martedì 28 dicembre 2010

1 Gennaio 2011 – Maria SS. Madre di Dio

È il capodanno, oggi; un cambio d'anno, un evento tutto sommato banale, che il disperato bisogno di speranza degli uomini ha riempito di una ritualità laica, fatta di fuochi d'artificio, di tavole opulente, di bevute e di brindisi anestetizzanti, nel tentativo pagano di esorcizzare il tempo, prenotando per i giorni futuri solo benessere, gioia e spensieratezza. Ubriacatura del non senso, dimenticanza voluta del vero senso del tempo e della vita. Anche se in fondo rimane positivo il fatto che ancora si avverta il bisogno di sperare, di aspettarsi per il domani qualcosa di migliore, qualunque cosa purché serva a colmare il vuoto dell’assenza di valori.
Per noi cristiani invece il tempo è sacro; da quando Dio lo abita.
Il tempo, la storia, la mia storia, non è una serie di avvenimenti che si susseguono senza senso ma, al contrario, è lo spazio che mi è dato per realizzare il progetto che Dio ha su di me, un ritaglio di infinito in cui diventare uomo. Nella nostra vita ci sono anni più belli, fatti di soddisfazioni lavorative, di gioie immense come la nascita di un figlio, ed altri più difficili e dolorosi, anni in cui in cui sperimentiamo il fallimento affettivo o il lutto di una persona cara. Entrambi in ogni caso sono abitati dalla tenerezza di Dio. Certo, salute, pace, benessere, amore, sono tutte cose importantissime, ma non sono dovute, non sono assolutamente scontate.
E allora quale miglior augurio potrei farvi per il nuovo anno se non quello formulato nella Parola di oggi: “Dio faccia splendere il suo volto su di voi”? “Far splendere il volto”, uno splendido semitismo che indica il sorriso di una persona. Quando sorridiamo, il nostro volto si illumina.
E questo vi auguro, fratelli, sorelle, amici lettori: qualunque cosa vi accada in questo nuovo anno, il vostro volto sia sempre luminoso, ad immagine speculare del volto sorridente di Dio, Si, fratelli, il nostro Dio è un Dio che sorride. E chi lo ama, anche nelle avversità, nei dolori, nelle contrarietà, riesce sempre a sorridere specchiandosi nel suo volto. Questo è consolante, fratelli: Dio sorride, non è imbronciato, non é impenetrabile, non é scostante, non é innervosito: Dio sorride, sempre. Anche il volto del neonato Gesù, immerso da poco nella fragilità umana, ci svela questo volto del Dio sorridente. Il problema, invece, siamo noi, solo noi: tu ed io. Nei momenti di fatica e di dolore non riusciamo ad alzare lo sguardo fiducioso verso Dio, ma veniamo travolti dall'emozione, dalla rabbia, dalla disperazione; non riconosciamo in Dio nessun sorriso.
Fratelli miei: non aspettiamoci che Dio ci risolva i problemi, né che ci appiani la vita o ce la semplifichi. La vita è un mistero e come tale va accolta e rispettata. Ma se Dio ci sorride, sempre, significa che un motivo ci deve pur essere - un motivo che magari non vediamo, una ragione che ignoriamo - se Lui è lì, sempre sorridente: se per Lui i nostri problemi non sono problemi, vuol dire che dobbiamo abbandonarci a Lui. Dobbiamo fidarci di Lui! Ecco, fratelli e sorelle: qualunque cosa succeda quest'anno nella nostra vita, abbandoniamoci al suo sorriso, sempre!
Cosa fare per poter cogliere più facilmente e nitidamente il sorriso di Dio? Dobbiamo imitare Maria, la sua madre adolescente. Maria, che oggi appunto onoriamo con il titolo di "Madre di Dio", è turbata dai troppi eventi che le sono capitati nell’ultima settimana: il parto da sola, l'essere lontana dalla sua casa, la sistemazione più che provvisoria, la visita dei rozzi e poco raccomandabili pastori. Che fa, Maria? Si dispera? No: raccoglie tutte queste preoccupazioni nel suo cuore e le medita nel silenzio. Meglio, come dice letteralmente il greco di Luca, "prendeva i vari pezzi e cercava di ricomporli". È proprio vero, fratelli: nella nostra vita spesso manca proprio questo: un rifugio vitale, un entrare in noi stessi (introire secum) per ricomporre la nostra vita travolta dagli eventi, dal vissuto: un luogo dove appendere un filo su cui stendere tutte le nostre miserie, perché si asciughino al sole dell'amore di Dio. Ci serve, in altre parole, la fede, una fede convinta, che sia il nostro filo conduttore, il nostro prezioso centro unificatore, assolutamente insostituibile. Soltanto con la fede, nell'ascolto e nella meditazione giornaliera della Parola, ci accorgeremo che Dio ci sorride.
Dio ha scelto Maria tra milioni di donne sicuramente più idonee di Lei: lei, una donna bambina, totalmente impreparata. Maria se ne rende perfettamente conto. Nessuno mai le avrebbe dato credito. Ma i criteri di Dio sono diversi dai nostri. Dio sceglie sempre per le sue imprese coloro che gli uomini sottovalutano: la pietra scartata nelle sue mani diviene testata d'angolo; perché Egli, da sempre e per sempre, usa altri criteri. Dio, fratelli miei, ha in mente per ciascuno di noi un viaggio strepitoso, in-credibile, eccezionale, ma è condizionato da noi: non può farlo, non può realizzare questo suo sogno se noi non ci fidiamo di Lui, se gli resistiamo, se continuiamo ad opporci, a voler dirigere da soli la nostra vita. Dio sceglie e ama in maniera particolare chi è disponibile, chi si fida di Lui, chi può dire, come Maria: “Va bene, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Ti seguo ciecamente, andiamo!”. Non è meraviglioso fare così? Questa è la fede, fratelli miei!
Guardiamo allora a Maria, all’inizio di questo nuovo anno, e fidiamoci di Dio: smettiamo di chiedergli perché succede quel che succede, di recriminare perché certe cose vanno storte e succedono sempre e proprio a noi! Smettiamola di frapporgli ostacoli e di tirarci indietro quando ci chiama. Qualunque cosa accada dobbiamo accettare la sua volontà. Dobbiamo capire che Egli vuol farci passare proprio di là. Punto e basta. "Io mi fido di Te. Se l’hai permesso, è perché devo imparare qualcosa; cercherò di farlo con il tuo aiuto. Guidami e ti seguirò; tu davanti e io dietro”.
Vi assicuro che in questo modo tutte le nostre ansie svaniranno e troveremo dentro di noi una una forza irresistibile: col nostro "si" esalteremo non solo in noi il sorriso di Dio ma lo irradieremo al mondo intero; e avremo la pace.
E allora la Pace del sorriso di Dio sia in te, fratello e sorella: sia in casa tua, nella tua comunità; sia dove lavori, e dove ti diverti. Sia nella tua città dove vivi, sia nel mondo. Che tutti la possano incontrare, non solo nelle Liturgie delle Chiese o nelle preghiere di Sinagoghe e Moschee, ma anche nell’altro, nell’ascolto reciproco, nell’aiuto di chi è in difficoltà, nel perdono dopo lo scontro, nell’amore che si può e si deve dare sempre, in ogni occasione!
E concludo: Buon anno, amici lettori, fratelli carissimi. Dio, che fa nuove tutte le cose, vuole rinnovare anche noi; ci vuole, convinti, tra i suoi discepoli più cari: vuole amarci ad ogni costo! Lasciamolo fare, lasciamoci raggiungere una buona volta, tutti. Ve ne prego. Amen.

mercoledì 22 dicembre 2010

25 Dicembre 2010 – NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

Il bimbo vagisce con voce flebile, come fanno i cuccioli d'uomo appena nati. Gli occhi socchiusi, le minuscole mani serrate a pugno, appoggia il viso grinzoso all'acerbo seno della madre. Per un istante spalanca gli occhi, come ad essere rassicurato, poi ripiomba nel sonno. La madre, inesperta, attinge il dito mignolo in una tazza di coccio e glielo appoggia sulle piccola labbra che si dischiudono e si bagnano del latte di capra. Maria gli aggiusta la coperta di lana che protegge il corpo nudo del neonato dal freddo del deserto che lambisce le case di Betlemme. Sorride, Maria, e guarda Giuseppe, seduto sulla paglia, esausto dal lungo viaggio e dalle emozioni delle ultime ore. Ecco Dio, ecco l'uomo: enorme inerme, possente fragile, debole per scelta. Suscita tenerezza, viene voglia di prenderlo in mano, di accarezzarlo.
Sulle colline intorno a Betlemme, i pastori, i bastardi di Dio, i perdenti, gli uomini senza dignità, senza futuro, senza speranza, cercano di scaldarsi dalla gelida notte della Giudea. Nei loro cuori rabbia, rassegnazione, disincanto, come sono i sentimenti di coloro che hanno speso tutte le energie per sopravvivere. Fine di un giorno uguale come i precedenti, uguale come i futuri, senza scampo, senza tregua, senza luce.
Ma ecco che un angelo appare loro. “Andate a vedere – dice – vedrete come segno una mangiatoia. Per voi, non per gli altri, è nato il Salvatore. Proprio per voi che non sapete nemmeno cos'è, la salvezza”.
È grande Dio: una mangiatoia! Il segno che l'angelo dona ai pastori è ciò che essi conoscono meglio. Non cose irraggiungibili, complicate ed elitarie: essi possono incontrare Dio esattamente con ciò che sono, con ciò che conoscono. È Dio che si è fatto loro incontro, senza porre condizioni. E loro vanno, e vedono, e capiscono. Spiegano alla ragazzina provata dal parto e al suo fidanzato dell’annuncio degli angeli.
Maria sorride debolmente, Giuseppe non sa che pensare. Che storia meravigliosa!.
Dio nasce in un paese lontano, in condizioni disperate e gli unici che se ne accorgono sono i più poveri, quelli che mangiano solo una volta al giorno, poco pane e tanti disagi.
Tornano pieni di gioia al loro alienante lavoro, i pastori; nessun bel finale: l'odore delle pecore e delle capre è sempre lo stesso, il freddo è sempre pungente come prima.
Solo il loro cuore è cambiato.
Dio si è fatto uomo.
Ecco dunque Dio, voi che lo aspettate. Ecco Dio, voi che non ne sentite il bisogno. Ecco Dio, professionisti del sacro. Eccolo, inatteso, sconvolgente, stordente, folle.
Ecco Dio, fratelli: è un neonato con i pugni chiusi e la pelle arrossata, gli occhi che mal sopportano la luce e la piccola bocca che cerca l'acerbo seno della madre.
Ecco Dio, fratelli: è un bambino impotente, fragile, che va lavato e scaldato, cambiato e baciato, e viene tenuto a contatto della pelle ruvida del padre, Giuseppe, che lascia l'emozione inumidirgli gli occhi per poi tornare alla concretezza di una situazione difficile.
Ecco Dio, fratelli: non dona, chiede, non ha deliri di onnipotenza, ha svestito i panni della regalità, li ha deposti ai piedi della nostra inquieta umanità, non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui.
Ecco Dio, fratelli: un parto sconosciuto in mezzo alle decine di migliaia di parti di bambini derelitti destinati alla miseria e alla morte. Dio è così: prendere o lasciare, accogliere o rifiutare o, peggio, mistificare, come troppo spesso siamo capaci di fare noi, stravolgendo la cruda realtà del Natale, la disarmante fragilità di Dio e la sua follia d'amore, con la nostra frenesia mondana fatta di emozioni buoniste (sempre le solite e sempre più consumate), scordandoci completamente della fede.
Ecco Dio: un Dio che si annuncia a chi non se lo merita, a chi non lo prega, a chi maledice la vita tre volte al giorno. Un Dio che si fa riconoscere dai segni quotidiani, che si nasconde nelle piccole cose. Un Dio che cambia la vita che se anche resta la stessa, assume una luce diversa.
Ecco Dio, discepoli del Nazareno, che ancora non vi stancate di essere cristiani e di seguirlo e di pregarlo. Ecco Dio, diverso da come lo vorremmo.
Un Dio bambino, che non risolve i problemi, ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non punisce i malvagi ma che dai malvagi è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge a noi poveri, a noi perdenti, a noi inquieti, Lui per primo povero, perdente, inquieto per amore.
Se Dio è così significa che ama l'umanità al punto da diventare uomo.
Se Dio è così significa che Dio è accessibile e ragionevole, tenero e misericordioso; significa che l'idea di un Dio potente da tenere a bada, che si fa gli affari suoi, sommo egoista bastante a se stesso, è fasulla e pagana, perché Dio ama, ancor prima di essere amato.
Se Dio è così significa che ha bisogno di noi, come ha avuto bisogno di una madre e di un padre.
Significa che io posso riconoscere Dio e servirlo in ogni sconfitto, in ogni povero, in ogni abbandonato; che la fragilità degli uomini è il luogo che Dio vuole abitare, che, se vivo questo Natale con la morte nel cuore, allora è esattamente la mia festa, perché Dio abita anche la stalla della mia vita.
Vorrei abbracciarvi ad uno ad uno, compagni di viaggio. Centinaia di volti, di storie, di messaggi, di pianti e di sorrisi ricevuti come un dono prezioso durante il mio pellegrinaggio di speranza in quest’anno. Vorrei abbracciarvi ad uno ad uno, comunicandovi la speranza che riempie ancora il mio pavido cuore e la mia debole fede. Vorrei mostrarvi quanta grazia, quanta gioia, quanta pace Dio continua a suscitare. Un augurio speciale a tutti e a ciascuno. Buon Natale. Amen.

mercoledì 15 dicembre 2010

19 Dicembre 2010 – IV Domenica di Avvento

Per Giuseppe non fu sicuramente un gran Natale, quel Natale! Lui i suoi progetti li aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene, merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e, addirittura, trasferirsi a Sefforis. Le cose andavano bene: da lì a poco avrebbe preso in casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, progettare una famiglia con quella ragazza che gli aveva rapito il cuore era fonte di gioia incontenibile. Ma, improvvisamente, questo sogno di Giuseppe viene "rovinato" dall'intervento di Dio. L’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è responsabile, lo getta nell’angoscia e lo costringe a rivedere tutto.
Ma come: Maria? Proprio lei? Come è potuto succedere? Lui era l'unico a sapere che quel figlio non era frutto del suo seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa avrebbe dovuto fare?
Non era il tempo della rabbia, quello, né del piangersi addosso; era il tempo di agire. Consegnarla alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sapeva bene che il destino delle donne adultere era la pubblica lapidazione. No, non poteva. La notte in cui apprese la tragica notizia dovette essere terribile per lui: l’ansia che lo teneva sveglio, il rigirarsi continuamente nel pagliericcio, le orribili visioni del domani che spietatamente lo gettavano nella disperazione più cupa. Aveva sempre davanti agli occhi il volto sorridente di Maria: non riusciva a credere alla realtà, non voleva arrendersi all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio ferito cedeva però il posto alla tenerezza e alle lacrime dell’innamorato. Il suo cuore si placò quando gli venne in mente un'altra soluzione: al rabbino avrebbe detto che si era stufato di Maria, e che pertanto scioglieva il contratto. Maria avrebbe avuto l'onore compromesso, ma la vita salva. Ecco, sì, buona idea. Lui, nonostante e al di là di tutto, la amava immensamente.
Il racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci con tutti i sogni, nella nostra vita personale, infranti da un abbandono della persona amata, da una malattia, da un incidente, da una ingiustizia sul posto di lavoro, dai tanti fattori che ci fanno sentire ingiustamente frenati nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi progetti di vita nell'amore e nella realizzazione a livello vocazionale, professionale e di lavoro. Anche nel sogno spirituale di fede possiamo a volte sperimentarne la morte, quando sentiamo Dio lontano e la comunità dei credenti come ostacolo; e allora quello che credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina nemmeno con il suo proposito di bontà e di giustizia personale.
Finalmente, quella notte, il sonno arrivò: lo prese sul fare del mattino. E lì accadde. Un angelo dialogava con lui, nel sogno, e gli parlava di una missione da compiere, e di un figlio che avrebbe salvato il mondo e di non preoccuparsi. Un sogno strano, dolce, quasi vero. Maria era sua, di Giuseppe, ma a Dio piaceva e le aveva chiesto il grembo in prestito. Nel sogno Giuseppe taceva, stupito, attonito, pacificato. Poi si svegliò, sereno. I pensieri bui erano lontani, fuggiti con le tenebre, si decise di andare a comperare un dolce e di portarlo a Maria. Aveva bisogno di forza, ora che aspettava un figlio. “Suo” figlio. Se Maria aveva imprestato il grembo a Dio, lui, Giuseppe, poteva anche fargli da padre, a Dio. E fa bene a mettere da parte il suo dolore: perché non c’è nessun altro uomo a Nazareth che ami la sua Maria. È semplicemente Dio che gliel’ha rubata.
E la storia continua, con un nuovo sogno che appare nella mente e nel cuore di Giuseppe. È un nuovo progetto che prende forma proprio dalle macerie di quello che credeva distrutto: Dio lo coinvolge in una storia che ovviamente è molto al di la delle sue capacità, ma che ha già coinvolto un'altra piccola donna, che è proprio la sua sposa, Maria. Dio vuole realizzare il suo sogno di entrare nella storia umana e in questo progetto difficilissimo non può fare a meno di Giuseppe, anche se infinitamente più piccolo di Dio. In questo incontro "impossibile" di collaborazione con Dio, Giuseppe trova il nuovo progetto di vita sul quale punta tutto e dal quale ritrova nuovo slancio. La sua quindi non è una obbedienza cieca e sottomessa, ma è una obbedienza a Dio insieme all'obbedienza al suo cuore. Giuseppe cerca la felicità e, aiutato dalle parole che l'angelo gli depone nel cuore, comprende che questa felicità si realizza proprio là dove credeva fosse morto tutto.
Matteo, ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe era “giusto”: cioè irreprensibile, autentico, onesto, un uomo di alto profilo, pieno di dignità e di compassione, non vendicativo, non rancoroso; uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito a morte, capisce, sa superare il suo orgoglio e usa misericordia verso la donna che ama profondamente. È “giusto”, Giuseppe: come i giusti dell'antico testamento, come i pii davanti a Dio, come i retti di cuore, tanto lodati dalla Scrittura. “Giusto”, perché si mette dalla parte del pensiero di Dio, perché contrasta la follia dominante e il pensiero comune, perché guarda in profondità e lascia prevalere la tenerezza. Infine, “giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo lasciassimo Dio nascere nei nostri cuori.
Ma noi, fratelli e sorelle, lo vogliamo veramente che Dio nasca nei nostri cuori? Si? Allora mettiamo da parte le apparenze, viviamo nell'onestà con noi stessi, siamo irreprensibili di fronte agli uomini, coltiviamo in noi i sentimenti e le qualità che ancora sono considerate dei valori: la mitezza, l'assenza di critica, la bonomia, la pazienza, la mitezza, l'umiltà. Un mondo di arroganti e spocchiosi è diventato il nostro mondo, un mondo fatto di gente che urla per far sentire il nulla che ha da dire. Di quanti Giuseppe avremmo bisogno in famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose, negli uffici, in politica! Uomini e donne “giusti”, di cui Dio si può fidare per realizzare il suo progetto!
Ma non basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei grandi sognatori, dobbiamo credere ancora nei sogni, negli ideali. Giuseppe c'insegna ad avere il coraggio del sogno, in questo nostro mondo disincantato e cinico; lui, grande sognatore, vive la sua vita intera dietro ad un sogno, piega la sua volontà e il suo destino alla volontà sorniona ed impudente di Dio che gli chiede di mettersi da parte, per lasciare spazio al Suo inaudito progetto di incarnazione.
Un uomo che non sa più sognare, che non insegue i suoi sogni, che non li ascolta, è un uomo morto. E uccide Dio.
Giuseppe accetta, si mette da parte, rinuncia al suo sogno, per realizzare il sogno di Dio e dell'umanità. È deciso, Giuseppe: si prepara perché deve tornare alla sua Betlemme con Maria. Non le ha chiesto nulla, lei sa, lui sa. Si mettono in strada, lei, acerba adolescente con il pancione che la fa donna; lui, con tutte le premure di uno sposo innamorato. Un Imperatore idiota ha deciso di contare i suoi sudditi per autodeliziarsi, stupidamente, del suo inutile potere...
Fratelli miei, cosa ci dice questa svolta decisa nella storia di Giuseppe? Cosa dice a noi che spesso ci fermiamo a contemplare le macerie dei nostri sogni distrutti e che spesso ci fermiamo a prendercela con Dio, con noi stessi e con gli altri in una comprensibile ma a volte inutile autocommiserazione? Nel sogno di Dio ci stanno anche i nostri sogni. Sembra impossibile, sembra appunto un sogno... Forse per questo abbiamo a volte bisogno di ritrovare il sogno spirituale, che in altri termini si chiama preghiera.
È infatti nella preghiera che possiamo intuire come la nostra legittima aspirazione alla felicità non sia mai compromessa del tutto da quel che ci capita di negativo; come anzi dietro alle presunte sconfitte si possa nascondere qualcosa di più grande che ci chiama. Ecco perché di fronte alle nostre debolezze dobbiamo ricorrere alla potenza del Signore, occorre invocarlo umilmente, affinché nella Sua luce divina si sciolgano tutte le nostre incertezze, tutti i nostri dubbi. Anche l’imminente Natale richiede tutta la nostra fede, umile ed attenta: viviamolo così, fratelli e sorelle, questo Natale, coinvolti nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci vuole inerti, pusillanimi, rinunciatari, ma in continua tensione verso il compimento della Sua volontà: né più né meno di come è successo con Giuseppe. Amen.

venerdì 10 dicembre 2010

12 Dicembre 2010 – III Domenica di Avvento – “Gaudete”

Domanda delle domande: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»
Siamo ormai a metà del breve percorso che ci porta alla riscoperta del nostro Natale, quello autentico, quello personalissimo, intimo, perché – lo abbiamo già detto – possiamo celebrare cento natali senza che mai Dio nasca nei nostri cuori. Anche questa domenica, fratelli e sorelle, lasciamoci prendere, lasciamoci strappare dal turbinio della nostra quotidianità, per fare come Maria e dimorare nell'ascolto, per riconoscere i tanti profeti che stanno intorno a noi e ci indicano il Cristo.
Oggi, la Parola ci fa incontrare un Giovanni ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore della scorsa settimana: è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia di una stizzita e isterica cortigiana che manovra la debolezza di un re-fantoccio. Giovanni ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo e irritante solo per preparare la strada al Messia; e lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare; lo ha accolto, stupito e frastornato in cuor suo per l'atteggiamento nascosto e umile del Salvatore del mondo.
Ma ora è perplesso, Giovanni; è dubbioso. Le notizie che gli giungono dai suoi discepoli lo lasciano costernato: il Messia non sta seguendo le sue orme, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario e catastrofico, ma ha assunto un profilo basso, mediocre. Egli (ricordate?) minacciava la vendetta di Dio, il fuoco divorante. Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore.
È troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso.
Diverso dal Dio che vorremmo anche noi, che vorrei anch’io, perché Dio ci spiazza sempre, è sempre radicalmente diverso da come ce lo immaginiamo. Anche le persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiano di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta evidente, un irrompere nella storia con fragore assordante e schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, ci svela il volto di un Dio riservato, quasi nascosto: è evidente, sì, ma non banale, pieno di ogni tenerezza e sensibilità.
Anche noi, come Giovanni, siamo abituati a dividere il mondo in buoni e cattivi, i buoni (spesso noi!) da salvare e i cattivi da punire, per rimettere un po' in sesto il palese squilibrio di questo mondo, che premia gli arroganti e bastona i giusti.
Gesù invece ci spiazza, svelandoci che Dio divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no. E l'amore è una possibilità immensa, l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare nella fragilità di ciò che siamo o che vorremmo essere.
Siamo certi di Dio? Riprendiamo in mano il Vangelo e chiediamo nella preghiera, a Dio, di condurci nell'autenticità, sempre. Siamo pieni di dubbi? Anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi. «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…» replica Gesù ai discepoli del Battista, mandati per informarsi sulla sua identità; ovviamente, non da' una risposta esplicita. Devono trarla da soli. La fede non è evidente, Dio non è il risultato di un ragionamento scientifico, niente "prove" nella fede, con buona pace di quei scettici, simpaticoni, che pretendono di trovare l’anima nelle radiografie! Ci sono offerti indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, sono io che devo cambiare ed accorgermi. Gesù elenca i segni messianici profetizzati da Isaia e dice a suo cugino: “Guardati intorno, Giovanni”.
E anche noi, fratelli, guardiamoci intorno e riconosciamo i segni della presenza di Dio: quanti amici hanno incontrato Dio, gente disperata che ha convertito il proprio cuore, persone sfregiate dal dolore che hanno imparato a perdonare, fratelli accecati dall'invidia o dalla cupidigia che hanno messo le ali e ora sono diventati gioia e bene e amore quotidiano, crocifisso, donato! Guarda, Giovanni, guardiamo fratelli, i segni della vittoria silenziosa della venuta del Messia! Segni che certamente abbiamo avuto modo di vedere nel corso della nostra vita. Abbiamo sicuramente avuto modo di constatare, almeno una volta, la forza dirompente del Vangelo, di vedere persone vicine a noi cambiare, guarire, scoprire Dio; di vedere nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in inferni di solitudine ed egoismo. Si, fratelli anche noi abbiamo potuto constatare i tanti segni del Regno. Ma molti, troppi, ancora non li vedono, non se ne rendono conto, non li vogliono vedere, perché il problema principale del nostro tempo è proprio una miopia interiore che impedisce di godere della nascosta e sottile presenza di Dio.
Prepararsi al Natale significa, allora, convertire lo sguardo, far constatare ai tanti distratti, e ovviamente anche a noi stessi, che il Regno avanza, è presente, che tutti, noi per primi, possiamo renderlo presente. Impariamo tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dal nostro dolore per accorgerci della salvezza che si attua nelle nostre soffocate città.
In questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di speranza per i tanti (troppi, sempre di più) che a Natale si sentono soli, e lo sono davvero! Pochi giorni per dire a chi non sa se Dio c'è (e c’è, ed è amore!) e si chiede se anche il Nazareno, in fondo, non sia che un grande bidone: «Dio c'è, guarda come ha cambiato la mia vita, guarda come il dolore non mi ha sfiancato, guarda che bella la neve che cade, guarda come sorride, contento, tuo figlio, guarda quanto ti voglio bene...». Ecco, fratelli, questa sia la nostra prospettiva, in questo mondo che ha solo problemi irrisolti, ipotesi strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Come singoli credenti, e anche come Chiesa, dobbiamo domandarci continuamente se siamo la risposta vivente alle domande profonde e incalzanti di tante persone. Risposta, che si deve trasformare in offerta di solidarietà, atteggiamento di ascolto, annuncio di speranza... Amen.

giovedì 2 dicembre 2010

5 Dicembre 2010 - II Domenica di Avvento

"Convertitevi: il regno dei cieli è vicino!". Abbiamo messo in moto la preparazione al Natale 2010, e dobbiamo farla per essere presi, non lasciati. Presi dalla sconcertante notizia di un Dio che si fa uomo, di un Dio che rischia tutto diventando un bambino fragile e inerme. Molti pensano di essere cristiani semplicemente perché credono che il Signore Gesù sia entrato nella storia di questo mondo; ma non c'è bisogno di essere cristiani per crederlo! Siamo invece cristiani se desideriamo, nella semplicità e nella povertà del desiderio, che Cristo nasca nei nostri cuori. E Giovanni il folle, oggi, ci scuote con parole che schiaffeggiano, invece di accarezzare. Il Battista, con la sua vita, proclama il primato di Dio sulla Storia, richiama tutti ad uscire da una visione stereotipata e immobilista della fede, per incontrare l'inaudito di Dio.
Il Vangelo, svuotato della sua forza, mantiene il mondo così com’è. Ma Gesù è venuto per cambiarlo, e lo fa partendo dal cuore di ciascuno di noi. Il Salvatore non è un rivoluzionario politico o sociale. È venuto a trasformare la società non con la violenza o la lotta di classe, ma cambiando il cuore degli uomini. E questo cambiamento il Vangelo lo chiama "conversione".
E questo è il tema di oggi.
A noi capita spesso – quando ci mettiamo davanti alla televisione, vediamo il telegiornale, oppure quando apriamo un giornale e vi troviamo le solite notizie di guerre, violenze, rapine, furti, corruzioni, omicidi – di pensare: «il mondo va male perché ci sono in giro tanti ladri e briganti, disonesti, violenti, corrotti». Noi esprimiamo la nostra sincera indignazione quotidiana, considerandoci fuori da questa massa dannata di malviventi: «i ladri sono gli altri, i banditi sono gli altri, i mascalzoni sono gli altri. Io non ho mai fatto niente di male. Io sono un prete, sono un frate, sono una suora, appartengo già per questo ad uno stato di elezione, mi rapporto con Dio quotidianamente; sono un padre, una madre di famiglia, impegnati nel sociale e nel volontariato; sono un cristiano battezzato, vado in chiesa ed è naturale che in tutta onestà mi ritenga migliore degli altri!». “Razza di vipere” – tuona Giovanni. Non avete ancora capito? Non basta appartenere ad uno “status” superiore, non basta sentirsi migliori, non basta la conversione di un giorno, non basta un Natale carico di sentimenti: la conversione è una cosa seria, è l’impresa di una vita, una strada sempre in salita, un continuo e difficile cammino alla sequela vera e autentica di Cristo. Nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità.
Questa è la realtà; ed è per questo che tutti noi siamo chiamati ad essere altrettanti profeti!
Vi sembra una battuta? No, fratelli.
La nostra società, noi, abbiamo infatti urgente bisogno di profeti: persone dall'apparenza normale che, però, sanno muoversi in nome di Dio, sanno leggere il presente alla luce della fede. Abbiamo bisogno di profeti, non per predirci e interpretarci il futuro (di questo genere di ciarlatani ne abbiamo fin troppi!) ma per aiutarci a capire il presente, perché ci aiutino a discernere il nostro percorso di fede nella faticosa vita quotidiana! Abbiamo bisogno di uomini di Dio. Si, perché il Dio che il Battista annuncia, il Dio che aspettiamo, è il Dio che brucia dentro, che spazza via con forza i timori, un Dio forte e impetuoso! Un fuoco che divampa bruciando le lentezze, divorando ogni obiezione, ogni tenebra, ogni paura.
Ecco perché Giovanni ammonisce: non basta rifugiarsi dietro alla tradizione, al “fanno tutti così”, accontentarsi di una fede esteriore, di facciata, di una coscienza tiepida. Colui che viene chiede un reale cambiamento, una scelta di vita, uno schieramento deciso. Perché Dio – diventando uomo – separa la luce dalle tenebre, obbliga ad accoglierlo. O a rifiutarlo.
Per questo, fratelli e sorelle, siamo chiamati a diventare profeti. Non c'è bisogno di vestire pelli di cammello, tranquilli, ma di essere a nostra volta trasparenza di Dio; lasciare che il fuoco che Gesù è venuto ad accendere divampi nell'oscurità della nostra vita e dia luce a chi incontreremo in questa settimana. Niente crocifissi al collo o padrepii sui cruscotti della macchina: nulla di tutto questo, ma un'unica notizia, che è il cuore del Vangelo di oggi: "Accorgiti che il Regno si è fatto vicino". La nostra vita deve essere all'opposizione. Non tanto gridando e denunciando, quanto vivendo una vita alternativa a quella consumistica ed edonistica che vediamo quotidianamente intorno a noi.
Il che non è certo facile, diciamocelo! Semplice gridare contro il consumismo e i mali del nostro tempo; difficile liberarci dall'attaccamento ai beni di questa terra, rifiutare un modello e un miraggio di vita borghese che ci rende schiavi delle mode del mondo attuale.
Armiamoci di coraggio, dunque, e con la nostra testimonianza gridiamolo a tutti: Dio si è avvicinato, è incontrabile, conoscibile, presente, evidente. Imitiamo con forza il Signore Gesù, come chiede Paolo ai cristiani di Roma; rendiamo presente la profezia di Isaia (splendida!) che sogna un bambino che gioca con la vipera, e il leone e il capretto che giocano insieme... diamoci da fare, perché questo è quel tempo, il tempo di compiere gesti di pace e di solidarietà autentica.
Grazie Giovanni, che ci scuoti dalle nostre tiepidezze, che sbricioli le nostre fragili verità, le nostre assonnate parole, le nostre svuotate celebrazioni. Bene, non lasciamolo inascoltato, fratelli. Anche quest'anno abbiamo un tempo dedicato proprio per questo: già, perché questo è davvero il tempo di preparare la strada al Signore che viene; questo è davvero il tempo di schierarsi, di accogliere questo Dio sempre inatteso e sempre diverso. Amen.

venerdì 26 novembre 2010

28 Novembre 2010 - I Domenica di Avvento

«Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà».
É che Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci scorre addosso.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende.
E oggi inizia l'avvento: un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al primo grande appuntamento: il Natale.
Non amo particolarmente il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso. Anzi, detesto questo Natale. Detesto lo sgorbio che ne abbiamo fatto, la fiera insopportabile dei buoni sentimenti, l'ipocrisia del politicamente corretto che fa del Natale una festa di compleanno senza interessarci per nulla del festeggiato.
Io invece voglio prepararmi al Natale, ho necessità assoluta di costruirmi un'arca, e al diavolo quelli che sghignazzano vedendomi inchiodare le tavole e piallare remi in centro città. Ho bisogno di capire come posso trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Voglio poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono poche quattro settimane, lo so. Ma voglio provarci anche quest’anno.
Si, fratelli, perché possiamo celebrare cento natali, senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhöffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sa che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Da oggi iniziamo a leggere Matteo: il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca, ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione. Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave ridicola.
Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera.
A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli e sorelle. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. I più impegnati possono prendersi un’ora alla domenica per fare un’ora di silenzio e di preghiera, oppure fare una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza. Ci tocca pure combattere contro il finto natale della nostra società consumistica. Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta da un falso e solo apparente buonismo natalizio.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio che si fa presente e di una umanità completamente assente. Sotto questo profilo non c'è proprio nulla da festeggiare, da stare allegri: l’uomo non ha fatto certo una gran bella figura, la prima volta, in quel di Betlemme.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi. Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
In questi anni assistiamo puntualmente ad un Natale fatto di immagini stereotipate di una “famiglia” felice intorno ad un albero illuminato, armonie e canti di angeli che i media ci propinano senza sosta; mentre per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, il Natale così superficialmente ostentato, diventa occasione di amarezza, di solitudine, di sofferenza. Troppo spesso infatti il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene da noi sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo. Se i vecchi soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace. Esagero? Voglia Dio che sia così. Amen.

venerdì 19 novembre 2010

21 Novembre 2010 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Festa di Cristo Re dell'Universo

«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.

martedì 9 novembre 2010

14 Novembre 2010 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine»
L’anno liturgico che ormai volge al termine suscita in noi, attraverso la Parola del Signore, il desiderio di incontrare il suo Volto. Un volto che apparirà in tutto il suo splendore domenica prossima, quando lo celebreremo Re dell'universo, Signore del tempo e della storia.
Oggi le letture ci invitano a vivere il tempo come luogo di salvezza: anche se, ad una lettura superficiale, la Parola di questa domenica potrebbe incutere timore e alimentare in noi la paura di Dio, del suo giudizio, della sua condanna, in considerazione del fatto che vengono affrontate le problematiche della fine della vita dell'uomo e del mondo.
La Parola di Dio invece è sempre incoraggiamento, consolazione, forza, anche nelle situazioni più difficili, nelle sofferenze, nelle persecuzioni. Egli vuole renderci coscienti e responsabili per rinnovargli la fiducia, per lasciarci salvare da Lui.
Di fronte agli eventi drammatici del nostro tempo, siamo invitati a non temere, a crescere nella consapevolezza che solo Dio è il Signore della storia e solo lui ha in mano le redini del mondo. Siamo chiamati alla perseveranza, a non desistere dal credere, sempre e comunque, nella fedeltà del Signore, certi che "chi persevererà sarà salvato" e che ci verrà finalmente donato la pienezza della vita.
È vero che la nostra ineliminabile aspirazione alla felicità viene continuamente frustrata dalla consapevolezza che l'umanità è diretta verso un'esistenza sempre più faticosa e problematica. Forse per questo ci lasciamo andare a falsi profeti che propongono mete artificiali per dimenticare la realtà del tempo che passa, per scacciare la paura della fine che avanza; mete che assicurano la felicità nella ricchezza effimera, nel benessere, mete che promettono una vita priva di intoppi e di difficoltà, in un corpo perennemente giovanile, affascinante e perfetto grazie agli ultimi ritrovati della scienza estetica. Ma questa distorsione della realtà, rifiutata nella sua drammaticità e nella sua caducità, diventerà inesorabilmente ulteriore motivo di paura e di ansia. Assistiamo sempre più ad un pessimismo che striscia nelle nostre strade e s'incunea in molti cuori, corrosi da una disperazione che si maschera di indifferenza, o si nasconde nella ricerca di soddisfazioni che appaghino questo desiderio di vivere e di vivere felici.
Al contrario l'atteggiamento giusto è quello di quanti aspettano con gioiosa serenità il giorno della venuta gloriosa di Cristo: di coloro che si disinteressano del mondo, considerandosi estranei a un'umanità che, pur redenta, rifiuta la mano tesa di Gesù.
Il forte richiamo di Paolo ai Tessalonicesi – che nell'attesa della fine del mondo "vivevano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione" – insegna che dobbiamo vivere il frammento di tempo che ci è concesso, con impegno, nell'amore per i fratelli, svolgendo bene quei compiti che Dio ci ha affidato. Perché, fratelli, noi ci salviamo soltanto insieme agli altri, attraverso gli altri. La salvezza passa per l'amore di Dio che trabocca sui nostri fratelli, dei quali bisogna guadagnare il maggior numero a Cristo.
Perché se è Gesù Cristo che ha redento il mondo, oggi lui opera nel mondo attraverso noi cristiani, membra del suo corpo, la Chiesa. Se amiamo in questo modo il mondo, già solo per questo in qualche modo lo stiamo cambiando; c'è infatti un primo frammento di mondo che cambia, ed è il nostro cuore.
Dobbiamo allora avere fiducia in Lui, in Gesù. Egli non vuole spaventarci inutilmente. Vuole che ritorniamo alla fede in modo puro e vero, perché Fede è fidarsi ciecamente del Dio artefice della storia umana che è anche il Dio della mia storia personale.
A salvare il mondo non saranno né gli scudi stellari e nemmeno tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza. A salvare la mia vita non saranno i soldi o i successi che saprò accumulare.
La mia salvezza viene da Dio che mi conosce fino in fondo. Il mio atteggiamento deve esser quello dell'impegno coraggioso nel dargli testimonianza. Ciò significa avere il coraggio di affrontare la vita, di seguire la sua chiamata, anche se non sono perfetto, se non sono "angelico". Significa impegnarmi perché coloro che ho attorno non cadano nella paura e nella rassegnazione, ma riprendano forza dal mio esempio. E in questo impegno d'amore, testimonio Dio che so che non lascerà perire nemmeno un capello del mio capo... anche quando sembra che siano già caduti tutti!
Dobbiamo dirlo, dobbiamo testimoniarlo, perché in giro, fratelli, c’è tanta paura, tanta incertezza per il futuro. Le notizie e le ipotesi sul domani del genere umano e sulla vita futura di questa nostra terra, si concentrano tutte in una direzione negativa, rendendo attualissime e temibili le parole di Gesù, quando afferma che guerre, rivoluzioni, terremoti, fatti terrificanti, carestie e pestilenze precederanno la fine del mondo. L'azione dell'uomo sembra addirittura impedire che la natura mantenga un equilibrio e salvi se stessa, al punto che la terra – la casa che Dio ha affidato all'umanità perché la abitasse e la custodisse – sta diventando lo scenario desolante di odi ed egoismi che si combattono e si distruggono a vicenda.
“No – dice Gesù; – state sereni. Non sono questi i segni della fine. Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già io ho dovuto confrontarmi con questa follia, in un mondo – il mio – ben più aggressivo del vostro”.
E, sorridendo, continua: “cambia il tuo sguardo. Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona; al Regno che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato”.
“Guarda a te stesso, fratello mio – aggiungo io – a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere occasione per tutti noi di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il nostro sguardo diventa più luminoso: diventiamo testimoni di Dio, e quando il mondo ci giudica, allora diventiamo santi davvero! Così, senza che ce ne accorgiamo, fratelli e sorelle, ci scopriremo veri credenti! Se il mondo ci critica, se ci attacca e ci disprezza, non mettiamoci sulle difensive, non cadiamo nella trappola, non ragioniamo con la sua logica: ma affidiamoci in tutto allo Spirito.
Si, fratelli: perché quando il mondo parla o sparla troppo della Chiesa (uno sport molto seguito in questi tempi), è allora che la Chiesa deve parlare ancor più di Cristo! Amen.

mercoledì 3 novembre 2010

7 Novembre 2010 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario

"Dio non è dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui".
Quest'affermazione perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare un ultimo tema sul discepolato.
L'occasione è una discussione (benedette discussioni!) di Gesù con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosè. Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un figlio alla cognata vedova!) pongono a Gesù un caso paradossale (la famosa storia della vedova "ammazzamariti"!).
Gesù come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta di fatto oltre la morte le ansie e le attese di questa vita terrena. È una nuova dimensione quella che Gesù propone, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), ma che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), una visione che ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
E qui val la pena riprendere la lapidaria affermazione iniziale di Gesù: “Dio è Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”.
Giunti ormai alla fine di questo anno di riflessione sul discepolato, guidati dal Vangelo di Luca, non possiamo evitare di porci una duplice domanda: noi, crediamo veramente nel Dio dei vivi? E noi, siamo veramente vivi?
Capirlo è abbastanza semplice, fratelli: crediamo nel Dio dei vivi se per noi la fede è ricerca, non stanca abitudine; doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere; slancio e preghiera, non rito e superstizione. Dio è vivo in noi, se ci lasciamo incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, per cui, dopo il suo incontro, nulla è più come prima. Crediamo in un Dio vivo se accogliamo la Parola (viva!) che ci sconquassa, ci interroga, ci dona risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci parlano (bene) di lui, quanti - per lui - amano.
Nel mare infinito di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di crudeli vendette, di ogni genere di violenze, in cui quotidianamente i media ci sommergono, è veramente emozionante vedere riproposte ogni tanto delle storie fatte di luce: la Chiesa che aiuta gli alluvionati e sinistrati di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri con i barboni, suore che si consumano per i derelitti, missionari che promuovono dignità per le donne, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla schiavitù maschile. Ecco: un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Siamo vivi (io lo sono?) se abbiamo imparato ad andare fermi dietro a Lui; se non ci lasciamo ingannare dalle sirene che ci promettono ogni felicità se possediamo, se appaiamo, se recitiamo, produciamo, guadagniamo, seduciamo etc.; se sappiamo perdonare, se sappiamo cercare, se abbiamo capito che questa vita ha un valore da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della nostra storia.
Questa deve essere la nostra convinzione, fratelli, questa deve essere la nostra Fede: una fede che diventa possibilità di produrre bontà, che diventa vita nuova per gli altri. Diversamente non è vita, e noi non vivremmo! Per essere Suoi dinamici discepoli, dobbiamo andare a fondo, nonostante la fatica, nonostante le paure, nonostante l'incertezza nel trovare il nostro ruolo, nonostante la scoperta di tante nostre debolezze; ma con la certezza che Lui abbraccerà, con noi, anche tutte le nostre miserie e incongruenze. Quindi, fratelli e sorelle, proviamoci! Diventiamo anche noi discepoli vivi di un Dio vivo, perché solo così potremo già da oggi, vivere realmente da vivi. Amen.

martedì 26 ottobre 2010

31 Ottobre 2010 - XXXI Domenica del Tempo Ordinario

È difficile parlare oggi di peccato, difficile e anche imbarazzante. È un argomento “out”, fuori di moda, inusuale. Ci troviamo a dover fare i conti con due mentalità di fondo, diametralmente opposte; conseguenza rispettivamente di una cultura religiosa intransigente l’una, lassista e permissiva l’altra.
Da una parte proveniamo infatti da un passato che aveva bene in mente cosa era peccato, fin troppo. Al punto che la legge di Dio si era lentamente compenetrata con quella degli uomini, facendo perdere di vista l'essenziale, cioè la bontà e la misericordia di Dio, ed enfatizzando unicamente il suo ruolo di giudice, severo e inflessibile. Molte delle persone che hanno vissuto tutta la loro vita attente a non peccare, lo hanno fatto con la convinzione che bastasse non infrangere materialmente le prescrizioni di Dio e della Chiesa, indipendentemente dalle disposizioni interiori, dalla carità e dall’amore; in una società ipercritica e severa, obbedivano più ad un codice comportamentale che al Vangelo, che è invece compendio di amicizia e di amore divino.
Dall’altra parte, viviamo in un presente in cui si è abolito per legge il peccato: la morale comune è stata ridotta ai minimi termini; cosa è giusto e cosa è sbagliato lo decide la maggioranza, il potere, la pubblicità, i media; la coscienza, se esiste ancora, deve necessariamente adeguarsi. Siamo severi ed intransigenti con gli altri, morbidi e comprensivi con noi stessi e con le nostre incoerenze. Insomma, un bel guaio. Ma, fratelli, consoliamoci: c'è anche di peggio.
E il peggio è il nostro “dentro”, l'inconscio, la nostra anima, la parte più profonda di noi, quella che conosciamo solo noi. Quel luogo personalissimo dove riusciamo finalmente a percepire cosa realmente gli altri si aspettano da noi, e riusciamo a capire nettamente cosa è giusto fare e cosa no. E il peggio è questo: perché anche qui, alcuni di noi riescono con grande facilità a farsi una crosta di indifferenza alta tre dita, appiattendo tutto e tutti. Altri invece, più deboli, vivono pieni di paure e sensi di colpa. E in tutta questa incoerenza, pur in questo posto privilegiato, è difficile che Dio riesca a dire qualcosa; difficile che venga a crearsi quella sottile armonia che ci avvicina a Dio, prendendo coscienza dei nostri limiti; difficile riconoscere e superare i sensi di colpa, faticoso mettere in minoranza la parte oscura e negativa di ciascuno di noi. Ma anche questa volta non dobbiamo disperare. La Parola, come sempre, ci viene in aiuto.
Dio non ama il peccato, non lo conosce neppure, non lo concepisce.
Il peccato è il non-io, il non-Adamo, la parte tenebrosa che finisce col prevalere, il piccolo orco che nasce insieme a noi e che ci tiene compagnia per tutta la vita. In ebraico la parola "peccato" significa "fallire il bersaglio", come capita all'arciere inesperto. Così come purtroppo capita a tutti: ma a noi, no! Noi tutti, pronti a dire che il bersaglio è troppo lontano, che l'arco è allentato, che qualcuno ci ha distratto. Classiche scuse di chi ha un cuore piccino!
Dio, invece, ci considera adulti e ci tratta come tali: ed ha tanta pazienza; ama senza limiti.
Scordiamoci l'idea infelice e demoniaca di un Dio severo, assetato di sangue, che giudica duramente le sue creature: egli le ama invece: e sopporta il loro peccato, come dice la splendida prima lettura, perché pensa che tutti ce la possono fare. Noi ci ostiniamo ad essere dei polli; Dio invece vede in noi dei potenziali falchi che possono volare alto. Noi ci ostiniamo ad essere fotocopie di assurdi modelli, mentre Dio vede in noi il capolavoro unico che siamo. Noi nascondiamo i nostri difetti agli altri: Dio invece vede solo i pregi che egli ha creato in noi.
Insomma, una meraviglia, uno stupore. È tutto talmente splendido che anche il peccato perde la sua connotazione deprimente.
Pensiamo che questo sia troppo? No, fratelli! Chiediamolo a Zaccheo!
Zaccheo era un manager arrivato: aveva fatto soldi a palate con la riscossione delle tasse per conto dell'invasore romano. Un usuraio, diremmo oggi, un furbo senza scrupoli come i caimani della finanza di oggi, per i quali conta solo il profitto personale; tutto il resto è relativo.
Un tizio sì rispettato, Zaccheo, ma temuto e odiato dai suoi concittadini: un suo gesto, e i soldati romani intervenivano. Uno che pur avendo tutto, era rimasto completamente solo. La ricchezza e il potere sono molto avari di amici veri e di gratuità.
Zaccheo dunque ha sentito parlare del Galileo, quel tale Nazareno che la gente crede un guaritore, un profeta e, curioso, lo vuole vedere senza farsi vedere. E accade l'inatteso: Gesù lo stana, lo vede, gli sorride: scendi, Zaccheo, scendi subito, vengo da te. Zaccheo è interdetto: “Come fa a conoscere il mio nome? Cosa vuole da me? Forse mi ha confuso con qualcun altro?” Non importa, Zaccheo scende, di corsa. Gesù non giudica, né teme il giudizio dei benpensanti di ieri e di oggi: va a casa sua, si ferma, porta salvezza. Zaccheo è confuso, turbato, vinto: in dieci minuti la sua vita è cambiata, il famoso Jeshua bar Joseph è venuto a casa sua. Si sente ribaltato come un calzino. Gesù cercava proprio lui, non si è sbagliato di persona. Voleva proprio lui, non c'è dubbio. Gesù non ha posto condizioni, è venuto a casa di un peccatore incallito.
Zaccheo a questo punto fa una solenne promessa che lo porterà alla rovina (leggiamo bene: restituisce quattro volte ciò che ha rubato!); ma che importa? Ora lui si sente salvo. Non più lui solo sazio, solo temuto, solo potente, inutilmente. No, finalmente salvo, finalmente discepolo. Lui, temuto ed odiato, ora è discepolo.
Meditiamo dunque, fratelli e sorelle: è Dio che ci cerca, è lui che prende l'iniziativa. Dio ci ama, senza giudicarci. Cerchiamo colui che ci cerca. La nostra vita cessi di essere una specie di rimpiattino, lasciamoci raggiungere, finalmente! Gesù non giudica Zaccheo, lo aspetta.
L'amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama per il fatto che siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni. Gesù non chiede: dona, senza condizioni.
Se Gesù avesse detto: "Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci ciò che hai rubato quattro volte tanto, vengo a casa tua", credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull'albero!
No: Dio precede la nostra conversione, la suscita, ci perdona prima del pentimento, e il suo perdono ci converte: è talmente inaudita e inattesa la salvezza, che ci porta necessariamente a convertirci.
Questo è tutto, fratelli, amici, discepoli. Chi vuole seguire Gesù si faccia dunque avanti, scenda dall'albero, si schieri. Non importa chi sei tu veramente, né quanta strada hai fatto o che errori porti nel cuore. Non importa se scruti il passaggio del Maestro per semplice curiosità.
Non importa nulla; perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, lui vuole entrare nella tua casa. Amen!

mercoledì 20 ottobre 2010

24 Ottobre 2010 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Perseverare in una vita di fede, in tempi così problematici come quelli odierni, richiede una costanza e una determinazione fuori dal comune. I ritmi della vita, le continue spinte che ci allontanano dalla visione evangelica, un certo sottile scoraggiamento, ci impediscono, realisticamente, di vivere con serenità il nostro discepolato.
Domenica scorsa abbiamo visto che la preghiera è una questione di fede: credere che il Dio che invochiamo non è una specie di sommo organizzatore dell'universo: un faccendiere che, opportunamente lusingato, potrebbe anche concederci ciò che chiediamo. Dio non è un potente da blandire, un giudice corrotto da convincere, non è un politico da cui farsi raccomandare, ma un padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno. Se la nostra preghiera fa cilecca, sembrava suggerirci Gesù, è perché manca l'insistenza. O manca la fede.
Oggi, con la parabola del pubblicano e del fariseo – cruda fotografia di una mentalità piuttosto comune – ci viene suggerita un'altra pista di riflessione.
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…»
I farisei erano devoti alla legge, cercavano di contrastare il generale rilassamento del popolo di Israele, osservando con scrupolo ogni piccolissima direttiva della legge di Dio. L'elenco che il fariseo fa', di fronte a Dio, è corretto: per puro zelo il fariseo paga la decima parte dei suoi introiti, non soltanto, come tutti, dello stipendio, ma finanche delle cose più piccole ed insignificanti che entrano in suo possesso!
Qual è, allora il problema del fariseo? Semplice, dice Gesù, è talmente pieno della sua nuova e scintillante identità spirituale, talmente consapevole della sua bravura, talmente riempito del suo ego (quello spirituale, il più difficile da superare), che Dio non sa proprio dove mettersi.
Peggio: invece di confrontarsi con il progetto (splendido) che Dio ha su ciascuno di noi (e su di lui), si confronta con chi è peggiore, come con quel pubblicano, lì in fondo, che – lui ne è certo! – non dovrebbe neanche permettersi di entrare in chiesa!
Questo è il nocciolo della questione: succede che ci mettiamo – a volte anche sul serio! – alla ricerca di Dio. Desideriamo profondamente conoscerlo, diventare discepoli, ma non riusciamo a creare uno spazio interiore sufficiente perché egli possa manifestarsi. Abbiamo la testa e il cuore ingombri di preoccupazioni, di desideri, di pensieri, di confronti da fare – a volte anche stupidi – e concretamente non riusciamo a fargli spazio. Oppure accade che, dopo un'esperienza fulminante, che so, un ritiro, un pellegrinaggio, sentiamo forte la sua presenza, ma, una volta tornati a casa, la nostra testa viene riempita dalle preoccupazioni del quotidiano, del come vivere in questo mondo.
Non è solo il problema dell'orgoglio. E' proprio una complicazione dell'esistere, una vita che non riesce ad uscir fuori dal buco nero in cui si è infilata. Una vita che, con tutto il nostro daffare, si dimentica di Dio. Giornate intere in cui tutto ci assilla, meno che il bisogno di fermarci un istante e rivolgere a Lui una preghiera. Tutto è troppo importante!
Che fare allora? A dirlo è semplice: ma dobbiamo necessariamente ritagliare nella nostra giornata qualche minuto di assoluto “relax”, di vuoto mentale, per entrare dentro di noi (ricordate? “introire secum”), nel nostro cuore, nel silenzio della nostra anima: perché è questo il luogo più semplice in cui raggiungere Dio, per stare un po’ con Lui.
Purtroppo fratelli e sorelle, noi moderni cristiani – come già il fariseo – non abbiamo spazio per l'interiorità; questo è il nostro grave problema!
Il pubblicano della parabola, invece, di spazio ne ha tanto.
Il denaro che ha guadagnato con disonestà, l'odio dei suoi concittadini (è un collaborazionista!), l'amara impressione di avere fallito tutte le sue scelte, creano un vuoto dentro di lui, un vuoto che Dio saprà riempire. Consapevole dei suoi limiti, li affida al Signore, chiede con verità e dolore, che Dio lo perdoni. E così accade.
Ecco, fratelli, questo è il monito del Vangelo di oggi: dobbiamo lasciare un po' di spazio al Signore, non dobbiamo vivere di presunzione, di pretese; non sprechiamo il nostro tempo ad elencare le nostre virtù e i nostri meriti.
Siamo tutti nudi di fronte a Dio, tutti mendicanti, tutti peccatori. Ci è impossibile giudicare, se non a partire dal limite, se non da quell'ultimo posto che il Figlio di Dio ha voluto abitare.
Ancora una volta, il Signore chiede a ciascuno di noi l'autenticità, la capacità di presentarci di fronte a lui senza ruoli, senza maschere, senza paranoie.
Dio non ha bisogno di bravi ragazzi che si presentano da lui per avere una pacca consolatoria sulle spalle, ma di figli che amano stare col padre, nell'assoluta e (a volte) drammatica autenticità.
Questa, e questa sola, fratelli, è la condizione per ottenere, come il pubblicano, la nostra conversione del cuore. Amen.

mercoledì 13 ottobre 2010

17 Ottobre 2010 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Il messaggio della Parola di oggi è abbastanza evidente: non bisogna stancarsi mai di pregare.
Personalmente amo la preghiera e sento di averne un gran bisogno, come tutti del resto. Sento anche che, dalla preghiera, posso trarre una forza straordinaria che mi aiuta a superare le mille difficoltà della vita. Purtroppo però, mi riesce difficile concentrarmi, mi rendo conto di pregare male, mi distraggo troppo. Conosco e frequento fin da ragazzo una osservante comunità di monaci benedettini, con alcuni dei quali sono in grande confidenza (sono stati miei compagni di gioventù); bene: loro che pregano sei, otto ore ogni giorno, mi hanno confidato che anche per loro è difficile pregare. Già in tempi non sospetti, infatti, quando il mondo era meno alienante di quello attuale, san Benedetto raccomandava nella sua Regola: “Mens tua concordet voci tuae – La tua mente sia collegata con la tua voce”. In altre parole, “fate sempre attenzione a quel che dite”. Una cosa facile all’apparenza, ma difficilissima nella pratica, soprattutto quando la formula è ripetitiva come per esempio nel salmodiare o nelle Ave Maria del Rosario.
Pertanto, se per noi pregare bene è difficile, convincere gli altri a farlo è pressoché impossibile. Come è altrettanto impossibile – cosa straordinaria e consolante – far smettere di pregare chi, pregando, ha scoperto il vero volto di Dio.
Del resto la preghiera è un'esperienza unica, intima e personalissima: impossibile farne una "scienza" per imporla agli altri. I libri che insegnano a pregare servono soltanto a chi li ha scritti!
La preghiera è il santuario in cui scopriamo il vero volto di Dio, il luogo dove l'anima si incontra con la nostra vita incoerente e sconclusionata.
Abbiamo pregato tantissime volte nella nostra vita; è vero: e forse Dio non ci ha mai dato ciò che chiedevamo. Però, sicuramente, ci ha dato tutto ciò che il nostro cuore desiderava, senza saperlo.
"Bussate e vi sarà aperto", dice il maestro. E di porte se ne sono aperte tante, ma forse non proprio quelle che volevamo noi, bussando!
Sicuramente, la porta dell'interiorità, del vero volto di Dio, della scoperta del nostro intimo e delle nostre reali necessità, riusciamo ad aprirla solo se insistiamo, se non ci scoraggiamo, se accettiamo a volte anche di sentirci stanchi, sfiduciati; se ci sediamo sconfortati, lasciando addirittura che qualcun altro ci sorregga le braccia tese verso l'alto, come Mosè nella prima lettura (splendida immagine di Chiesa, vero?)
Troppo spesso inoltre non riusciamo a percepire il volto dolce del Padre.
Per questo dobbiamo essere insistenti, fratelli. Dobbiamo essere di testa dura. E quand'anche percepissimo Dio come un giudice incomprensibile – “disonesto” dice il Vangelo – un giudice che non interviene nella vita dei deboli, che ci assilla con regole incomprensibili, che immaginiamo insensibile alle nostre scelte e alle nostre tragedie, quand'anche Dio fosse quel "mostro" che il nostro inconscio ottenebrato dipinge, nel quale certi cristiani purtroppo si ostinano a credere, bene: anche allora siamo chiamati a insistere.
Insistere non per convincere Dio, ma per convertire il nostro cuore.
Insistere per purificare il nostro cuore e scoprire che Dio non è un giudice, né giusto né ingiusto, ma un padre, un padre tenerissimo.
Insistere non per cambiare radicalmente le cose, neppure per cambiare noi stessi, ma per vedere nel mondo il cuore di Dio che pulsa.
Insistere nella battaglia che, quotidianamente, dobbiamo affrontare, come Mosè che pregava per vincere.
Insistere sempre, dunque. Con tanta fede. Con una fede incrollabile.
A proposito, come stiamo a fede? Gesù pone una domanda tremenda: "Quando tornerò, troverò ancora la fede sulla terra?". Una domanda che dovrebbe farci riflettere seriamente, farci venire il batticuore.
Si, perché anche se Gesù è venuto, splendore del Padre, e ci ha detto e dato Dio, perché egli stesso è Dio. Anche se ha convinto il mondo, riempiendolo di Spirito, purtroppo – riguardo a Dio – il mondo, la Chiesa e noi, rischiamo continuamente di scordarci il Suo volto, per sostituirlo con quello approssimativo delle nostre abitudini e del nostro egoismo.
In uno slancio di follia Gesù ha affidato il Regno alla Chiesa, a questa Chiesa, alla mia Chiesa, a noi battezzati, perché diventassimo testimoni del Padre: a questa Chiesa debole, fatta di uomini deboli, anche se trasfigurati dallo Spirito. Per questo noi una cosa siamo chiamati a fare, seriamente, convintamente: pregare con fede, chiedere con estrema fiducia. E avere fede. Tanta fede.
Gesù tornerà, lo sappiamo, nella pienezza dei tempi, quando ogni uomo avrà sentito annunciare il Vangelo di Cristo. Verrà per completare il nostro lavoro: a meno che il lavoro non sia fermo, paralizzato dall'incompetenza delle maestranze, dalla polemica dei ricorsi, dall'egoismo del particolarismo, dal litigio degli operai.
Ci sarà ancora fede?, si chiede Gesù. Non dice: "Ci sarà ancora un'organizzazione ecclesiale? Una vita etica derivante dal cristianesimo? Delle belle e buone opere sociali? Delle solerti organizzazioni ecclesiali?" Non chiede: "La gente andrà a Messa, i cristiani saranno ancora visibili, professeranno ancora i valori del vangelo?". No di sicuro, fratelli e sorelle. È la fede che chiede il Signore. Non l'efficienza, non l'organizzazione, non la coerenza, non la struttura.
Tutte cose essenziali, è vero. Ma solo se portano e coltivano la fede. Inutili e pericolose, se autoreferenziali, se autocelebrative. Altrimenti rischiamo di confondere i piani, di lasciare che le cose penultime e terzultime prendano il posto delle “cose ultime”.
Accettiamo allora, fratelli e sorelle, il sano rimprovero di Gesù oggi, il suo sano realismo, la sua sconcertante provocazione. Conserviamo la fede nelle avversità, non demordiamo, non molliamo; ma continuiamo con costanza la disarmata e disarmante battaglia del Regno. Amen.

martedì 5 ottobre 2010

10 Ottobre 2010 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Gesù sta salendo verso Gerusalemme col volto “indurito”, deciso cioè di rendere testimonianza al Padre, costi quel che costi. Non lo sanno, gli apostoli, che il Rabbì già vede il fallimento della sua missione e che questa sensazione non fa che motivarlo e spingerlo al dono totale di sé.
Sulla strada gli si fanno incontro dieci lebbrosi che urlano a distanza. La lebbra è una malattia terribile e devastante, che fa marcire il corpo, lo spirito e le relazioni.
Dei dieci uno è straniero, nemico, un samaritano. Ma la malattia e il dolore accomunano tutti gli uomini, senza distinzioni di religione o di etnia. Urlano il loro dolore, il loro abbandono, il loro lento ed inesorabile imputridire.
Gesù chiede loro di andare dai sacerdoti per essere guariti.
È vero: a volte Gesù ci chiede di andare proprio da un prete per poter guarire.
È una tradizione che rimanda all'antico Israele, quando il sacerdote fungeva anche da medico ufficiale: solo lui infatti poteva attestare la guarigione e il reinserimento nella comunità di un lebbroso.
Questa richiesta, da parte di Gesù, indica il suo profondo rispetto per il passato di Israele; egli non è venuto a cambiare un iota o un segno, ma a dare compimento, a riportare alla propria origine il progetto di Dio. Di più: la guarigione non è istantanea, richiede un cammino, un fidarsi; Dio non ama i miracoli eclatanti, chiede sempre consapevolezza, cammino, fiducia, mediazione.
I dieci vanno dunque e, mentre camminano, si accorgono di essere guariti.
Anche a molti di noi accade di guarire per strada, quando la smettiamo di porre condizioni a Dio e a noi stessi. Stupiti, frastornati, sconvolti, i lebbrosi guariti obbediscono all’invito di Gesù e vanno dal sacerdote. Eccetto uno, il samaritano, colui che non ha un Tempio, che non ha sacerdoti, non ha una religione ufficiale. Non sa dove andare, e torna sui suoi passi. Uno solo torna a ringraziare, pieno di fede.
Gesù, sconfortato, constata che dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato.
Una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell'umana fragilità!): nove vanno al Tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un tempio in cui essere accolto, corre dal tempio della gloria di Dio che è Gesù. Il samaritano torna indietro lodando Dio a gran voce, non può tacere, urla la sua gioia: la sua solitudine e la sua emarginazione sono finalmente finiti.
E gli altri? Chiede Gesù. Nulla, spariti, scomparsi.
Guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli dalle loro malattie.
La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all'uomo; eppure spesso, nella nostra vita, vengono manifestati troppo poco o nulla. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance.
Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; è normale nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare... Sono cose che diamo per scontate, dovute: il nostro sguardo, abituato ad esse, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come sarebbe bello incontrare la domenica uscendo dalla chiesa - almeno ogni tanto! - qualcuno che torna a casa sua felice, lodando Dio... Come sarebbe bello vedere più sorrisi sulle labbra dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio.
Si, fratelli e sorelle: noi che siamo gli incontentabili discepoli del Signore, dobbiamo stare molto attenti a non cadere nell’ingratitudine. Oltretutto essere guariti non significa essere automaticamente salvati.
I nove ingrati sono la perfetta icona del nostro cristianesimo, molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore da invocare nei momenti di difficoltà. Che triste immagine di Dio si costruiscono coloro che ricorrono a Lui "quando c'è bisogno"; che lasciano Dio lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tirarlo in ballo quando qualcosa va storto nei loro progetti (sottolineo nei “loro”, non in quelli di Dio!).
Anche i nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano, ma non sono salvati. Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non riescono a vedere la lebbra che hanno nel cuore. Il Dio che hanno invocato è il Dio dei rimedi impossibili, non il Tempio in cui abitare; è il Potente da corrompere e convincere, non il Dio che, nella guarigione, testimonia che è arrivato il tempo messianico.
Che triste idea di Dio hanno questi lebbrosi! Una visione della fede superstiziosa e magica, che accusa Dio delle nostre malattie, che mette Dio alla sbarra, accusandolo.
La malattia e la morte ricordano al nostro mondo contemporaneo, perso nel delirio di onnipotenza, che siamo creature fragili, che viviamo la nostra vita come un soffio, che il nostro corpo è mortale.
Scontrarsi allora con queste dure realtà, ci deve aprire, paradossalmente, la porta attraverso cui entrare nel nostro mondo interiore. Davanti alla sofferenza, come i due ladroni sulla croce, possiamo bestemmiare Dio accusandolo di indifferenza, o accorgerci che sta morendo accanto a noi; precipitare nella disperazione, o cadere in ginocchio ai piedi della croce.
E concludo: nella nostra vita è sufficiente avere la salute? Certo, la salute è un bene prezioso, e va conservata con uno stile di vita adeguato, senza dimenticare peraltro che la pace del cuore di chi incontra Dio e scopre il proprio progetto di vita, concorre senz’altro al raggiungimento di un fondamentale benessere psicofisico. Tutti sappiamo però che la salute non ci basta; abbiamo soprattutto bisogno della felicità.
Bene: Gesù oggi ci dice appunto che la salute non è tutto; più della salute c'è la salvezza: e la vera felicità sta proprio nell'aprire il nostro cuore alla gratitudine verso un Dio che ci guarisce – nel profondo – da ogni solitudine, da ogni dolore, da ogni angoscia esistenziale.
Ecco: raggiungere questa felicità, fratelli e sorelle, dipende esclusivamente da noi.
Non perdiamo tempo prezioso. Amen.

mercoledì 29 settembre 2010

3 Ottobre 2010 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Fede, fiducia, fidarsi, affidarsi: sono termini che costituiscono il filo conduttore della Parola di oggi.
Ci viene presentato un Abacuc in preda allo sconforto: come non capirlo? Il popolo di Israele – piccolo e ostinato – per sopravvivere, deve continuamente lottare contro giganti: egiziani e assiri prima, babilonesi poi...; tutta la sua storia è un susseguirsi di invasioni, colpi di stato, tragedie e ingiustizie. Ora, ai confini di Israele premono i Caldei. Il profeta, esasperato, rivolge la propria preghiera a Dio: ha un bel difenderlo davanti al popolo, ma come si fa a suscitare la fede in un popolo esasperato? Dio però risponde invitando entrambi, Abacuc e Israele, alla fede, a conservare la fiducia, a fidarsi di Lui. Egli promette di stringere tra le proprie braccia e con immenso affetto – come è successo domenica scorsa con Lazzaro – il giusto che vive a causa della fede.
Del resto vi sono sempre, ieri e oggi, profeti che si scontrano continuamente contro la stessa preoccupazione: dov'è Dio quando l'uomo si scatena con la sua violenza? Quando nel mondo prevale la tenebra? Quando il giusto è irriso e disprezzato?
La Parola di oggi ci risponde emblematicamente: solo con una fede incrollabile l'uomo può sempre osare. Abacuc è invitato a fidarsi, Timoteo riceve una commovente lettera da Paolo prigioniero ed è invitato a fare memoria della propria vocazione episcopale; gli apostoli, dopo un primo galvanizzante momento di euforia per i successi conseguiti dal Nazareno, cominciano a scontrarsi con i loro limiti e con le ostilità di alcuni farisei, e sentono la fiammella (timida) del loro credere vacillare lentamente.
Fidatevi, dice la Parola: fidati, affidati, diffida delle tue presunte certezze. La fede è il ragionevole abbandonarsi nelle braccia dell'amato, nel gesto incosciente e ovvio del bambino che si getta fra le braccia del padre.
Non siamo chiamati a fidarci di un mistero impenetrabile e astruso, a credere ciecamente agli ordini di una divinità, ad abbassare la testa alla volontà ostica e incomprensibile di una "moloch" a cui dobbiamo credere, costi quel che costi.
È il Dio di Israele che chiede fiducia: il Dio che ha camminato nel deserto e sofferto; il Dio che ha accompagnato e illuminato una tribù di beduini facendola diventare popolo della speranza; il Dio che ha illuminato i re di Israele, il Dio che ha strappato degli uomini dal pascolo e dalla terra, consacrandoli profeti; il Dio che – esausto – è diventato uomo (fragilità, stanchezza, sudore, decisione, rischio) per raccontarsi; è questo Dio che chiede fiducia, non uno qualsiasi.
Il Dio che ha dimostrato milioni di volte quanto dolorosamente ama.
È in Lui che dobbiamo avere fiducia. Fiducia nel Nazareno rivelatore del padre, figlio del Dio benedetto che ha sconvolto la vita dei suoi discepoli svelando il volto del Padre morendo sulla croce.
“Fidatevi almeno quanto un granellino di senapa”, dice il Maestro.
Abacuc non lo sa, ma l'ennesimo scontro con una cultura straniera obbligherà Israele a riscoprire le proprie radici e diventare (tornare ad essere?) segno nel mondo.
Paolo non lo sa, ma le sue parole doloranti e aspre saranno prese dallo Spirito Santo e riempite di Dio, per consentire a noi, oggi, di poter leggere la Parola di Dio proprio attraverso le labbra screpolate di Paolo, lo scoraggiato e irrequieto apostolo.
Pietro e Giovanni e gli altri non lo sanno, ma la loro fede, più piccola di un granellino di senapa, crescerà e diventerà un immenso albero alla cui ombra ci riposiamo noi, impauriti discepoli del terzo millennio...
Purtroppo viviamo tempi difficili (ma sono forse mai esistiti tempi "facili"?); a volte noi credenti abbiamo l'impressione di essere messi all'angolo, di essere attaccati nell'essenza stessa della nostra fede.
Nell’indifferenza generale, si insinua l'idea che tutte le fedi siano destinate a diventare radicalismi, che ogni istituzione (Chiesa compresa) esista soltanto per consentire a poche persone di conservare i propri privilegi. Non passa giorno che sui quotidiani finiscano vicende di chiesa – a volte anche gravi e da trattarsi con la dovuta severità, come ci ha insegnato il Santo Padre – che sono trattate pretestuosamente e spesso distorte per inoculare veleno nei fedeli.
E quando si toglie Dio, non è vero che non si crede più in nulla: si finisce col credere in tutto.
Per questo la Chiesa è chiamata ad affrontare questi tempi senza ergere steccati, senza parlare la stessa lingua o battere la stessa moneta di questo mondo imbarbarito.
Quando il mondo parla a sproposito della Chiesa, la Chiesa è chiamata a parlare di Cristo. E a fidarsi di Lui, il Maestro, che non l'ha mai abbandonata anche quando i cristiani, di questa Chiesa, ne smontavano la credibilità pezzo per pezzo...
Fidarsi del Maestro, ricordarci sempre di essere semplici servi, assolutamente inutili.
Abbandoniamoci dunque nelle braccia di Dio; ma sul serio, non per finta. Ci sono infatti persone che – con l'acqua alla gola – mettono alla prova Dio: si fidano a parole ma non si staccano dalla riva per prendere il largo. A volte la nostra vita è irrequieta e piena di dubbi ma non ce ne stacchiamo; invochiamo Dio, senza poi lasciargli la possibilità di agire e di salvarci; invochiamo Dio, sì, spiegandogli, però, cosa deve o non deve fare.
Allora due provocazioni, fratelli: vogliamo essere veramente dei discepoli? Mettiamo la nostra vita e la nostra volontà nelle mani del Maestro: non a parole ma sul serio.
Ma facciamo bene attenzione però: perché normalmente Dio ascolta le preghiere, e lo fa in maniera così clamorosa da lasciarci senza parole; per cui l'unico serio rischio di tutto questo è che poi dobbiamo agire di conseguenza, abbandonandoci interamente a Dio, e diventare santi! E non a parole questa volta, ma sul serio!
Altra provocazione: ricordiamoci sempre che siamo servi inutili, cari fratelli e sorelle.
Cioè il mondo è già stato redento, non siamo noi che lo dobbiamo salvare! A noi è chiesto semplicemente di vivere da salvati, di guardare oltre il nostro io, al di là dei nostri deliri di onnipotenza, aprendo il nostro cuore ai fratelli. A noi Gesù chiede di vivere come uomini di fede; a procedere nel nostro cammino di credenti con un cuore aperto e gravido di pace, generoso e accogliente; nella condivisione fraterna di tutto; con umiltà, leggerezza e semplicità.
Per tutto il resto lasciamo che sia Dio a fare il suo mestiere! Amen.

giovedì 23 settembre 2010

26 Settembre 2010 - XXVI Domenica del Tempo Ordinario

La parabola di Lazzaro e il ricco epulone (che è un soprannome del tipo: "festaiolo e mangione") conclude e arricchisce la riflessione di domenica scorsa. Dio conosce per nome il povero Lazzaro: ora, chiamare uno per nome, in Israele, era prova di una profonda conoscenza del suo intimo. Dio conosce la sofferenza di questo mendicante: ha con lui un legame molto stretto; altrettanto non succede col ricco epulone, uno senza nome, anche se – tutto sommato – non si tratta di una persona particolarmente malvagia, ma di uno troppo occupato delle sue cose per potersi accorgere di quel povero che muore davanti a causa sua...
Non c'è posto per Dio nel ricco epulone, Dio non lo conosce: egli basta a se stesso, non ha bisogno di alcuno lui! Non si pone, almeno all'apparenza, alcun problema religioso, è saldamente indifferente e si tiene debitamente lontano dalla sua interiorità.
E Dio rispetta questa distanza.
Il cuore della parabola non è dunque la vendetta di Dio che ribalta la situazione tra il ricco e il povero – come a noi farebbe comodo pensare – in una sorta di pena del contrappasso. Il senso della parabola, la parola chiave per capire di cosa parliamo, è una sola: abisso.
C'è un abisso fra il ricco e il povero, tra Lazzaro e l’epulone; tra loro c'è una voragine incolmabile.
La vita del ricco, non condannato perché ricco ma perché indifferente, è tutta sintetizzata in questa terribile immagine: la sua vita è un abisso.
Probabilmente anche buon praticante, ma certamente insensibile per quanto gli gira attorno – uno di quelli che Amos nella prima lettura chiama causticamente “spensierati” – al punto da non accorgersi del povero che muore davanti alla sua porta.
L'abisso invalicabile è nel suo cuore, nelle sue false certezze, nella sua supponenza, nelle sue piccole e inutili preoccupazioni.
In altri tempi, quest'atteggiamento veniva chiamato "omissione": atteggiamento che descrive un cuore che si accontenta di stagnare, senza valicare l'abisso e andare incontro al fratello. Abisso di chi pensa di essere sufficientemente buono, e devoto e normale rispetto al mondo esterno, malvagio e corrotto: l'obiezione "Che ci posso fare?" di fronte alle immense ingiustizie dei nostri giorni, qualche offerta caritativa, qualche buona devozione, tacitano e asfaltano le coscienze, intorpidiscono il cuore.
E l'abisso diventa invalicabile. Neppure Dio riesce a raggiungerci.
“No, non so cosa fare di fronte alle tragedie di questo mondo!”. E nell’incertezza non faccio nulla. Neppure rifugiarmi nel caloroso rapporto intimo con Dio, anche se sono convinto che fino a quando la mia fede non andrà oltre la mia personale devozione per diventare servizio, impegno operativo, resta sterile.
Come dicevamo domenica scorsa, il Signore loda la scaltrezza, l'arguzia di chi si siede e riflette, cerca soluzioni, e soprattutto agisce.
Perché là dove viviamo siamo chiamati ad amare nella concretezza. È l’impegno che ci viene richiesto, non le belle parole e le grandi intenzioni! È nella vita concreta che dobbiamo avere un comportamento consapevole, che si faccia carico del nostro vicino, come il Samaritano. Siamo chiamati a riconoscere Lazzaro, insomma, a riconoscere la sua presenza in mezzo a noi.
Ma, ancor prima dell'impegno, esiste un atteggiamento che tutti possiamo avere, anche se non siamo in grado o non possiamo fare nulla di diverso da quello che stiamo già facendo: tutti, tutti noi, sempre, siamo chiamati a vedere, a capire, a prendere a cuore: Dio si è chinato sulla sofferenza degli uomini; pertanto, prima di ogni ragionamento sociale, prima dell'arrendersi o del rimboccarsi le maniche, prima di tutto, siamo chiamati ad avere compassione. A sentire dentro, a sentire il dolore come Dio lo sente (quanto dolore facciamo sentire a Dio! E quanto amore, in lui!). Questo sì, tutti possiamo viverlo.
Un mondo pieno di compassione adulta (non pietistica, non mielosa, non rassegnata) cambierebbe il nostro fragile e incarognito mondo, stiamone certi.
Il Vangelo di oggi, concludendo la riflessione di domenica scorsa, ci dice che l'anticonsumismo è la solidarietà, la condivisione. Una condivisione, però, intelligente. È finito il tempo delle elemosine "una tantum", dell'Euro sganciato per far tacere il fastidio dell'insistenza di chi chiede e la propria coscienza.
Dio chiama per nome Lazzaro, non gli sgancia un Euro. Si lascia coinvolgere, ascolta le sue ragioni, non accetta gli inganni, aiuta a crescere. Così la nostra comunità, sempre più, deve lasciare che lo Spirito susciti in mezzo a noi nuove forme di solidarietà che rispondano alle nuove forme di povertà.
La sete del ricco epulone, sete di chi ha finalmente capito, è una sete che fin d'ora percepiamo se abbiamo il coraggio di ascoltarci dentro.
L'ammonimento di Amos che condanna gli "spensierati di Sion", cioè i superficiali di tutti i tempi, ci aiuta a spalancare gli occhi e vedere i nuovi Lazzaro che stanno alla porta. Infine ci giunge un richiamo forte alla conversione: epulone rimpiange il fatto di avere vissuto con superficialità i tanti richiami che gli venivano fatti, ed invoca un miracolo per ammonire i suoi fratelli. Ma non gli sarà dato alcun miracolo, alcun segno ulteriore: ha avuto sufficienti occasioni per capire. E anche per cambiare.
I profeti e la Parola del vangelo sono abbondantemente in mezzo a noi: a noi di accoglierli! Amen.