La parabola di Lazzaro e il ricco epulone (che è un soprannome del tipo: "festaiolo e mangione") conclude e arricchisce la riflessione di domenica scorsa. Dio conosce per nome il povero Lazzaro: ora, chiamare uno per nome, in Israele, era prova di una profonda conoscenza del suo intimo. Dio conosce la sofferenza di questo mendicante: ha con lui un legame molto stretto; altrettanto non succede col ricco epulone, uno senza nome, anche se – tutto sommato – non si tratta di una persona particolarmente malvagia, ma di uno troppo occupato delle sue cose per potersi accorgere di quel povero che muore davanti a causa sua...
Non c'è posto per Dio nel ricco epulone, Dio non lo conosce: egli basta a se stesso, non ha bisogno di alcuno lui! Non si pone, almeno all'apparenza, alcun problema religioso, è saldamente indifferente e si tiene debitamente lontano dalla sua interiorità.
E Dio rispetta questa distanza.
Il cuore della parabola non è dunque la vendetta di Dio che ribalta la situazione tra il ricco e il povero – come a noi farebbe comodo pensare – in una sorta di pena del contrappasso. Il senso della parabola, la parola chiave per capire di cosa parliamo, è una sola: abisso.
C'è un abisso fra il ricco e il povero, tra Lazzaro e l’epulone; tra loro c'è una voragine incolmabile.
La vita del ricco, non condannato perché ricco ma perché indifferente, è tutta sintetizzata in questa terribile immagine: la sua vita è un abisso.
Probabilmente anche buon praticante, ma certamente insensibile per quanto gli gira attorno – uno di quelli che Amos nella prima lettura chiama causticamente “spensierati” – al punto da non accorgersi del povero che muore davanti alla sua porta.
L'abisso invalicabile è nel suo cuore, nelle sue false certezze, nella sua supponenza, nelle sue piccole e inutili preoccupazioni.
In altri tempi, quest'atteggiamento veniva chiamato "omissione": atteggiamento che descrive un cuore che si accontenta di stagnare, senza valicare l'abisso e andare incontro al fratello. Abisso di chi pensa di essere sufficientemente buono, e devoto e normale rispetto al mondo esterno, malvagio e corrotto: l'obiezione "Che ci posso fare?" di fronte alle immense ingiustizie dei nostri giorni, qualche offerta caritativa, qualche buona devozione, tacitano e asfaltano le coscienze, intorpidiscono il cuore.
E l'abisso diventa invalicabile. Neppure Dio riesce a raggiungerci.
“No, non so cosa fare di fronte alle tragedie di questo mondo!”. E nell’incertezza non faccio nulla. Neppure rifugiarmi nel caloroso rapporto intimo con Dio, anche se sono convinto che fino a quando la mia fede non andrà oltre la mia personale devozione per diventare servizio, impegno operativo, resta sterile.
Come dicevamo domenica scorsa, il Signore loda la scaltrezza, l'arguzia di chi si siede e riflette, cerca soluzioni, e soprattutto agisce.
Perché là dove viviamo siamo chiamati ad amare nella concretezza. È l’impegno che ci viene richiesto, non le belle parole e le grandi intenzioni! È nella vita concreta che dobbiamo avere un comportamento consapevole, che si faccia carico del nostro vicino, come il Samaritano. Siamo chiamati a riconoscere Lazzaro, insomma, a riconoscere la sua presenza in mezzo a noi.
Ma, ancor prima dell'impegno, esiste un atteggiamento che tutti possiamo avere, anche se non siamo in grado o non possiamo fare nulla di diverso da quello che stiamo già facendo: tutti, tutti noi, sempre, siamo chiamati a vedere, a capire, a prendere a cuore: Dio si è chinato sulla sofferenza degli uomini; pertanto, prima di ogni ragionamento sociale, prima dell'arrendersi o del rimboccarsi le maniche, prima di tutto, siamo chiamati ad avere compassione. A sentire dentro, a sentire il dolore come Dio lo sente (quanto dolore facciamo sentire a Dio! E quanto amore, in lui!). Questo sì, tutti possiamo viverlo.
Un mondo pieno di compassione adulta (non pietistica, non mielosa, non rassegnata) cambierebbe il nostro fragile e incarognito mondo, stiamone certi.
Il Vangelo di oggi, concludendo la riflessione di domenica scorsa, ci dice che l'anticonsumismo è la solidarietà, la condivisione. Una condivisione, però, intelligente. È finito il tempo delle elemosine "una tantum", dell'Euro sganciato per far tacere il fastidio dell'insistenza di chi chiede e la propria coscienza.
Dio chiama per nome Lazzaro, non gli sgancia un Euro. Si lascia coinvolgere, ascolta le sue ragioni, non accetta gli inganni, aiuta a crescere. Così la nostra comunità, sempre più, deve lasciare che lo Spirito susciti in mezzo a noi nuove forme di solidarietà che rispondano alle nuove forme di povertà.
La sete del ricco epulone, sete di chi ha finalmente capito, è una sete che fin d'ora percepiamo se abbiamo il coraggio di ascoltarci dentro.
L'ammonimento di Amos che condanna gli "spensierati di Sion", cioè i superficiali di tutti i tempi, ci aiuta a spalancare gli occhi e vedere i nuovi Lazzaro che stanno alla porta. Infine ci giunge un richiamo forte alla conversione: epulone rimpiange il fatto di avere vissuto con superficialità i tanti richiami che gli venivano fatti, ed invoca un miracolo per ammonire i suoi fratelli. Ma non gli sarà dato alcun miracolo, alcun segno ulteriore: ha avuto sufficienti occasioni per capire. E anche per cambiare.
I profeti e la Parola del vangelo sono abbondantemente in mezzo a noi: a noi di accoglierli! Amen.
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