«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.
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