo tanto, ma volerlo del tutto è su di un altro piano. Solamente chi si da del tutto avrà il Tutto.
Quello che per gli altri era insignificante, banale senza valore, non lo era per Lui.
Tutto risplende nella sua luce! Solo agli occhi di Dio può risaltare, risplendere, l'intensità e il dono di persone povere e umili. Gesù non si scelse i sacerdoti, né i ricchi del tempo, né i sapienti del tempo. Gesù si scelse persone intellettualmente povere, a volte dure e ostinate (vedi Pietro). I dottori, i sapienti, gli scribi, si saranno messi a ridere vedendo quali discepoli si era scelti il Maestro! Ma lui vedeva dentro: forse avevano poco, ma quelle persone erano capaci di dare tutto il poco che avevano.
Non serve chiedersi quanto uno ha, ma quanto può dare. Perché tutto risplende nella tua luce, Signore. Tutto risplende nella tua luce perché tu vedi oltre il poco o il tanto.
Tutto risplende nella luce tua perché il mio buio può essere luce ai tuoi occhi, la mia povertà ricchezza e il mio poco un tesoro inestimabile.
Il tanto di uno è nulla sotto la tua luce. E il niente di un altro è invece tutto.
Perché nella tua luce tutto risplende, tutto ha un significato. Amen.
Perché guardando si può vedere; se uno ha gli occhi aperti vede un sacco di cose.
La gente vede gli scribi e dice: "Ma che santi, ma che religiosi, ma che bravi!". Gesù dirà: "Falsi, ipocriti!". La gente vede una povera vedova e dice: "Che donna da poco". Gesù dirà: "Qui c'è la vita, qui c'è il tutto".
E ai discepoli proprio per questo dirà: "State attenti, guardatevi bene dal non farvi ingannare dalle apparenze". "Gli scribi amano passeggiare in lunghe vesti". Al tempo di Gesù tutti portavano il tallit ma gli scribi lo portavano ampio, lungo e sontuoso. Tutti potevano notare e ammirare il loro vestito. Se portavano un vestito così voleva dire che se lo potevano permettere, voleva dire che erano di alto grado sociale. Ciò che portavano era un modo per esibire chi erano. Il loro vestire determinava il grado sociale; quando camminavano erano ammirati, riconosciuti, la gente comune provava un senso di sudditanza nei loro confronti. Nelle sinagoghe avevano un posto riservato, un posto d'onore, che dava le spalle all'armadio sacro e di fronte a tutta l'assemblea.
Nelle feste e nei banchetti erano a capotavola, nei posti più avanti e più vicini al festeggiato.
Uomini come gli scribi faranno di tutto per non perdere la loro immagine perché altrimenti dovrebbero fare l'amara scoperta che dietro c'è il nulla, che non c'è personalità. Sono uomini di cartapesta. Sono come un regalo confezionato meravigliosamente: carta, fiocco, nastrino, busta, ma dentro non c'è il regalo! Per cui uomini così sono di una resistenza incredibile: non cambiano, non si mettono veramente in gioco, mai.
Ma essere individui veri non vuol dire essere fuori, sopra gli altri, ma differenziarsi, essere unici. Gli scribi, come i personaggi famosi, parlavano delle loro imprese: leggevano la Torah, osservavano tutte le leggi, erano scrupolosi in tutto, pregavano più volte al giorno. Ma non c'era la Vita in loro.
Essere vivi vuol dire che gli occhi sono luminosi, che i sentimenti fluiscono, che ci si ascolta con interesse, che ciò che si dice ha un senso e non è banale; che c'è spazio per sé e per l'altro, che ci sente bene a stare con queste persone; che non si ha bisogno di attaccare, né di difendersi, né di elevarsi o di umiliarsi; che si è persone vibranti e che si sa ciò che si vuole e ciò che non si vuole.
Chi non può avere successo si eleva giudicando. Giudicare è un modo per abbassare gli altri, per ridurli alle proprie dimensioni. Siccome vorrei il successo ma non ne sono capace, mi elevo sopra gli altri non mettendomi sopra (non ne sono capace) ma mettendo sotto loro: li giudico.
L'egoista (lo scriba, il narcisista) non è nient’altro che un poveraccio che si preoccupa soltanto della sua immagine: "Cosa si dirà in paese? Cosa si dirà in giro? Cosa si pensa di me? Piaccio?".
L'uomo di fede si interessa della vita. L'egoista crede nella magia dell'immagine e del buon nome; l'unica sua preoccupazione non è per sé, per sviluppare la Vita, il Dio che ha dentro, ma per accrescere il suo potere e avere effetto e successo negli altri. L'uomo di fede, invece, crede in sé e nella vita dello spirito che lo abita dentro. La sua preoccupazione non è risultare gradito ma sviluppare il divino e lo spirito che lo abita.
Agli scribi Gesù dirà: "Guai a voi, Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume… "
Gli scribi erano gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio. Essi parlavano un sacco di Dio. Avevano Dio sempre nella bocca ma non nel loro cuore. Lo conoscevano benissimo con la mente ma erano totalmente ignoranti nella conoscenza del cuore. Dio non era più un'esperienza, un incontro, ma diventava scienza della religione, qualcosa che si poteva imparare a memoria o applicare. Se poi pagavi avevi assicurata la benevolenza di Dio.
Tu puoi sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarti ogni mese, ma se il nome di Gesù non ti fa sussultare l'anima e le sue parole non ti fanno vibrare le corde del tuo cuore; se il suo nome non ti instilla desiderio di verità e di ricerca e non ti "prende", appassiona l'anima per questa vita, a che ti serve tutto quello che sai?
Questo faceva imbestialire Gesù: sapevano tutto di Dio ma non avevano Dio.
Per questo Gesù definirà questi uomini religiosi come degli eretici, senza fede, vipere, falsi e ingannatori.
Nauseato, irritato da essi, Gesù si va a sedere vicino alla cassetta delle offerte posta all'ingresso del tempio. E da li osserva la vedova.
Se non fosse stato per lo sguardo di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna.
Essere vedova, voleva dire non avere sostentamento né reddito: vivere di elemosina, di carità, di quello che altri davano. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli da nutrire e sempre affamati.
E' probabile che quei due spiccioli non fossero altro che il frutto della sua giornata di elemosina. Quella donna, allora, agli occhi superficiali dona poco, anzi qualcosa che può far sorridere, un'inezia. Ma ad occhi attenti quella donna dona proprio tutto quello che ha, tutto di tutto.
Dio non vuole mai qualcosa di noi ma tutto di noi.
Dio non vuole cose da noi; vuole noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Non vuole qualcosa di noi vuole tutto di noi. Dio vuole che noi, per Lui, ci mettiamo in gioco del tutto. Vuole che per Lui noi cambiamo il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di concepire la nostra fede, che diamo ordine diverso alle nostre priorità.
Tu puoi dare dei soldi per i bambini che soffrono e che muoiono di fame. Molto bene. Ma prenderne uno a casa tua o sentire la sofferenza del loro cuore ti cambia la vita. Tu puoi dare un po' di tempo alla preghiera ma affidarsi a Lui, lasciare che Lui ti trasformi, ti porti dove Lui vuole e tu non vorresti, ti cambia la vita. Tu puoi offrire un po' di disponibilità per gli altri ed è buono, molto buono. Ma cambiare dentro perché gli altri si sentano più compresi da te, perché il tuo amore sia più libero e più vero oppure farne dono per la verità, per la giustizia, perché questo mondo sia più umano, questo ti cambia la vita.
Noi spesso giochiamo con Dio ma Lui, invece, ci chiede di giocarci per Lui. Noi vogliamo che Lui ci sia nella nostra vita ma che non interferisca con le nostre scelte, che non ci sia d'intralcio ma soprattutto che non ci faccia vedere qualcosa che non vorremmo vedere e che non ci chieda di cambiare o di mettere in gioco qualcosa per cui soffriremmo. Magari lo vogliamo tanto, ma volerlo del tutto è su di un altro piano. Solamente chi si da del tutto avrà il Tutto.
Quello che per gli altri era insignificante, banale senza valore, non lo era per Lui.
Tutto risplende nella sua luce! Solo agli occhi di Dio può risaltare, risplendere, l'intensità e il dono di persone povere e umili. Gesù non si scelse i sacerdoti, né i ricchi del tempo, né i sapienti del tempo. Gesù si scelse persone intellettualmente povere, a volte dure e ostinate (vedi Pietro). I dottori, i sapienti, gli scribi, si saranno messi a ridere vedendo quali discepoli si era scelti il Maestro! Ma lui vedeva dentro: forse avevano poco, ma quelle persone erano capaci di dare tutto il poco che avevano.
Non serve chiedersi quanto uno ha, ma quanto può dare. Perché tutto risplende nella tua luce, Signore. Tutto risplende nella tua luce perché tu vedi oltre il poco o il tanto.
Tutto risplende nella luce tua perché il mio buio può essere luce ai tuoi occhi, la mia povertà ricchezza e il mio poco un tesoro inestimabile.
Il tanto di uno è nulla sotto la tua luce. E il niente di un altro è invece tutto.
Perché nella tua luce tutto risplende, tutto ha un significato. Amen.
giovedì 29 ottobre 2009
1 Novembre 2009 - Solennità di Tutti i Santi
Il vangelo di oggi ci propone le beatitudini. Le beatitudini sono il messaggio di Gesù, il suo manifesto, il suo libro di testo, e ci mostrano un’immagine di Dio e un’immagine dell’uomo.
Ci dicono, cioè, chi è Dio e chi è l’uomo per Gesù.
La legge mosaica dei dieci comandamenti diceva cosa bisognava fare e cosa non bisognava fare. Gesù adesso sale sul monte delle Beatitudini e dà le otto beatitudini, otto consigli.
Questa è la nuova e definitiva legge di Dio per tutta l’umanità. Una legge che non dice cosa bisogna fare o non fare, ma come bisogna essere.
Le beatitudini dicono: “Tu puoi essere felice. Tu lo puoi, tutti lo possono”.
Il punto è che non è come comprare un auto o un gioiello: do qualcosa (soldi) e mi viene dato ciò che cerco. Qui non c’è niente da dare, qui c’è da darsi; qui non c’è niente da giocare (punto e spero di vincere!) ma da giocarsi; qui non c’è da fare o non fare qualcosa, ma da essere e vivere qualcosa”.
Le beatitudini ci mostrano cosa possiamo essere. Dappertutto si sentono voci che dicono: “Accontentati, d’altronde non si può avere tutto. Sii soddisfatto di quello che hai: lascia stare certi sogni”.
E, invece, le beatitudini dicono: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole da te e questa è la tua unica felicità. Non hai nemmeno idea di cosa puoi vivere! Non hai nemmeno idea di come puoi sentirti pieno! Non hai nemmeno idea di quanto grande sia il tuo cuore: c’è davvero spazio per tutti; di quanto tu possa amare, di quale profondità tu possa avere nei rapporti; di quanti sentimenti tu possa sentire, percepire e vivere. Non hai nemmeno idea di quanto ti possa sentire ricco (anche se hai ben poco) e ricolmo di vita. Non hai nemmeno idea di quanto possa essere bello, meraviglioso e immenso vivere. Non hai nemmeno idea di che forza hai dentro e di quale coraggio disponi”.
E il fatto che molte persone si mettano a ridere di fronte a tutto questo, dimostra quanto, in definitiva, l’uomo sia infelice.
Le beatitudini non insegnano a non avere contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (ci piacerebbe eh!) ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io” e di noi: “Tu puoi vivere più intensamente di quanto non creda”.
È un’illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo caratterialmente fragili, poiché non ci sentiamo così forti da reggere tutti questi urti, questi scossoni, queste tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben piantate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose. E dicono: “Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c’è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!”.
La paura bussò alla mia porta. Ero terrorizzato. Andai ad aprire e... non c’era nessuno!
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza o al subire.
Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria. La povertà non è bene, ma è la realtà della nostra condizione umana.
Non dicono che è buono essere perseguitati: no, è terribile e crudele. E chi lo cerca è masochista (ammalato!). Ma non si può vivere, essere significativi e pensare che tutti ci accettino. Anche le statue, immobili e senza vita, sono soggette a pareri diversi; perfino sulle idee ci si scontra, figuriamoci se possiamo accontentare tutti!
Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che devo subire tutto. Quando c’è da dire “no” lo dico e con tutta la forza che ho. Ma dentro di me guardo anche la persona ostile e mi dico: “Poverino, ma quanto deve soffrire! Che guerra avrà dentro?” E non giudico, perché non conosco le sue tensioni interne.
Le beatitudini non sono dei comandi: “Devi vivere così”.
Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. È una possibilità: puoi sceglierla oppure no. Vedi tu. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa devo fare per essere un bravo cristiano?”. Sono un cammino per diventarlo.
1. Puoi essere quello che sei.
La cultura dice: “Puoi vivere solo se ti adatti e non disturbi”.
Dio dice: “Ti ho creato così, va bene così”.
Molti di noi, per non avere problemi, per non creare tensioni, per non perdere chi amiamo, accontentiamo tutti (cosa impossibile ma noi ci proviamo!) e così facendo ci allontaniamo così tanto da noi che ad un certo punto ci perdiamo, non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, cosa sia bene per noi. Alcune persone si sono così tanto allontanate da sé stesse da non sapere neppure più cosa provano, cosa vogliono.
Non adattarti a morire; non adattarti a certe situazioni che ti alienano, che ti fanno male; non farti andare bene quello che non ti può andare bene solo per la paura del contrasto; non metterti mai un vestito che non è tuo o vivere una vita che non è tua.
Sii te stesso perché essere qualcos’altro è l’unico fallimento dell’esistenza. Vivi la tua vita perché viverne un’altra non ti potrà mai far felice.
2. Puoi vivere anche se non hai successo.
La società dice: “No, puoi vivere solo se hai profitto, successo o se sei bravo”.
Dio dice: “A me non devi dimostrare niente”.
Molte persone lavorano sempre e di più. Non sono mai capaci di stare ferme, sono sempre in movimento. Tutta questa attività viene giustificata come agire, attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per gli altri, per i figli.
Ma spesso, sotto sotto, c’è dell’altro. Nel profondo credono di non valere, credono di non essere davvero degne d’amore, credono di non essere poi così importanti, e allora tentano di guadagnarselo, di meritarselo, di “comprarselo”.
È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per mio figlio, sarò pure una brava madre, no?”. Ma non è quello che fai che ti fa una brava madre. È ciò che hai dentro che ti fa madre. “Con tutto quello che faccio per gli altri vuoi che Dio non mi ami”. No, Dio non ti ama perché fai tanto. Dio ti ama perché sei tu. E tutto il tuo daffare non ti rende certo più bello o gradito ai suoi occhi: anzi così facendo perdi il tuo tempo, la tua possibilità di essere quello che veramente sei.
Non dobbiamo pensare che tutto (l’amore, la stima, l’affetto) si possa comprare: “Io sono bravo e tu in cambio mi dai attenzioni”. Non dobbiamo diventare “disponibili con gli altri” perché abbiamo un bisogno tremendo di essere visti, accolti e amati.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore sicuro al di là di ogni cosa!
3. Puoi esprimere ciò che senti.
La cultura dice. “No, non esprimere i tuoi sentimenti e soprattutto alcuni nascondili”.
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”.
Molte persone hanno imparato che non è bene farsi vedere deboli, che chi è forte non piange mai. Così per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma non sono forti, sono rigidi (il che è molto diverso!).
Cioè: il pianto è la reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha provocato dolore. Smettere di piangere non ci fa meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo: e così facendo ci teniamo dentro la tensione e il dolore che, invece, hanno bisogno di uscire; ci nascondiamo la verità: crediamo che tutto vada bene (non piangiamo!) e invece dentro il dolore urla.
Molte persone credono che arrabbiarsi sia male. “Non essere arrabbiato con i tuoi fratelli; il bravo cristiano non s’arrabbia mai”. E, invece, è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni d’ira. Ogni volta che siamo feriti, viene ferita la nostra dignità: è naturale quindi che noi, giustamente, reagiamo, che ci arrabbiamo.
L’importante è che questa reazione non rimanga “dentro”, non deve “bollire” dentro di noi (ecco il ri-sentimento): è necessario che un chiarimento, una spiegazione pacata riporti la serenità.
Quando sono arrabbiato devo accettare di esserlo, vuol dire che c’è un motivo per cui lo sono. Magari ho ingigantito un fatto, l’ho interpretato con occhio permaloso, ma la mia rabbia ha comunque motivo d’esserci, e ne devo prendere atto. Solo così posso iniziare a gestirla e a buttarla fuori, senza sfogarmi con parole acide, taglienti, giudicanti.
Molte persone hanno imparato che non si deve avere paura e, così dicono loro, non hanno paura di nulla: ma la realtà è che non la sentono. Aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura.
La paura è solo un avvertimento: “Qui c’è qualcosa di pericoloso”. Bene: quando lo sai, hai il tempo di decidere cosa fare. Non devo nascondere la paura dietro ad un volto lieto o ad una espressione sorridente. Non devo resistere alla paura con tutte le mie forze, ignorarne l’esistenza e cercare di dominarla con una volontà ferrea. La paura mi appartiene. Mi dice che ciò che sto facendo mi costa, mi mette in gioco, è qualcosa d’importante, ma devo sapere che io non sono solo e – con l’aiuto di Dio – posso vincere qualunque paura!.
Altre persone invece hanno paura di tutto: si vergognano da morire per come hanno vissuto o per ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore così grande da poter contenere ogni cosa, che Lui non ha paura di ciò che a noi invece fa paura o ci fa sentire in colpa; che la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta, qualunque cosa abbiamo fatto.
Allora non mi devo nascondere più nulla, perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle mie “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che io non riesco ad amare.
E se non ho assolutamente nulla da nascondere ai suoi occhi, allora veramente sono libero e liberato.
4. La povertà è la nostra unica e reale condizione.
La prima beatitudine (forse Gesù ha pronunciato solo questa o solo le prime tre) le racchiude tutte. Il povero del vangelo è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso.
Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa distaccato, nel senso di chi vive dentro le cose, totalmente immerso in esse, ma senza attaccarsi ad esse: vive “distaccato”, perché sa che quando è ora deve lasciare tutto; nudo è nato e nudo uscirà da questa vita.
La povertà, l’essere nulla (che è diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. La realtà è che io non possiedo nulla. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
La prima beatitudine ci rivela infatti la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ti appoggi? Su cosa puoi davvero con-fidare? Sulle cose? Passano tutte e si usurano. Sulla gloria? Rimane forse un nome ma tu non ci sei più. Sulle persone? Non ti salvano. Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa dove ci si può appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Noi siamo zero. Ma nella lingua ebraica “zerà” oltre che significare il nostro “zero” “niente” vuol dire anche “seme”. Noi siamo zero, nulla, vuoti, poveri del tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere niente, come in un seme, è nascosto il nostro essere tutto.
Nel nostro essere niente c’è il Tutto. Nel nostro essere poveri c’è la Ricchezza. E più io mi spoglio e smetto di con-fidare in me e più posso ri-mettermi nelle mani di Dio ed essere al sicuro.
Quando non avrai più nulla, allora avrai il Tutto. E quando sarai spoglio di ogni cosa, allora sarai vestito d’eternità. E quando tutto morirà, allora sarà la Vita. E quando tutto cadrà, allora sarà l’inizio.
Sì, perché Dio è l’unica fortezza incrollabile.
Ci dicono, cioè, chi è Dio e chi è l’uomo per Gesù.
La legge mosaica dei dieci comandamenti diceva cosa bisognava fare e cosa non bisognava fare. Gesù adesso sale sul monte delle Beatitudini e dà le otto beatitudini, otto consigli.
Questa è la nuova e definitiva legge di Dio per tutta l’umanità. Una legge che non dice cosa bisogna fare o non fare, ma come bisogna essere.
Le beatitudini dicono: “Tu puoi essere felice. Tu lo puoi, tutti lo possono”.
Il punto è che non è come comprare un auto o un gioiello: do qualcosa (soldi) e mi viene dato ciò che cerco. Qui non c’è niente da dare, qui c’è da darsi; qui non c’è niente da giocare (punto e spero di vincere!) ma da giocarsi; qui non c’è da fare o non fare qualcosa, ma da essere e vivere qualcosa”.
Le beatitudini ci mostrano cosa possiamo essere. Dappertutto si sentono voci che dicono: “Accontentati, d’altronde non si può avere tutto. Sii soddisfatto di quello che hai: lascia stare certi sogni”.
E, invece, le beatitudini dicono: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole da te e questa è la tua unica felicità. Non hai nemmeno idea di cosa puoi vivere! Non hai nemmeno idea di come puoi sentirti pieno! Non hai nemmeno idea di quanto grande sia il tuo cuore: c’è davvero spazio per tutti; di quanto tu possa amare, di quale profondità tu possa avere nei rapporti; di quanti sentimenti tu possa sentire, percepire e vivere. Non hai nemmeno idea di quanto ti possa sentire ricco (anche se hai ben poco) e ricolmo di vita. Non hai nemmeno idea di quanto possa essere bello, meraviglioso e immenso vivere. Non hai nemmeno idea di che forza hai dentro e di quale coraggio disponi”.
E il fatto che molte persone si mettano a ridere di fronte a tutto questo, dimostra quanto, in definitiva, l’uomo sia infelice.
Le beatitudini non insegnano a non avere contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (ci piacerebbe eh!) ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io” e di noi: “Tu puoi vivere più intensamente di quanto non creda”.
È un’illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo caratterialmente fragili, poiché non ci sentiamo così forti da reggere tutti questi urti, questi scossoni, queste tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben piantate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose. E dicono: “Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c’è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!”.
La paura bussò alla mia porta. Ero terrorizzato. Andai ad aprire e... non c’era nessuno!
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza o al subire.
Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria. La povertà non è bene, ma è la realtà della nostra condizione umana.
Non dicono che è buono essere perseguitati: no, è terribile e crudele. E chi lo cerca è masochista (ammalato!). Ma non si può vivere, essere significativi e pensare che tutti ci accettino. Anche le statue, immobili e senza vita, sono soggette a pareri diversi; perfino sulle idee ci si scontra, figuriamoci se possiamo accontentare tutti!
Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che devo subire tutto. Quando c’è da dire “no” lo dico e con tutta la forza che ho. Ma dentro di me guardo anche la persona ostile e mi dico: “Poverino, ma quanto deve soffrire! Che guerra avrà dentro?” E non giudico, perché non conosco le sue tensioni interne.
Le beatitudini non sono dei comandi: “Devi vivere così”.
Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. È una possibilità: puoi sceglierla oppure no. Vedi tu. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa devo fare per essere un bravo cristiano?”. Sono un cammino per diventarlo.
1. Puoi essere quello che sei.
La cultura dice: “Puoi vivere solo se ti adatti e non disturbi”.
Dio dice: “Ti ho creato così, va bene così”.
Molti di noi, per non avere problemi, per non creare tensioni, per non perdere chi amiamo, accontentiamo tutti (cosa impossibile ma noi ci proviamo!) e così facendo ci allontaniamo così tanto da noi che ad un certo punto ci perdiamo, non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, cosa sia bene per noi. Alcune persone si sono così tanto allontanate da sé stesse da non sapere neppure più cosa provano, cosa vogliono.
Non adattarti a morire; non adattarti a certe situazioni che ti alienano, che ti fanno male; non farti andare bene quello che non ti può andare bene solo per la paura del contrasto; non metterti mai un vestito che non è tuo o vivere una vita che non è tua.
Sii te stesso perché essere qualcos’altro è l’unico fallimento dell’esistenza. Vivi la tua vita perché viverne un’altra non ti potrà mai far felice.
2. Puoi vivere anche se non hai successo.
La società dice: “No, puoi vivere solo se hai profitto, successo o se sei bravo”.
Dio dice: “A me non devi dimostrare niente”.
Molte persone lavorano sempre e di più. Non sono mai capaci di stare ferme, sono sempre in movimento. Tutta questa attività viene giustificata come agire, attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per gli altri, per i figli.
Ma spesso, sotto sotto, c’è dell’altro. Nel profondo credono di non valere, credono di non essere davvero degne d’amore, credono di non essere poi così importanti, e allora tentano di guadagnarselo, di meritarselo, di “comprarselo”.
È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per mio figlio, sarò pure una brava madre, no?”. Ma non è quello che fai che ti fa una brava madre. È ciò che hai dentro che ti fa madre. “Con tutto quello che faccio per gli altri vuoi che Dio non mi ami”. No, Dio non ti ama perché fai tanto. Dio ti ama perché sei tu. E tutto il tuo daffare non ti rende certo più bello o gradito ai suoi occhi: anzi così facendo perdi il tuo tempo, la tua possibilità di essere quello che veramente sei.
Non dobbiamo pensare che tutto (l’amore, la stima, l’affetto) si possa comprare: “Io sono bravo e tu in cambio mi dai attenzioni”. Non dobbiamo diventare “disponibili con gli altri” perché abbiamo un bisogno tremendo di essere visti, accolti e amati.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore sicuro al di là di ogni cosa!
3. Puoi esprimere ciò che senti.
La cultura dice. “No, non esprimere i tuoi sentimenti e soprattutto alcuni nascondili”.
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”.
Molte persone hanno imparato che non è bene farsi vedere deboli, che chi è forte non piange mai. Così per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma non sono forti, sono rigidi (il che è molto diverso!).
Cioè: il pianto è la reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha provocato dolore. Smettere di piangere non ci fa meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo: e così facendo ci teniamo dentro la tensione e il dolore che, invece, hanno bisogno di uscire; ci nascondiamo la verità: crediamo che tutto vada bene (non piangiamo!) e invece dentro il dolore urla.
Molte persone credono che arrabbiarsi sia male. “Non essere arrabbiato con i tuoi fratelli; il bravo cristiano non s’arrabbia mai”. E, invece, è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni d’ira. Ogni volta che siamo feriti, viene ferita la nostra dignità: è naturale quindi che noi, giustamente, reagiamo, che ci arrabbiamo.
L’importante è che questa reazione non rimanga “dentro”, non deve “bollire” dentro di noi (ecco il ri-sentimento): è necessario che un chiarimento, una spiegazione pacata riporti la serenità.
Quando sono arrabbiato devo accettare di esserlo, vuol dire che c’è un motivo per cui lo sono. Magari ho ingigantito un fatto, l’ho interpretato con occhio permaloso, ma la mia rabbia ha comunque motivo d’esserci, e ne devo prendere atto. Solo così posso iniziare a gestirla e a buttarla fuori, senza sfogarmi con parole acide, taglienti, giudicanti.
Molte persone hanno imparato che non si deve avere paura e, così dicono loro, non hanno paura di nulla: ma la realtà è che non la sentono. Aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura.
La paura è solo un avvertimento: “Qui c’è qualcosa di pericoloso”. Bene: quando lo sai, hai il tempo di decidere cosa fare. Non devo nascondere la paura dietro ad un volto lieto o ad una espressione sorridente. Non devo resistere alla paura con tutte le mie forze, ignorarne l’esistenza e cercare di dominarla con una volontà ferrea. La paura mi appartiene. Mi dice che ciò che sto facendo mi costa, mi mette in gioco, è qualcosa d’importante, ma devo sapere che io non sono solo e – con l’aiuto di Dio – posso vincere qualunque paura!.
Altre persone invece hanno paura di tutto: si vergognano da morire per come hanno vissuto o per ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore così grande da poter contenere ogni cosa, che Lui non ha paura di ciò che a noi invece fa paura o ci fa sentire in colpa; che la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta, qualunque cosa abbiamo fatto.
Allora non mi devo nascondere più nulla, perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle mie “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che io non riesco ad amare.
E se non ho assolutamente nulla da nascondere ai suoi occhi, allora veramente sono libero e liberato.
4. La povertà è la nostra unica e reale condizione.
La prima beatitudine (forse Gesù ha pronunciato solo questa o solo le prime tre) le racchiude tutte. Il povero del vangelo è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso.
Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa distaccato, nel senso di chi vive dentro le cose, totalmente immerso in esse, ma senza attaccarsi ad esse: vive “distaccato”, perché sa che quando è ora deve lasciare tutto; nudo è nato e nudo uscirà da questa vita.
La povertà, l’essere nulla (che è diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. La realtà è che io non possiedo nulla. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
La prima beatitudine ci rivela infatti la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ti appoggi? Su cosa puoi davvero con-fidare? Sulle cose? Passano tutte e si usurano. Sulla gloria? Rimane forse un nome ma tu non ci sei più. Sulle persone? Non ti salvano. Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa dove ci si può appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Noi siamo zero. Ma nella lingua ebraica “zerà” oltre che significare il nostro “zero” “niente” vuol dire anche “seme”. Noi siamo zero, nulla, vuoti, poveri del tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere niente, come in un seme, è nascosto il nostro essere tutto.
Nel nostro essere niente c’è il Tutto. Nel nostro essere poveri c’è la Ricchezza. E più io mi spoglio e smetto di con-fidare in me e più posso ri-mettermi nelle mani di Dio ed essere al sicuro.
Quando non avrai più nulla, allora avrai il Tutto. E quando sarai spoglio di ogni cosa, allora sarai vestito d’eternità. E quando tutto morirà, allora sarà la Vita. E quando tutto cadrà, allora sarà l’inizio.
Sì, perché Dio è l’unica fortezza incrollabile.
giovedì 22 ottobre 2009
25 Ottobre 2009 - XXX Domenica del Tempo Ordinario
Anche l’uomo distratto e superficiale percepisce la bellezza del cielo stellato, del giardino fiorito, della distesa del mare, del picco roccioso. L’ammirazione e l’apprezzamento estetico non bastano. Occorre andare oltre per approdare all’origine di tutto. Vi si arriva con gli occhi limpidi, quelli del cuore, capaci di penetrare il dato esteriore. Tali occhi sono aperti solo dalla bontà misericordiosa di Gesù che ci conduce al “mistero”: Egli è pronto ad aprire anche i nostri occhi se, come Bartimeo, siamo capaci di gridare a Lui; «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me»! E il grido non rimane inascoltato. Gesù non delude mai una persona in ricerca, non tradisce un amore che sa pagare di persona, non dimentica una fedeltà a tutta prova. Il problema del cieco diventa il suo problema, il suo isolamento lo tocca da vicino a tal punto che interviene per superarlo. E la storia si ripete all’infinito. Gesù non è mai sordo ai nostri problemi, anche se i suoi tempi non sono necessariamente i nostri, e le sue modalità spesso diverse dalle nostre aspettative.
È Gesù Cristo che chiama tutti, anche i deboli, gli zoppi, i ciechi al grande ritorno e li colma di consolazione e di gioia.
Si tratta della nostra conversione, alla quale siamo chiamati continuamente.. Essa è un ritorno: si tratta di fare a ritroso il cammino percorso nell’allontanarci da Dio. È la liberazione da una schiavitù umiliante, la riscoperta di una gioia, prima dimenticata: quella di sentirci circondati dalle braccia amorose del Padre che ci accoglie di nuovo nel suo amore.
Incomincia con una manifestazione di Gesù nella vita dell'uomo: è necessario che Cristo passi di là. Ma questa manifestazione è misteriosa: il cieco che rappresenta l'uomo sulla via della fede, non vede Gesù; intuisce soltanto la presenza del Signore negli avvenimenti, ma esprime già la sua fede rimettendosi alla iniziativa salvifica di Dio. Questa apertura a Dio è subito contestata dal mondo che lo circonda ed è necessario tutto il coraggio per mantenere il proposito di apertura all'uomo-Dio. Il candidato alla fede si sente così oggetto della attenzione di alcuni che gli rivelano la chiamata di Dio, lo incoraggiano e lo invitano a convertirsi.
Allora si intreccia il dialogo finale: «Che vuoi?...». Si tratta dell'impegno definitivo, presentato sotto forma di domanda e di risposta, per mettere bene in risalto la libertà totale delle due parti che contraggono l'alleanza.
Infine, la vista è restituita al cieco come una visione della fede che lo impegna immediatamente a “seguire Cristo «per la strada”.
Seguire la chiamata di Dio ha sempre voluto dire lasciare qualcosa dietro di sé, andare verso l'ignoto (Abramo), rinnegare la logica della carne e delle sicurezze umane per affidarsi totalmente al Dio delle promesse. Questo diventa più difficile oggi. Se nel passato la fede poteva costituire una spiegazione o una interpretazione dell'universo, un luogo di sicurezza di fronte alle assurdità della storia e al mistero del mondo, oggi non è più così.
In un mondo come il nostro non c'è più posto per una fede anonima, formalistica, ereditaria.
È necessaria una fede fondata sull'approfondimento della Parola di Dio, sulla scelta e sulle convinzioni personali. Una fede consapevolmente abbracciata e non passivamente ricevuta in eredità. Tutto questo comporta un nuovo modo di affrontare il problema della nostra Iniziazione Cristiana, un nuovo modo di considerare la vita cristiana e i Sacramenti.
Il cristiano deve percorrere (o meglio ripercorrere) non tanto un cammino fatto di tappe e di gesti sacramentali, quanto piuttosto un itinerario di fede, un “catecumenato restaurato”, senza del quale non hanno senso né efficacia i gesti sacramentali donati a scadenze fisse.
Il cammino di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare: Gerico è l’ultima tappa e qui la guarigione di un cieco offre nel racconto di Marco il grande insegnamento del discepolato. “Poter vedere” è la domanda giusta da rivolgere al Maestro: questa volta Egli l’approva e l’esaudisce. È il discepolo stesso, un mendicante cieco, che ha bisogno di guarigione per poter vedere come Gesù, per poter seguire Gesù sulla sua strada.
C’è qualcosa che accomuna noi, cristiani intiepiditi, con il cieco del vangelo che torna a vivere. Qualcosa che anima i nostri passi mentre cerchiamo di riprendere il cammino al seguito di Gesù. È la fede.
È Dio che ci ha raggiunti, lo abbiamo riconosciuto nel suo continuo svelarsi e nei segni tangibili della nostra vita al buio; e ora, corroborati interiormente dalla sua presenza, sappiamo che Dio è con noi nonostante il possibile, apparente silenzio che anima i nostri giorni. Gridiamo, allora, al Signore: gridiamo dal profondo del nostro cuore, perché anche noi vogliamo riacquistare la vista per poterlo riconoscere nei fratelli e un giorno vederlo come Egli è, e irrobustire la nostra fede nel Dio fedele che ci chiama alla salvezza.
Come per il cieco nato, così per ciascuno di noi, la fede domanda sempre di essere professata, celebrata, vissuta. In particolare, il “viverla” è il modo più forte per “professarla”, oltre che il modo più genuino per “celebrarla”. Il cristiano, diventato “figlio della luce” grazie al dono battesimale della fede, è chiamato a comportarsi come tale. Solo così non smentisce la sua identità! Se la fede definisce l’essere stesso del credente, non può non esprimersi e non attuarsi nella vita quotidiana, nelle scelte e nelle azioni dell’esistenza.
I “figli della luce” sono veramente tali quando compiono le “opere della luce”, ossia imitano e condividono gli atteggiamenti e lo stile di vita di Gesù.
È Gesù Cristo che chiama tutti, anche i deboli, gli zoppi, i ciechi al grande ritorno e li colma di consolazione e di gioia.
Si tratta della nostra conversione, alla quale siamo chiamati continuamente.. Essa è un ritorno: si tratta di fare a ritroso il cammino percorso nell’allontanarci da Dio. È la liberazione da una schiavitù umiliante, la riscoperta di una gioia, prima dimenticata: quella di sentirci circondati dalle braccia amorose del Padre che ci accoglie di nuovo nel suo amore.
Incomincia con una manifestazione di Gesù nella vita dell'uomo: è necessario che Cristo passi di là. Ma questa manifestazione è misteriosa: il cieco che rappresenta l'uomo sulla via della fede, non vede Gesù; intuisce soltanto la presenza del Signore negli avvenimenti, ma esprime già la sua fede rimettendosi alla iniziativa salvifica di Dio. Questa apertura a Dio è subito contestata dal mondo che lo circonda ed è necessario tutto il coraggio per mantenere il proposito di apertura all'uomo-Dio. Il candidato alla fede si sente così oggetto della attenzione di alcuni che gli rivelano la chiamata di Dio, lo incoraggiano e lo invitano a convertirsi.
Allora si intreccia il dialogo finale: «Che vuoi?...». Si tratta dell'impegno definitivo, presentato sotto forma di domanda e di risposta, per mettere bene in risalto la libertà totale delle due parti che contraggono l'alleanza.
Infine, la vista è restituita al cieco come una visione della fede che lo impegna immediatamente a “seguire Cristo «per la strada”.
Seguire la chiamata di Dio ha sempre voluto dire lasciare qualcosa dietro di sé, andare verso l'ignoto (Abramo), rinnegare la logica della carne e delle sicurezze umane per affidarsi totalmente al Dio delle promesse. Questo diventa più difficile oggi. Se nel passato la fede poteva costituire una spiegazione o una interpretazione dell'universo, un luogo di sicurezza di fronte alle assurdità della storia e al mistero del mondo, oggi non è più così.
In un mondo come il nostro non c'è più posto per una fede anonima, formalistica, ereditaria.
È necessaria una fede fondata sull'approfondimento della Parola di Dio, sulla scelta e sulle convinzioni personali. Una fede consapevolmente abbracciata e non passivamente ricevuta in eredità. Tutto questo comporta un nuovo modo di affrontare il problema della nostra Iniziazione Cristiana, un nuovo modo di considerare la vita cristiana e i Sacramenti.
Il cristiano deve percorrere (o meglio ripercorrere) non tanto un cammino fatto di tappe e di gesti sacramentali, quanto piuttosto un itinerario di fede, un “catecumenato restaurato”, senza del quale non hanno senso né efficacia i gesti sacramentali donati a scadenze fisse.
Il cammino di Gesù verso Gerusalemme sta per terminare: Gerico è l’ultima tappa e qui la guarigione di un cieco offre nel racconto di Marco il grande insegnamento del discepolato. “Poter vedere” è la domanda giusta da rivolgere al Maestro: questa volta Egli l’approva e l’esaudisce. È il discepolo stesso, un mendicante cieco, che ha bisogno di guarigione per poter vedere come Gesù, per poter seguire Gesù sulla sua strada.
C’è qualcosa che accomuna noi, cristiani intiepiditi, con il cieco del vangelo che torna a vivere. Qualcosa che anima i nostri passi mentre cerchiamo di riprendere il cammino al seguito di Gesù. È la fede.
È Dio che ci ha raggiunti, lo abbiamo riconosciuto nel suo continuo svelarsi e nei segni tangibili della nostra vita al buio; e ora, corroborati interiormente dalla sua presenza, sappiamo che Dio è con noi nonostante il possibile, apparente silenzio che anima i nostri giorni. Gridiamo, allora, al Signore: gridiamo dal profondo del nostro cuore, perché anche noi vogliamo riacquistare la vista per poterlo riconoscere nei fratelli e un giorno vederlo come Egli è, e irrobustire la nostra fede nel Dio fedele che ci chiama alla salvezza.
Come per il cieco nato, così per ciascuno di noi, la fede domanda sempre di essere professata, celebrata, vissuta. In particolare, il “viverla” è il modo più forte per “professarla”, oltre che il modo più genuino per “celebrarla”. Il cristiano, diventato “figlio della luce” grazie al dono battesimale della fede, è chiamato a comportarsi come tale. Solo così non smentisce la sua identità! Se la fede definisce l’essere stesso del credente, non può non esprimersi e non attuarsi nella vita quotidiana, nelle scelte e nelle azioni dell’esistenza.
I “figli della luce” sono veramente tali quando compiono le “opere della luce”, ossia imitano e condividono gli atteggiamenti e lo stile di vita di Gesù.
giovedì 15 ottobre 2009
18 Ottobre 2009 - XXIX Domenica del Tempo Ordinario
Nel Vangelo di oggi Giacomo e Giovanni, i due fratelli, figli di Zebedeo, chiedono a Gesù di sedere uno alla destra e uno alla sinistra del suo trono, naturalmente intendono quando finalmente sarà inaugurato il suo Regno, il Regno di Dio di cui tante volte Gesù aveva parlato.
Gesù risponde loro: Voi non sapete ciò che domandate. Il destino di Gesù sarebbe stato diverso da come i due pescatori diventati discepoli del Maestro di Nazareth, se lo immaginavano, e sarebbe stata diversa anche la costituzione della sua Chiesa, forma storica del Regno di Dio. Gesù andava incontro alla sua passione; egli lo sapeva e lo aveva anche preannunciato ai suoi apostoli. A quanto pare però essi, gli apostoli, non se ne rendevano conto e ragionavano in termini ancora troppo umani, secondo un orizzonte legato agli interessi di questo mondo.
E questo non basta, perché gli altri dieci apostoli essendosi accorti della manovra dei primi due fratelli si sdegnano della richiesta, si lamentano e sicuramente incominciano anche a rimproverare i due baldanzosi per la loro iniziativa.
Gesù prende l'occasione per istruire il gruppo dei dodici sul tema del potere e dell'autorità, nel mondo e dentro la Chiesa.
Coloro che sono ritenuti capi, dominano. Potremmo dire che in tanti concorrono, ma uno su mille ce la fa', perché il capo può essere uno solo. Da sempre il potere si basa sul consenso, ma questo può essere più o meno estorto e chi sta sopra comanda, mentre chi sta sotto obbedisce. Fra di voi però dice Gesù, riferendosi al nuovo popolo di Dio che sarà la Chiesa, non è così. La Chiesa dunque è, e dovrebbe essere il luogo, dove si vince il vizio della superbia, cioè dell'eccellenza ad ogni costo.
Il santo curato d'Ars diceva "Noi mettiamo la superbia dappertutto, come il sale.".
"È chiamato superbo chi vuol sembrare più di quello che è; superbo infatti è chi vuol andare al di sopra". Più precisamente la superbia è il desiderio di una grandezza sregolata.
"Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti." così dice Gesù nel Vangelo e così è giusto che sia.
Gesù non condanna il desiderio di essere grandi, ma ai suoi apostoli insegna la via per arrivare alla vera grandezza che è quella dell'umiltà e del servizio, ossia Gesù ci dice che ci deve essere un collegamento fra quello che uno dà e quello che pretende.
Come negli affari se uno è capace verrà riconosciuto e si andrà in cerca di lui, così nel mondo spirituale se uno sa dare ad un certo punto riceverà la sua ricompensa morale senza bisogno di rivendicarla o di attribuirsela falsamente.
Tutti abbiamo l'ambizione di essere considerati e ci fa male quando i nostri meriti non vengono riconosciuti e non veniamo stimati per come ci aspetteremo. Ci ribelliamo istintivamente contro le umiliazioni e le sentiamo come delle ingiustizie, e questo va bene, ma può accadere che abbiamo anche la presunzione di superare gli altri, desiderando prestigio e onori.
Ci sono tanti modi per essere superbi: c'è una superbia è cieca, quando si pensa di essere quel che non si è, allora uno è presuntuoso; c'è una superbia è vana, quando ci si vanta di una considerazione presso gli altri che non esiste, quella allora è la vanagloria o vanteria; c'è una superbia cieca e vana insieme, quando, non avendo alcuna buona qualità, ci si vanta ugualmente e si ambisce ad aver fama presso gli altri e quella allora è megalomania.
La richiesta dei due apostoli di oggi dimostra una certa presunzione: pensano di poter bere lo stesso calice di Gesù senza immaginare quanto difficile sarebbe stato per loro sostenere la prova della passione del Signore. La presunzione dei due apostoli veniva da una certa ambizione, ma più che altro dalla loro ignoranza, che sarebbe stata tolta nei giorni della Pasqua.
I potenti di questo mondo invece secondo Gesù cercano la vanagloria: basta loro essere considerati grandi e non esserlo veramente. Invece la persona umile invece è consapevole di propri limiti e spera da Dio la realizzazione delle proprie aspirazioni.
"Ha rovesciato i potenti dai troni ed ha innalzato gli umili", dice Maria nel Magnificat.
"Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili." Conferma san Pietro nella sua prima lettera: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi."
"Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" chiede san Paolo ai cristiani di Corinto.
E poco prima li aveva esortati: "Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio."
E sempre ai Corinti scrive: "Chi si vanta si vanti nel Signore."
La superbia è per l'uomo che non deve chiedere mai. Ora che tipo di uomo sia questo della pubblicità faccio fatica a immaginarmelo. L'uomo che non deve chiedere mai prende senza chiedere, offende e fa torto senza domandare scusa, ottiene quello che vuole minacciando e non richiedendo per favore. Insomma sarebbe un maleducato, senza rispetto e senza riguardi. Dice il proverbio che quanto più le persone sono vuote, tanto più sono piene di sé.
"Sarete come Dio" dice il diavolo tentatore ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden e così per superbia, ossia per volere essere superiori al comando di Dio, entrambi persero il paradiso terrestre e dovettero fare i conti con la propria miseria.
Questa tentazione è ricorrente nella storia dell'umanità. Con la scoperta della bomba atomica l'uomo ha rubato a Dio il segreto del sole, ma è stato un progresso o è stato un peggioramento della società? Potremmo dire tutte e due le cose. L'energia atomica può essere usata per fini pacifici, seppure con mille cautele, oppure può essere impiegata per la costruzione di micidiali bombe. Per altro gli uomini hanno imparato a conoscere l'energia atomica propria in questa forma violenta e solo in seguito se ne è sviluppato un uso civile.
Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo fatto finora in questo campo o è meglio essere prudenti? Ognuno può rispondere da sé.
Per conto mio dico che tutto quello che è fuori della sottomissione alla legge di Dio non si può che ritorcere contro il suo inventore. Il primo che ha detto: "Non servirò" e si è ribellato contro l'ordine messo da Dio nell'ambito spirituale è il demonio stesso. Egli non vuole servire a Dio e cerca in tutte le maniera che gli uomini servano a lui. La superbia ha questo di rovinoso, che mentre tutti i vizi rifuggono da Dio, solo la superbia si contrappone a Dio.
Il rimedio ce lo dice Gesù stesso nel Vangelo di oggi: "Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Egli ci ha dato l'esempio: l'eccellenza va conquistata con l'umiltà e con la dedizione amorevole. Gesù con tutta la sua vita ci dimostra che non si può servire il prossimo se non si vuole servire Dio.
Concludo con la preghiera del Salmista (Salmo 19) "Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo. Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato."
Gesù risponde loro: Voi non sapete ciò che domandate. Il destino di Gesù sarebbe stato diverso da come i due pescatori diventati discepoli del Maestro di Nazareth, se lo immaginavano, e sarebbe stata diversa anche la costituzione della sua Chiesa, forma storica del Regno di Dio. Gesù andava incontro alla sua passione; egli lo sapeva e lo aveva anche preannunciato ai suoi apostoli. A quanto pare però essi, gli apostoli, non se ne rendevano conto e ragionavano in termini ancora troppo umani, secondo un orizzonte legato agli interessi di questo mondo.
E questo non basta, perché gli altri dieci apostoli essendosi accorti della manovra dei primi due fratelli si sdegnano della richiesta, si lamentano e sicuramente incominciano anche a rimproverare i due baldanzosi per la loro iniziativa.
Gesù prende l'occasione per istruire il gruppo dei dodici sul tema del potere e dell'autorità, nel mondo e dentro la Chiesa.
Coloro che sono ritenuti capi, dominano. Potremmo dire che in tanti concorrono, ma uno su mille ce la fa', perché il capo può essere uno solo. Da sempre il potere si basa sul consenso, ma questo può essere più o meno estorto e chi sta sopra comanda, mentre chi sta sotto obbedisce. Fra di voi però dice Gesù, riferendosi al nuovo popolo di Dio che sarà la Chiesa, non è così. La Chiesa dunque è, e dovrebbe essere il luogo, dove si vince il vizio della superbia, cioè dell'eccellenza ad ogni costo.
Il santo curato d'Ars diceva "Noi mettiamo la superbia dappertutto, come il sale.".
"È chiamato superbo chi vuol sembrare più di quello che è; superbo infatti è chi vuol andare al di sopra". Più precisamente la superbia è il desiderio di una grandezza sregolata.
"Chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti." così dice Gesù nel Vangelo e così è giusto che sia.
Gesù non condanna il desiderio di essere grandi, ma ai suoi apostoli insegna la via per arrivare alla vera grandezza che è quella dell'umiltà e del servizio, ossia Gesù ci dice che ci deve essere un collegamento fra quello che uno dà e quello che pretende.
Come negli affari se uno è capace verrà riconosciuto e si andrà in cerca di lui, così nel mondo spirituale se uno sa dare ad un certo punto riceverà la sua ricompensa morale senza bisogno di rivendicarla o di attribuirsela falsamente.
Tutti abbiamo l'ambizione di essere considerati e ci fa male quando i nostri meriti non vengono riconosciuti e non veniamo stimati per come ci aspetteremo. Ci ribelliamo istintivamente contro le umiliazioni e le sentiamo come delle ingiustizie, e questo va bene, ma può accadere che abbiamo anche la presunzione di superare gli altri, desiderando prestigio e onori.
Ci sono tanti modi per essere superbi: c'è una superbia è cieca, quando si pensa di essere quel che non si è, allora uno è presuntuoso; c'è una superbia è vana, quando ci si vanta di una considerazione presso gli altri che non esiste, quella allora è la vanagloria o vanteria; c'è una superbia cieca e vana insieme, quando, non avendo alcuna buona qualità, ci si vanta ugualmente e si ambisce ad aver fama presso gli altri e quella allora è megalomania.
La richiesta dei due apostoli di oggi dimostra una certa presunzione: pensano di poter bere lo stesso calice di Gesù senza immaginare quanto difficile sarebbe stato per loro sostenere la prova della passione del Signore. La presunzione dei due apostoli veniva da una certa ambizione, ma più che altro dalla loro ignoranza, che sarebbe stata tolta nei giorni della Pasqua.
I potenti di questo mondo invece secondo Gesù cercano la vanagloria: basta loro essere considerati grandi e non esserlo veramente. Invece la persona umile invece è consapevole di propri limiti e spera da Dio la realizzazione delle proprie aspirazioni.
"Ha rovesciato i potenti dai troni ed ha innalzato gli umili", dice Maria nel Magnificat.
"Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili." Conferma san Pietro nella sua prima lettera: "Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi."
"Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" chiede san Paolo ai cristiani di Corinto.
E poco prima li aveva esortati: "Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio."
E sempre ai Corinti scrive: "Chi si vanta si vanti nel Signore."
La superbia è per l'uomo che non deve chiedere mai. Ora che tipo di uomo sia questo della pubblicità faccio fatica a immaginarmelo. L'uomo che non deve chiedere mai prende senza chiedere, offende e fa torto senza domandare scusa, ottiene quello che vuole minacciando e non richiedendo per favore. Insomma sarebbe un maleducato, senza rispetto e senza riguardi. Dice il proverbio che quanto più le persone sono vuote, tanto più sono piene di sé.
"Sarete come Dio" dice il diavolo tentatore ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden e così per superbia, ossia per volere essere superiori al comando di Dio, entrambi persero il paradiso terrestre e dovettero fare i conti con la propria miseria.
Questa tentazione è ricorrente nella storia dell'umanità. Con la scoperta della bomba atomica l'uomo ha rubato a Dio il segreto del sole, ma è stato un progresso o è stato un peggioramento della società? Potremmo dire tutte e due le cose. L'energia atomica può essere usata per fini pacifici, seppure con mille cautele, oppure può essere impiegata per la costruzione di micidiali bombe. Per altro gli uomini hanno imparato a conoscere l'energia atomica propria in questa forma violenta e solo in seguito se ne è sviluppato un uso civile.
Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo fatto finora in questo campo o è meglio essere prudenti? Ognuno può rispondere da sé.
Per conto mio dico che tutto quello che è fuori della sottomissione alla legge di Dio non si può che ritorcere contro il suo inventore. Il primo che ha detto: "Non servirò" e si è ribellato contro l'ordine messo da Dio nell'ambito spirituale è il demonio stesso. Egli non vuole servire a Dio e cerca in tutte le maniera che gli uomini servano a lui. La superbia ha questo di rovinoso, che mentre tutti i vizi rifuggono da Dio, solo la superbia si contrappone a Dio.
Il rimedio ce lo dice Gesù stesso nel Vangelo di oggi: "Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Egli ci ha dato l'esempio: l'eccellenza va conquistata con l'umiltà e con la dedizione amorevole. Gesù con tutta la sua vita ci dimostra che non si può servire il prossimo se non si vuole servire Dio.
Concludo con la preghiera del Salmista (Salmo 19) "Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo. Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato."
venerdì 9 ottobre 2009
11 Ottobre 2009 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
Il fine dell'uomo è la beatitudine e i beni materiali non sono che strumenti per il raggiungimento di questo fine ultimo che è il solo degno dell'uomo. Se uno deve viaggiare è meglio per lui recarsi alla stazione e prendere il treno, piuttosto che fare collezione di trenini giocattolo. Così se la felicità sta in una relazione felice con il prossimo e con Dio, si fa torto al prossimo a Dio e anche a se stessi, se si antepone ad una relazione positiva con queste, che sono persone, un affetto esagerato e morboso per le cose materiali e per il loro possesso.
Attaccarsi alle cose materiali è proprio delle personalità e delle civiltà in declino che hanno perso la fiducia nel futuro, vedono presentarsi all'orizzonte delle minacce e cercano di premurarsi in qualche maniera. Cercare di arricchire unicamente davanti agli uomini e non davanti a Dio è un comportamento sbagliato condannato dal Vangelo:: "Stolto," dice Gesù nella parabola dell'uomo ricco "questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" E termina: "Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio". La bontà dell'uomo nei riguardi delle ricchezze consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle cose in quanto sono necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Nell'eccedere questa misura si ha un peccato: e cioè nel volerne acquistare, o ritenere più del dovuto. Dove sta dunque la malvagità dell'avarizia? Saremmo tentati di rispondere: negli altri: in chi ha di più e non si accontenta mai di dove è arrivato e sarebbe disposto a fare carte false pur di incrementare il suo capitale. Questa risposta però rivela un vizio diverso e si chiama invidia. Per considerare equamente la lusinga del vizio dell'avarizia occorre un certo distacco e anche una certa sincerità con noi stessi. L'avarizia è un peccato spirituale: coinvolge chi ha troppo, come anche chi ha poco. Sarebbe sbagliato considerare l'avarizia un peccato sensibile; quando uno mangia troppo, o beve troppo, ossia commette un peccato di gola, poi sta male fisicamente; invece quando uno accumula o trattiene per sé di regola non ne va di mezzo la sua salute, semmai quella degli altri. L'avaro nell'oggetto materiale non cerca un piacere fisico, ma dell'anima: cioè il piacere di possedere la ricchezza. E qui è difficile dire che ci sia qualcuno esente da questo rischio. La felicità è il pieno compimento di ogni desiderio e il denaro sembra assicurare questa felicità in quanto sembra che attraverso di esso si possa ottenere tutto. Più precisamente l'avarizia ci fa vedere il danaro come garanzia per ottenere qualsiasi cosa; a questa considerazione sembra dare ragione anche il libro del Qohelet quando dice che "tutto ubbidisce al danaro". In realtà esistono dei beni non commerciabili e sono anche i più importanti: ossia la salute e la salubrità dell'aria, l'amicizia, la pace del mondo, la serenità della coscienza e la gioia di vivere. Come il corpo non è tutto dell'uomo, ma esiste anche l'anima, così il denaro non è tutto nella società, ma esistono anche le relazioni umane. Alle tante offese a cui queste relazioni umane sono sottoposte a motivo del commercio che si fa anche dei sentimenti e della dignità personale i cristiani rispondono con la generosità che non è lo spreco o la dissipazione, ma è il farsi carico dell'indigenza del prossimo e delle necessità della comunità. Lo scrigno degli avari è simile all'inferno: se c'entrano i denari, non ne escono in eterno. Il paradiso invece è condivisione, mantenendo certo sempre la propria dignità, ma senza far pesare il dono che si fa all'altro. Lo scrittore francese Balzac alla notizia della morte di uno zio ricco e avaro, dal quale ereditò, scrisse: «Alle cinque antimeridiane mio zio e io siamo passati a miglior vita». Non aspettiamo dopo morti a fare del bene, ma facciamo subito in modo che vada a vantaggio nostro oltreché degli altri, a cui non potremo impedire di impadronirsi delle nostre cose quando non ci saremo più. Alla povertà mancano molte cose, all'avarizia tutte, ma il rimedio a questa situazione non è lontano, basta un po' di buon senso e di generosità. San Paolo a Timoteo scrive: "L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori." Evitiamo per quanto possibile fin da ora questi mali, non è difficile, forse sarà alleggerita la tasca, ma se l'offerta è fatta bene sarà alleggerita anche l'anima. Termino con una considerazione del filosofo romano Seneca: "Gli uomini, nella loro stupida avarizia, distinguono il possesso e la proprietà e non giudicano propri i beni pubblici; ma il saggio invece giudica suo soprattutto quello che possiede in comune con l'umanità intera."
Attaccarsi alle cose materiali è proprio delle personalità e delle civiltà in declino che hanno perso la fiducia nel futuro, vedono presentarsi all'orizzonte delle minacce e cercano di premurarsi in qualche maniera. Cercare di arricchire unicamente davanti agli uomini e non davanti a Dio è un comportamento sbagliato condannato dal Vangelo:: "Stolto," dice Gesù nella parabola dell'uomo ricco "questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?" E termina: "Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio". La bontà dell'uomo nei riguardi delle ricchezze consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle cose in quanto sono necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Nell'eccedere questa misura si ha un peccato: e cioè nel volerne acquistare, o ritenere più del dovuto. Dove sta dunque la malvagità dell'avarizia? Saremmo tentati di rispondere: negli altri: in chi ha di più e non si accontenta mai di dove è arrivato e sarebbe disposto a fare carte false pur di incrementare il suo capitale. Questa risposta però rivela un vizio diverso e si chiama invidia. Per considerare equamente la lusinga del vizio dell'avarizia occorre un certo distacco e anche una certa sincerità con noi stessi. L'avarizia è un peccato spirituale: coinvolge chi ha troppo, come anche chi ha poco. Sarebbe sbagliato considerare l'avarizia un peccato sensibile; quando uno mangia troppo, o beve troppo, ossia commette un peccato di gola, poi sta male fisicamente; invece quando uno accumula o trattiene per sé di regola non ne va di mezzo la sua salute, semmai quella degli altri. L'avaro nell'oggetto materiale non cerca un piacere fisico, ma dell'anima: cioè il piacere di possedere la ricchezza. E qui è difficile dire che ci sia qualcuno esente da questo rischio. La felicità è il pieno compimento di ogni desiderio e il denaro sembra assicurare questa felicità in quanto sembra che attraverso di esso si possa ottenere tutto. Più precisamente l'avarizia ci fa vedere il danaro come garanzia per ottenere qualsiasi cosa; a questa considerazione sembra dare ragione anche il libro del Qohelet quando dice che "tutto ubbidisce al danaro". In realtà esistono dei beni non commerciabili e sono anche i più importanti: ossia la salute e la salubrità dell'aria, l'amicizia, la pace del mondo, la serenità della coscienza e la gioia di vivere. Come il corpo non è tutto dell'uomo, ma esiste anche l'anima, così il denaro non è tutto nella società, ma esistono anche le relazioni umane. Alle tante offese a cui queste relazioni umane sono sottoposte a motivo del commercio che si fa anche dei sentimenti e della dignità personale i cristiani rispondono con la generosità che non è lo spreco o la dissipazione, ma è il farsi carico dell'indigenza del prossimo e delle necessità della comunità. Lo scrigno degli avari è simile all'inferno: se c'entrano i denari, non ne escono in eterno. Il paradiso invece è condivisione, mantenendo certo sempre la propria dignità, ma senza far pesare il dono che si fa all'altro. Lo scrittore francese Balzac alla notizia della morte di uno zio ricco e avaro, dal quale ereditò, scrisse: «Alle cinque antimeridiane mio zio e io siamo passati a miglior vita». Non aspettiamo dopo morti a fare del bene, ma facciamo subito in modo che vada a vantaggio nostro oltreché degli altri, a cui non potremo impedire di impadronirsi delle nostre cose quando non ci saremo più. Alla povertà mancano molte cose, all'avarizia tutte, ma il rimedio a questa situazione non è lontano, basta un po' di buon senso e di generosità. San Paolo a Timoteo scrive: "L'attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori." Evitiamo per quanto possibile fin da ora questi mali, non è difficile, forse sarà alleggerita la tasca, ma se l'offerta è fatta bene sarà alleggerita anche l'anima. Termino con una considerazione del filosofo romano Seneca: "Gli uomini, nella loro stupida avarizia, distinguono il possesso e la proprietà e non giudicano propri i beni pubblici; ma il saggio invece giudica suo soprattutto quello che possiede in comune con l'umanità intera."
giovedì 1 ottobre 2009
4 Ottobre 2009 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario
La Parola di Dio oggi ci mette di fronte ad un tema caldo e faticoso, che mette in difficoltà me che rifletto e voi che ascoltate. Parliamo del fallimento dell’amore di coppia, il più doloroso e sanguinante, il più drammatico e diffuso, tema appesantito dalla posizione ufficiale della Chiesa nei confronti delle persone divorziate e risposate o conviventi, posizione che pochi, anche fra i discepoli, capiscono e che i fratelli e le sorelle che portano sulla propria pelle le stigmate del fallimento coniugale sperimentano come una immensa ingiustizia e un giudizio sulla loro vita, versando sale sulle loro ferite. Invoco lo Spirito e balbetto qualcosa, allora, lasciando che sia la Parola a parlare. Al tempo di Gesù il divorzio era un fatto consolidato, addirittura attribuito a Mosè, quindi intangibile. Come accade ancora oggi nella cultura islamica, però, era un divorzio maschilista: solo l’uomo, stancatosi della moglie, poteva rimandarla a casa con un libello di ripudio. Nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione una norma così favorevole ai maschi: la domanda che viene posta a Gesù è retorica, tutti si aspettano che, ovviamente, Gesù benedica questa norma. O forse no: la domanda viene posta proprio come un tranello, per far diventare Gesù improvvisamente antipatico alle folla che lo ha così presto elevato al rango di profeta. (Sai che novità! Tutti seguiamo il guru di turno, finché questi non ci dice qualcosa di sgradevole…). La risposta di Gesù è una rasoiata: voi fate così, ma Dio non la pensa così, Dio crede nell’amore come unico, crede nella possibilità di vivere insieme ad una persona per tutta la vita. Senza sopportarsi, senza sentirsi in gabbia, senza massacrarsi: l’obiettivo della vita di coppia non è vivere insieme per sempre, ma amarsi per sempre! Silenzio imbarazzato, sguardi sorridenti e complici: “Ma che, scherziamo?”. Gli apostoli, preso da parte Gesù, insistono: “Non parlavi sul serio, vero?”. Matteo, nel brano parallelo, giunge ad annotare la sconsolata affermazione dei dodici: “Allora è meglio non sposarsi!” (19,10) Che forza! Gesù dice che è possibile amarsi per tutta la vita, che Dio l’ha pensata così l’avventura del matrimonio, che davvero la fedeltà ad un sogno non è utopia adolescenziale ma benedizione di Dio! Quando due giovani decidono di sposarsi e parliamo della fedeltà non stiamo disquisendo di una norma anacronistica di una struttura reazionaria che propone un modello superato: stiamo parlando del sogno di Dio. A partire da qui, con fatica, con tenacia, i discepoli hanno scoperto la ricchezza del matrimonio cristiano. Da prima di Cristo ci si incontra e ci si innamora, si vive insieme e si hanno dei figli. Farlo nel Signore, mettere Gesù nel mezzo, fa comprendere delle cose straordinarie, nuove, sconcertanti su di sé e sulla coppia. In questi anni, frequentando molte coppie, pregando e vivendo con loro, abbiamo scoperto e riassunto la novità del matrimonio nel Signore. Fra voi, amici lettori, alcuni avrebbero desiderato tanto fare questa esperienza e non ci sono riusciti: non erano pronti, hanno compiuto un gesto a cuor leggero, hanno trovato una persona migliore del proprio coniuge… Molti vivono sulla propria pelle il dramma di una separazione che porta sempre con sé molto dolore. Come possiamo fare? Dobbiamo capire, cercare, intuire. Da una parte abbiamo la Parola del Signore Gesù, cristallina e forte. Dall’altra la prima regola del cristianesimo: l’accoglienza e l’amore. Questo incrocio difficile porta con sé alcune conseguenze. La prima è la richiesta di distinguere sempre le varie situazioni: altro è chi abbandona il proprio coniuge colpevolmente, altro chi è abbandonato; altro chi è libero e sposa una persona separata o chi proviene da un matrimonio fallito; altro chi vuole condividere un cammino di discepolato e chi si ricorda di essere cattolico solo quando gli viene chiesto di fare il padrino e allora tira fuori la questione del “diritto a…”. La seconda è l’affermazione perentoria che una coppia separata e risposata è parte della comunità, partecipa alla vita della comunità, porta il suo contributo a partire dal proprio vissuto. Dio non si stanca mai, egli è fedele e tutta la storia di Israele ci dice che Dio non abbandona mai il suo popolo, anche quando questi è infedele all’alleanza. Come segno di questo percorso doloroso la Chiesa chiede ai coniugi risposati di non ricevere la comunione; è un segno forte, indubbiamente, e anche discutibile, ma che non vuole essere “punitivo”. I fratelli separati non sono esclusi dalla comunione perché non “degni” (siamo tutti “indegni” di ricevere Dio, è lui che vuole donarsi!), ma per segnalare alla comunità il loro percorso di conversione. La terza è che dobbiamo ancora capire come fare: occorre ribadire fortemente il valore dell’indissolubilità, senza schiacciare le persone che hanno sbagliato o che fanno scelte di vita in cui sono coinvolte persone separate. La strada, come vedete, è ancora piuttosto lunga e necessitiamo di tutta l’infanzia di Dio per trovare delle soluzioni...
sabato 26 settembre 2009
27 Settembre 2009 - XXVI Domenica del Tempo Ordinario
Nel brano del vangelo sottolineiamo alcuni insegnamenti di Gesù, distinti tra loro.
1. "Chi non è contro di noi è per noi". "Siete gelosi? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore?" Gesù ci invita a riconoscere tutto il bene che c'è nel mondo, anche al di fuori del cristianesimo e nelle persone che non la pensano come noi. Lo Spirito del Signore opera in tutti e tante persone hanno buona volontà e compiono il bene davanti a Dio e a favore del prossimo. C'è tanta santità e tanta bontà nelle case, nelle famiglie, in ogni ambiente, nelle persone che soffrono o che si sacrificano per gli altri! Dobbiamo imparare a riconoscere che nel mondo c'è tanta gente buona e tanto bene, anche se la stampa o la televisione fanno conoscere di più le notizie negative che quelle positive. Ad uno sguardo superficiale il mondo sembra cattivo, ma ad uno sguardo di fede ci fa capire che lo Spirito agisce anche dove noi non immaginiamo e che per fede dobbiamo essere ottimisti.
2. "Chiunque avrà dato un bicchier d'acqua non perde la sua ricompensa". Ogni azione ha il suo valore e ognuno deve far fruttare i talenti che ha ricevuto. Il Signore promette la sua ricompensa, su questa terra in tante maniere e nell'eternità, anche per i più piccoli atti di amore e di fede.
3. "Chi scandalizza uno di questi piccoli, sarebbe meglio... lo buttassero in mare". Gesù usa queste parole molto severe per far capire che il nostro rapporto con gli altri deve essere sempre di aiuto e mai di rovina, nella vita spirituale e nella vita materiale. Purtroppo nel mondo ci sono anche tanti cattivi esempi, controtestimonianze, scandali... sia nella vita sociale ed economica, come in quella morale. Ma anche ciascuno di noi deve esaminarsi nel suo piccolo, perché non ci capiti di far del male a qualcuno. Dobbiamo impegnarci anche per chiedere e per costruire un mondo più pulito moralmente, perché i mass media, che dovrebbero essere strumenti buoni, molte volte inquinano e rovinano i valori più importanti nelle coscienze delle persone.
4. "Se la tua mano ti scandalizza, tagliala! se il tuo piede... taglialo! Se il tuo occhio... cavalo; è meglio entrare nella vita, senza una mano, che andare con due mani nel fuoco inestinguibile!" Mi devo chiedere: Cos'è che mi scandalizza, cos'è che è male in me? Qual è il mio problema adesso, il mio problema più grave adesso? Cosa devo tagliare adesso? Nella vita spirituale è importante individuare il nostro problema vero, tra le tante cose che abbiamo ma che sono di importanza relativa. Facciamo un esempio: se uno ha un male grave, cerca di individuarlo e toglierlo, non sta a preoccuparsi di altre cose più piccole (es. i capelli, le unghie...)
Nel mio problema vero devo avere il coraggio di fare un taglio netto, con decisione. E' molto forte la parola e il vangelo di Gesù: Tagliala, cavalo! Uno potrebbe dire: Non ce la faccio. Ma la parola di Gesù se ci indica una strada, ci dà anche la forza di percorrerla. Allora: - chiedi a Dio la forza: Nulla è impossibile a Dio; tutto è possibile a chi crede! - Da parte tua rinnova la buona volontà e il desiderio di riuscire. - E poi chiedi la collaborazione di qualcuno che ti possa aiutare a guarire, come fai col medico o con l'infermiere, quando hai una malattia fisica. Ti accorgerai che il tuo male guarisce. E vivrai nella pace, nella gioia, nella grazia di Dio, nella generosità del cuore verso il Signore e verso il prossimo.
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