Il vangelo di oggi ci propone le beatitudini. Le beatitudini sono il messaggio di Gesù, il suo manifesto, il suo libro di testo, e ci mostrano un’immagine di Dio e un’immagine dell’uomo.
Ci dicono, cioè, chi è Dio e chi è l’uomo per Gesù.
La legge mosaica dei dieci comandamenti diceva cosa bisognava fare e cosa non bisognava fare. Gesù adesso sale sul monte delle Beatitudini e dà le otto beatitudini, otto consigli.
Questa è la nuova e definitiva legge di Dio per tutta l’umanità. Una legge che non dice cosa bisogna fare o non fare, ma come bisogna essere.
Le beatitudini dicono: “Tu puoi essere felice. Tu lo puoi, tutti lo possono”.
Il punto è che non è come comprare un auto o un gioiello: do qualcosa (soldi) e mi viene dato ciò che cerco. Qui non c’è niente da dare, qui c’è da darsi; qui non c’è niente da giocare (punto e spero di vincere!) ma da giocarsi; qui non c’è da fare o non fare qualcosa, ma da essere e vivere qualcosa”.
Le beatitudini ci mostrano cosa possiamo essere. Dappertutto si sentono voci che dicono: “Accontentati, d’altronde non si può avere tutto. Sii soddisfatto di quello che hai: lascia stare certi sogni”.
E, invece, le beatitudini dicono: “Punta in alto, osa, vola ad alta quota perché per questo sei fatto. Questo è ciò che Dio vuole da te e questa è la tua unica felicità. Non hai nemmeno idea di cosa puoi vivere! Non hai nemmeno idea di come puoi sentirti pieno! Non hai nemmeno idea di quanto grande sia il tuo cuore: c’è davvero spazio per tutti; di quanto tu possa amare, di quale profondità tu possa avere nei rapporti; di quanti sentimenti tu possa sentire, percepire e vivere. Non hai nemmeno idea di quanto ti possa sentire ricco (anche se hai ben poco) e ricolmo di vita. Non hai nemmeno idea di quanto possa essere bello, meraviglioso e immenso vivere. Non hai nemmeno idea di che forza hai dentro e di quale coraggio disponi”.
E il fatto che molte persone si mettano a ridere di fronte a tutto questo, dimostra quanto, in definitiva, l’uomo sia infelice.
Le beatitudini non insegnano a non avere contrasti, conflitti, perché non si può vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non insegnano ad evitare i sentimenti (tutti!) ma a viverli.
Non sono una soluzione magica (ci piacerebbe eh!) ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io” e di noi: “Tu puoi vivere più intensamente di quanto non creda”.
È un’illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, conflitti, tensioni o incomprensioni. Poiché ci sentiamo caratterialmente fragili, poiché non ci sentiamo così forti da reggere tutti questi urti, questi scossoni, queste tensioni, allora vorremmo evitarli, allora sogniamo un mondo senza difficoltà. Le beatitudini, invece, ci insegnano a vivere in maniera felice, profonda, con le radici ben piantate, anche quando le situazioni sono difficili, crude o dolorose. E dicono: “Vivile e non ti sottrarre perché anche ciò che tu tendi a rifiutare ha un senso; vivile perché tutto è per te e devi imparare qualcosa da tutto ciò che ti succede; vivile e non ti far spaventare perché Dio c’è sempre e non ti abbandona mai. Vivile e vedrai che è così!”.
La paura bussò alla mia porta. Ero terrorizzato. Andai ad aprire e... non c’era nessuno!
Le beatitudini non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla rassegnazione, al pietismo, alla tristezza o al subire.
Non dicono che la povertà è bene: la povertà è miseria. La povertà non è bene, ma è la realtà della nostra condizione umana.
Non dicono che è buono essere perseguitati: no, è terribile e crudele. E chi lo cerca è masochista (ammalato!). Ma non si può vivere, essere significativi e pensare che tutti ci accettino. Anche le statue, immobili e senza vita, sono soggette a pareri diversi; perfino sulle idee ci si scontra, figuriamoci se possiamo accontentare tutti!
Non dicono che piangere sia bello: no, è e sarà sempre doloroso. È che piangere ci trasforma, ci purifica. Il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l’adattamento alla realtà. Non è bello, è necessario (che è molto diverso).
Non dicono che bisogna chiudere gli occhi o subire le malefatte degli uomini. Dicono che bisogna essere misericordiosi, che bisogna avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i comportamenti ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono così perché sono pieni di paura. È per questo che divengono aggressivi, violenti, indisponenti. Questo non vuol dire che devo subire tutto. Quando c’è da dire “no” lo dico e con tutta la forza che ho. Ma dentro di me guardo anche la persona ostile e mi dico: “Poverino, ma quanto deve soffrire! Che guerra avrà dentro?” E non giudico, perché non conosco le sue tensioni interne.
Le beatitudini non sono dei comandi: “Devi vivere così”.
Sono delle proposte: “Tu puoi vivere così!”. È una possibilità: puoi sceglierla oppure no. Vedi tu. Le beatitudini non sono una soluzione ai nostri problemi: “Cosa devo fare per essere un bravo cristiano?”. Sono un cammino per diventarlo.
1. Puoi essere quello che sei.
La cultura dice: “Puoi vivere solo se ti adatti e non disturbi”.
Dio dice: “Ti ho creato così, va bene così”.
Molti di noi, per non avere problemi, per non creare tensioni, per non perdere chi amiamo, accontentiamo tutti (cosa impossibile ma noi ci proviamo!) e così facendo ci allontaniamo così tanto da noi che ad un certo punto ci perdiamo, non sappiamo più chi siamo, cosa vogliamo, cosa sia bene per noi. Alcune persone si sono così tanto allontanate da sé stesse da non sapere neppure più cosa provano, cosa vogliono.
Non adattarti a morire; non adattarti a certe situazioni che ti alienano, che ti fanno male; non farti andare bene quello che non ti può andare bene solo per la paura del contrasto; non metterti mai un vestito che non è tuo o vivere una vita che non è tua.
Sii te stesso perché essere qualcos’altro è l’unico fallimento dell’esistenza. Vivi la tua vita perché viverne un’altra non ti potrà mai far felice.
2. Puoi vivere anche se non hai successo.
La società dice: “No, puoi vivere solo se hai profitto, successo o se sei bravo”.
Dio dice: “A me non devi dimostrare niente”.
Molte persone lavorano sempre e di più. Non sono mai capaci di stare ferme, sono sempre in movimento. Tutta questa attività viene giustificata come agire, attivismo spirituale, amore per il prossimo, per la casa, per gli altri, per i figli.
Ma spesso, sotto sotto, c’è dell’altro. Nel profondo credono di non valere, credono di non essere davvero degne d’amore, credono di non essere poi così importanti, e allora tentano di guadagnarselo, di meritarselo, di “comprarselo”.
È come se dicessero: “Con tutto quello che faccio per mio figlio, sarò pure una brava madre, no?”. Ma non è quello che fai che ti fa una brava madre. È ciò che hai dentro che ti fa madre. “Con tutto quello che faccio per gli altri vuoi che Dio non mi ami”. No, Dio non ti ama perché fai tanto. Dio ti ama perché sei tu. E tutto il tuo daffare non ti rende certo più bello o gradito ai suoi occhi: anzi così facendo perdi il tuo tempo, la tua possibilità di essere quello che veramente sei.
Non dobbiamo pensare che tutto (l’amore, la stima, l’affetto) si possa comprare: “Io sono bravo e tu in cambio mi dai attenzioni”. Non dobbiamo diventare “disponibili con gli altri” perché abbiamo un bisogno tremendo di essere visti, accolti e amati.
Le beatitudini dicono: “Dio non te lo devi conquistare. È già tuo”. “L’amore non te lo devi comprare; hai già il Suo”. E che pace, che distensione è sapere che c’è un amore sicuro al di là di ogni cosa!
3. Puoi esprimere ciò che senti.
La cultura dice. “No, non esprimere i tuoi sentimenti e soprattutto alcuni nascondili”.
Dio dice: “Ciò che senti è tuo, ti appartiene, sei tu. Non mentirti, ma accogliti, accetta ciò che vive in te”.
Molte persone hanno imparato che non è bene farsi vedere deboli, che chi è forte non piange mai. Così per essere forti hanno eliminato il pianto. Ma non sono forti, sono rigidi (il che è molto diverso!).
Cioè: il pianto è la reazione spontanea a qualcosa che ci ha rattristati, che ci ha feriti, che ci ha provocato dolore. Smettere di piangere non ci fa meno tristi, ci impedisce solo di esprimerlo: e così facendo ci teniamo dentro la tensione e il dolore che, invece, hanno bisogno di uscire; ci nascondiamo la verità: crediamo che tutto vada bene (non piangiamo!) e invece dentro il dolore urla.
Molte persone credono che arrabbiarsi sia male. “Non essere arrabbiato con i tuoi fratelli; il bravo cristiano non s’arrabbia mai”. E, invece, è normale arrabbiarsi, è normale andare in collera, è normale, a volte, essere furenti e pieni d’ira. Ogni volta che siamo feriti, viene ferita la nostra dignità: è naturale quindi che noi, giustamente, reagiamo, che ci arrabbiamo.
L’importante è che questa reazione non rimanga “dentro”, non deve “bollire” dentro di noi (ecco il ri-sentimento): è necessario che un chiarimento, una spiegazione pacata riporti la serenità.
Quando sono arrabbiato devo accettare di esserlo, vuol dire che c’è un motivo per cui lo sono. Magari ho ingigantito un fatto, l’ho interpretato con occhio permaloso, ma la mia rabbia ha comunque motivo d’esserci, e ne devo prendere atto. Solo così posso iniziare a gestirla e a buttarla fuori, senza sfogarmi con parole acide, taglienti, giudicanti.
Molte persone hanno imparato che non si deve avere paura e, così dicono loro, non hanno paura di nulla: ma la realtà è che non la sentono. Aver paura è normale nella vita: l’importante è non farsi bloccare, non aver paura di aver paura.
La paura è solo un avvertimento: “Qui c’è qualcosa di pericoloso”. Bene: quando lo sai, hai il tempo di decidere cosa fare. Non devo nascondere la paura dietro ad un volto lieto o ad una espressione sorridente. Non devo resistere alla paura con tutte le mie forze, ignorarne l’esistenza e cercare di dominarla con una volontà ferrea. La paura mi appartiene. Mi dice che ciò che sto facendo mi costa, mi mette in gioco, è qualcosa d’importante, ma devo sapere che io non sono solo e – con l’aiuto di Dio – posso vincere qualunque paura!.
Altre persone invece hanno paura di tutto: si vergognano da morire per come hanno vissuto o per ciò che provano. Ma le beatitudini dicono che Dio ha un cuore così grande da poter contenere ogni cosa, che Lui non ha paura di ciò che a noi invece fa paura o ci fa sentire in colpa; che la nostra dignità (siamo figli di Dio e della Vita) rimane intatta, qualunque cosa abbiamo fatto.
Allora non mi devo nascondere più nulla, perché Lui è Accoglienza, perché Lui non prova vergogna delle mie “vergogne”, perché Lui ama anche ciò che io non riesco ad amare.
E se non ho assolutamente nulla da nascondere ai suoi occhi, allora veramente sono libero e liberato.
4. La povertà è la nostra unica e reale condizione.
La prima beatitudine (forse Gesù ha pronunciato solo questa o solo le prime tre) le racchiude tutte. Il povero del vangelo è colui che è vuoto, rannicchiato, mendicante, bisognoso.
Il peccato, allora, per Gesù è bastare a se stessi, credere di essere a posto, di non aver più bisogno di imparare nulla, di sapere più o meno tutto, di non aver bisogno degli altri e di Dio.
“Povero” qui significa distaccato, nel senso di chi vive dentro le cose, totalmente immerso in esse, ma senza attaccarsi ad esse: vive “distaccato”, perché sa che quando è ora deve lasciare tutto; nudo è nato e nudo uscirà da questa vita.
La povertà, l’essere nulla (che è diverso dall’essere niente) è la vocazione dell’uomo. La realtà è che io non possiedo nulla. Essere umani è vivere questa verità. Questo è il grande segreto della vita: chi non ha niente ha tutto. Chi non si attacca a nulla può vivere tutto.
La prima beatitudine ci rivela infatti la grande verità della vita: Dio è tutto, il resto è niente. Dove ti appoggi? Su cosa puoi davvero con-fidare? Sulle cose? Passano tutte e si usurano. Sulla gloria? Rimane forse un nome ma tu non ci sei più. Sulle persone? Non ti salvano. Qual è l’unica cosa che tiene? Qual è l’unica cosa dove ci si può appoggiare, agganciare, per non cadere nel vuoto?
Noi siamo zero. Ma nella lingua ebraica “zerà” oltre che significare il nostro “zero” “niente” vuol dire anche “seme”. Noi siamo zero, nulla, vuoti, poveri del tutto, mendicanti. Ma nel nostro essere niente, come in un seme, è nascosto il nostro essere tutto.
Nel nostro essere niente c’è il Tutto. Nel nostro essere poveri c’è la Ricchezza. E più io mi spoglio e smetto di con-fidare in me e più posso ri-mettermi nelle mani di Dio ed essere al sicuro.
Quando non avrai più nulla, allora avrai il Tutto. E quando sarai spoglio di ogni cosa, allora sarai vestito d’eternità. E quando tutto morirà, allora sarà la Vita. E quando tutto cadrà, allora sarà l’inizio.
Sì, perché Dio è l’unica fortezza incrollabile.
Nessun commento:
Posta un commento