giovedì 14 maggio 2009

17 maggio 2009 - VI Domenica di Pasqua

"Amiamoci gli uni gli altri". E l'imperativo che l'apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l'amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un'esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l'esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l'ampiezza che giungeva sino all'amore per i nemici anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natura e indicarne la fonte: "Amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (I Gv 4,7). L'apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L'amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il termine greco "eros". L'apostolo usa, invece, la parola "agape" per indicare l'amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.
Per comprendere l'amore di Dio (l'agape) non bisogna perciò partire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri sentimenti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infatti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell'amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgiamo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell'uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant'Agostino applicava all'uomo: "Inquietum est cor meum...". Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del "cuore inquieto di Dio": egli è sceso sulla terra per cercare e salvare ciò che era perduto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. E un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è lo spirito che scende nella materia, è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l'amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l'amato. Sì, Dio è inquieto finché non trova l'uomo. E lo è a tal punto "da mandare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). L'amore di Dio, potremmo dire, "è in discesa", si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, "sino a dare la vita per i propri amici" come Gesù stesso dice. Medita ancora Giovanni nella sua prima lettera: "In questo sta l'amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati" (I Gv 4, 10). E' Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. E', in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti, ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (I Cor 1, 28).
Se l'intera Scrittura è la storia dell'amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell'amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l'amore è Gesù. L'amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito... L'amore è cercare i malati, è avere amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. L'amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito... Questo è l'amore di Dio. Davvero altra cosa dall'eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori... Di tutto ciò ne abbiamo abbastanza; dell'agape ne abbiamo estremo bisogno. Il vuoto d'amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L'egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomini basati sull'attrazione "naturale" sono labili, basta poco per rovesciarli e distruggerli. E diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire la definitività nei rapporti. L'eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d'essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l'agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell'io c'è l'altro. Gesù ce ne ha dato l'esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Gv 15, 9). Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell'amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore, possiamo però riceverlo da Dio, se accolto, ha una forza dirompente: fa crollare i muri cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l'amore di Dio si incrocia, quasi sino all'identificazione, con l'amore vicendevole.
L'uno infatti è causa dell'altro. Un noto teologo russo amava dire: "Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!". Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L'amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera di razza, di cultura, di nazione, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L'agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l'amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15,11).

giovedì 7 maggio 2009

10 Maggio 2009 - V Domenica di Pasqua

C'è un'immagine estremamente espressiva: la vite e i tralci. Il tralcio è fatto per portare frutto. Se non porta frutto viene tagliato e si secca. Il tralcio che porta frutto viene potato perché porti più frutto, frutto abbondante. La stessa cosa è per noi: solo uniti a Cristo siamo vivi, portiamo frutto. E questo nella misura in cui accettiamo la potatura: così si può portare veri frutti, non a parole, ma coi fatti (come ci ha detto la lettera di Giovanni). Senza di me non potete fare nulla: così ci dice Gesù con amore e con chiarezza. Possiamo avere la sensazione o la illusione di fare tante cose da soli, anche senza Cristo. Queste parole a noi potrebbero sembrare presuntuose. "Non potete fare nulla". Nulla? A noi può sembrare il contrario: chi non crede in Gesù fa soldi, carriera, successo... Ma dobbiamo fare attenzione: il vangelo non lo si può addomesticare o dimezzare. Gesù è molto chiaro e va preso sul serio, perché in Lui c'è la verità e non le illusioni. Ci può essere anche un pericolo: di rimanere in unione con Cristo in qualche momento, quando preghiamo o facciamo qualche riflessione. Non è possibile per un tralcio essere un po' unito e un po' staccato, tanto più non è possibile per noi riferirci a Cristo ogni tanto, qualche volta, quando ci viene e in me o quando ci piace. "Rimanete in me e Io in voi": dobbiamo rimanere ed essere sempre uniti a Cristo, sempre e in ogni azione della giornata. E' una cosa pesante, difficile, noiosa? E' pesante, difficile, noioso respirare continuamente, o essere sempre sotto l'influsso del sole per vivere? Non c'è nulla di più facile, di più immediato, di più naturale. E' più difficile fare diversamente, lasciarsi andare ai propri capricci, se ne portano tante conseguenze di sofferenze e di morte: il tralcio secco, che non porta frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco. Senza di me non potete fare nulla. Con Cristo possiamo fare tanto, possiamo fare tutto. "Tutto posso in Colui che mi dà forza". "Nulla è impossibile a Dio". Abbiamo l'esempio di tanti Santi, i quali uniti a Cristo, hanno potuto fare cose grandi e hanno offerto alla Chiesa e all'umanità frutti prodigiosi di bene. La Parola ci aiuta a capire e a vivere il nostro rapporto con Dio: tralci uniti alla vite. Ci aiuta pure a capire e a vivere il nostro rapporto con gli altri, perché tutti facciamo parte dell'unica vigna del Signore, vigna curata dal Signore e dal suo Spirito che viene. S. Giovanni ci presenta la vita della comunità cristiana e ne sottolinea gli elementi più importanti. Ci invita ad amare non con parole, ma con i fatti e nella verità. Questo è il comandamento: che crediamo nel nome del Figlio Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri. Credere in Gesù e amarci gli uni gli altri: questo è vivere il suo comandamento per dimorare in Dio. "Rimanete uniti a Me" dice il Signore. E' importante partire dall'esperienza della preghiera e dell'amore davanti a Dio: momento forte di unità, di vicinanza con Lui, dove si trova luce, forza e si impara a rimanere uniti a Lui nella vita di ogni giorno. "Voi siete i tralci". I tralci sono persone concrete, di ogni giorno, persone che si incontrano al lavoro, nella strada. Nel mondo ci sono tralci che rivelano la presenza di una vite che è Cristo? Se la parola di Cristo è vera, ci devono essere persone nelle quali si possa vedere la vita di Cristo, il Risorto. Guardiamoci attorno: oggi quanti tralci vivi si vedono! Non fanno chiasso, come fa' chiasso il male: "Un albero che cade fa più rumore di un'intera foresta che cresce". Pensiamo ai cristiani che vivono e costruiscono le più varie forme di bene, nelle famiglie, nelle parrocchie, nelle opere di carità, nel volontariato, negli impegni sociali. Pensiamo agli uomini straordinari del ventesimo secolo: Padre Pio, Don Luigi Orione, Raoul Follereau, il dottor Schweitzer, Padre Kolbe, Madre Teresa, Giovanni Paolo II e tantissimi altri... Domenico Mondrone ha pubblicato sei volumi col titolo significativo: "I Santi ci sono ancora". Sono tutte brevi biografie di donne e uomini straordinari di questo nostro tempo. Ecco allora un pensiero consolante: non è possibile questa fioritura di tralci senza una vite: non sono possibili questi uomini e queste donne senza una presenza di Cristo! Ma Gesù continua: "Ogni tralcio che in me non porta frutto il Padre lo toglie; e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto" (Gv 15,2). Questa potatura è il mistero che talvolta ci chiude gli occhi, perché non lo vogliamo accettare. E il motivo è questo: siamo tutti un po' materialisti; accomodati nel mondo e non pellegrini e forestieri in questo mondo. Ecco allora le prove, il dolore, le persecuzioni, la croce...: sono la strada erta e difficile che porta alla salvezza; sono la potatura, che se accettata, ci matura, ci fa portare frutti abbondanti, ci libera da tante mondanità. Nella prima lettura si è parlato di Paolo. Paolo non dubita di Cristo che l'ha chiamato sulla strada di Damasco. Sarà lui a dire un giorno: "lo sovrabbondo di gaudio in tutte le mie tribolazioni" (2 Cor 7,4). "Non ho niente eppure possiedo tutto" (2 Cor 6,10). "Completo in me la passione di Cristo" (Col 1,24). "Sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all'abbondanza e all'indigenza. Tutto posso in Colui che mi dà la forza" (Fil 4,12-13). L'esperienza di Paolo e quella ti tante anime belle e generose ci fa vedere che non sono parole, ma fatti. E' la storia di tante esistenze luminose, veri fari di bontà e di solidarietà, che dal legame con Cristo hanno tratto la forza necessaria per affrontare momenti difficili, per dare buona testimonianza, che hanno affrontato con coraggio - essi, tante volte semplici e poveri – situazioni gravose e hanno fatto risplendere la potenza e la vittoria di Cristo.

mercoledì 22 aprile 2009

26 Aprile 2009 - III Domenica di Pasqua

Dopo l'apparizione alle donne, quel mattino del primo giorno dopo il sabato, dopo che Pietro, incredulo, si era recato al sepolcro e, trovatolo vuoto, " tornò a casa pieno di stupore", ecco che Gesù affianca, nel loro cammino verso Emmaus, due discepoli, dei quali il Vangelo non dà l'identità, sappiamo, però, quanto fossero sgomenti e delusi, se l'autore del testo, mette sulle loro labbra queste parole: "noi speravamo che fosse lui il liberatore di Israele; ma son passati tre giorni...alcune donne ci hanno sconvolti...sono venute a dirci di aver avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo...alcuni dei nostri sono andati al sepolcro, ma lui non l'hanno visto..." Un racconto stupendo, questo di Emmaus, un'esperienza nella quale quasi tutti ci siamo trovati, o, di fatto, ancora, per certi versi, ci troviamo, dato che la Presenza del Risorto, non è necessariamente visibile o tangibile, come qualunque altra presenza umana, fisicamente situata nel nostro orizzonte storico. "...ma Lui non l' hanno visto.."; quella di Cristo risorto, infatti, è una presenza di Grazia, di fede, ed è intelligibile, soltanto da un cuore, illuminato e fedele. Conosciamo tutti il racconto di Emmaus, sappiamo come bruciasse il cuore dei due discepoli, mentre il misterioso compagno di viaggio, spiegava le Scritture, e sappiamo, anche, quel che accadde alla locanda, quando, accingendosi a consumare la cena, "i loro occhi si aprirono e lo riconobbero", mentre l' Ospite, spezzava il pane, dopo aver detto la benedizione. In quello stesso momento, il Signore si sottrasse alla loro vista: il dono del Risorto aveva raggiunto il cuore dei discepoli, la luce della fede si era accesa, e si era riaccesa la speranza e l'amore, quell'amore che li ricondusse, poi, in fretta a Gerusalemme dagli apostoli, ai quali riferire l'evento: avevano riconosciuto il Signore Risorto alla frazione del Pane, avevano percorso un tratto di strada con Lui, avevano accolto nella mente, ormai illuminata, il senso delle Scritture, che convergono verso Cristo, unico Signore della Storia e unico Salvatore. Ora, nel cenacolo, ove si trovano gli Undici, che ascoltano i due rientrati da Emmaus, Cristo appare nuovamente, e questa sua apparizione è come il sigillo, che autentica quel racconto che aveva lasciato i discepoli, quasi sicuramente, scettici, se, di fronte all'improvvisa presenza del Cristo, rimasero ".. stupiti e spaventati, e credevano di vedere un fantasma." Il Signore risorto non è un fantasma, ed Egli stesso lo sottolinea: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho "; e Luca aggiunge quel particolare, così concreto, corposo e, al tempo stesso, tenero, della richiesta di cibo da parte del Maestro, quel pesce, che Egli mangiò arrostito. Una scena stupenda, calda e familiare, un tocco di delicatezza infinita, per quelle povere menti stordite dagli eventi, e per le nostre povere menti, che ancora vacillano, davanti alla grandezza sconfinata della Vita che ha vinto la morte. La Pasqua di Cristo, la sua Resurrezione, è la celebrazione della Vita, la rivelazione piena del mistero di Dio incarnato in Gesù di Nazareth, e del mistero dell'uomo, a Lui indissolubilmente legato, e per Lui destinato anch'egli a vincere la morte; è la grazia della Redenzione. La nostra pienezza di vita in Cristo è dono della Pasqua; la Liturgia eucaristica di questa domenica la offre, ancora una volta, alla nostra contemplazione, per la nostra gioia, per una pace da gustare e vivere in profondità di fede, in modo tale che diventiamo capaci di comunicare e testimoniare questi stessi doni agli altri. Nel nostro oggi, nella storia presente, in quel piccolo segmento di storia, che ognuno scrive, deve esser reso presente Cristo, con i segni della Passione e lo splendore della Resurrezione, il Cristo che la Chiesa incessantemente annuncia. Non è un discorso di sole parole, ma la testimonianza di un'esistenza, che sa, quanto grande sia stato il prezzo della redenzione: la Croce di Cristo, che la Scrittura ci ricorda e che ritroviamo nel Pane spezzato e nel calice del Sangue sparso. I segni della Passione, lo strazio della croce, neppure la gioia della Pasqua può cancellarli, è con essi che Cristo si presenta e si fa riconoscere: i segni del dolore sono anche i segni della gloria del Cristo, i segni dell'amore infinito di Dio per ogni uomo. A questo riguardo, il Papa Giovanni Paolo II, nella Enciclica "Dives in Misericordia", scriveva: "La croce è il più profondo chinarsi della divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore, sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento, sino alla fine, del programma messianico che Cristo formulò una volta, nella sinagoga di Nazareth: «Il Signore mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vita, a predicare un anno di grazia del Signore...» (Lc 4, 18 19). La dimensione divina della redenzione, non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore, quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale, egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio " La celebrazione della Pasqua, questo lungo Tempo liturgico, che ci conduce nelle profondità Mistero, per esserne illuminati e rivitalizzanti, deve farci avvertire, con maggiore intensità e gioia crescente, la vocazione alla santità, quella santità quotidiana, che è esperienza viva e profonda della comunione col Padre, nel Figlio, e nello Spirito, esperienza della Presenza viva, da adorare, da amare e da proclamare ogni giorno, per condurre altri alla medesima comunione.

giovedì 9 aprile 2009

12 Aprile 2009 - Pasqua di Risurrezione del Signore

"Perché cercate tra i morti colui che è vivo?". L'angelo resta stupefatto della lentezza delle donne. Certo, lui, l'angelo, ormai contempla da vicino il mistero della vita. Ma noi... ma noi increduli, noi sconfitti, noi incostanti, come facciamo a credere? Eppure la notizia è qui, l'inizio di tutto è qui: la fede, la speranza, l'entusiasmo, la storia, la vita... Se ci si fosse fermati alla Croce, al venerdì, noi, come gli apostoli sgomenti, avremmo potuto fare mille considerazioni: sul fallimento, sulla speranza delusa, su come gli idealisti vengano sistematicamente eliminati da un potere becero, su, su, su... Bene dicono i discepoli di Emmaus, rientrando a casa da Gerusalemme: "Noi speravamo che fosse lui". Noi speravamo: terribile affermazione. Fine del sogno, fine delle belle parole, fine dell'euforia dei bei giorni. Se la nostra fede si fermasse a quella croce ci sarebbe ben poco da dire su Gesù di Nazareth. Nulla da dire su Gesù il Cristo. Se la storia si fosse conclusa a quel drammatico pomeriggio al Golgota, Gesù, come Gandhi o altri grandi personaggi, sarebbe rimasto un punto di riferimento morale, certo, ma nulla più. E invece nessuno, proprio nessuno aveva messo in conto lo stile di Dio, il suo piano strategico, la sua mossa finale, lo scacco matto alla solitudine e alla morte. Sicuramente, piazzata la pietra davanti al sepolcro, tutti, Pilato, il Sinedrio, la folla, i discepoli, avranno pensato ad una triste fine di uno dei tanti profeti che attraversano l'umanità periodicamente. Ma quella pietra non è riuscita a fermare Dio, quel sepolcro è rimasto ed è straordinariamente e inequivocabilmente vuoto. La morte non è riuscita a tenere tra le proprie braccia Dio. La tomba non è riuscita a contenere la sua forza, la sua strepitosa vitalità, la sua totale pienezza. È risorto, fratelli. Gesù è vivo, qui ora. Gesù non è morto, non è rimasto chiuso nel sepolcro. No: è vivo, è qui; è ovunque. E quindi (mi vedo la lenta ma inesorabile speranza che nasce nel cuore degli apostoli) se è risorto significa che davvero era il Cristo, che addirittura era il Figlio, che inauditamente è Dio. E allora si rileggono quegli anni, i gesti, le parole, le scoperte, tutto, tutto ora viene capito, tutto, grazie al primo dono ai credenti, lo Spirito. La smorfia di dolore si trasforma splendidamente in sorriso, in gioia, in annuncio. Ve li vedete questi undici sconfitti, pavidi, terrorizzati di fare la stessa fine del Maestro, venire sconvolti dentro, correre, precipitarsi a perdifiato lungo le mura della città, su fino al Golgota e lì a fianco, nel giardino, vedere delle bende, e credere. Capiamo che se questa è la straordinaria originalità del cristianesimo, da sempre gli scettici, gli increduli, abbiano cercato in tutti i modi di sconfessare questa professione di fede: ma no, che dite, non è risorto, si sarà ripreso da una morte apparente, l'avranno portato via i discepoli, o, che so, si sarà reincarnato! Poveri uomini, povera meschinità umana che stenta a credere che Dio sia padrone della vita, che Cristo abbiamo spalancato le paratie della gioia così da precipitare questa notizia lungo i secoli della storia. Gesù è vivo, amici, che ci piaccia o no, che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no. E' vivo: è incontenibile la sua vita, è straripante la sua forza. Non ci chiede permesso per amarci, non aspetta le nostre lentezze e le nostre obiezioni per esistere. Questa è la nostra fede, questa è la fede che i cristiani, a volte timidamente, a volte con lo splendore della santità, hanno professato.
Celebratela, dunque questa presenza, festeggiate, dunque questa notizia, non cercate tra i morti colui che vive!

giovedì 2 aprile 2009

5 Aprile 2009 - Domenica delle Palme

La settimana che oggi iniziamo, così grande, così importante da essere chiamata "santa", è il gioiello dell'anno liturgico, una perla troppo spesso dimenticata da noi cristiani, a vantaggio di feste forse più sentimentali ma intrise di tanto consumismo, come le feste di Natale.
Qui no. Un morto in croce non si vende, non suscita sentimenti di bontà.
Anzi: se ne parla poco e male di questo Dio che sale su di una croce e muore.
Ancora oggi ci rimane difficile da capire il mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola "resurrezione". Difficile al punto che la Chiesa si ferma stupita a meditare per tutta la settimana sulla grandezza dell'amore di Dio.
Allora fermiamoci anche noi, giorno per giorno, ora per ora, regoliamo i nostri orologi e il nostro tempo a questi momenti cruciali per la storia dell'umanità.
Ammiriamo, in silenzio, il vero volto di Dio, un Dio che si prepara a morire: Cristo celebra la sua presenza nell'ultima Pasqua, la nuova; viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, vive.
In questa preziosa settimana, qualunque cosa faremo, in ufficio, a scuola, a casa, potremo fermarci, socchiudere gli occhi e pensare a Cristo, ai suoi sentimenti, alla sua angoscia, alla sua bruciante passione, al suo desiderio.
Ora per ora assisteremo, con gli occhi della fede, allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
Ironia dell'incoerenza umana: nel volgere di pochi giorni le stesse voci, le stesse braccia, non più con le palme aperte verso il cielo, ma con i pugni serrati, trasformeranno la loro gioia per il Messia, in una invocazione terrificante, in un agghiacciante sete di morte, "Crocifiggilo!".
Quanto è sciocco l’uomo! come sciocchi e tardi nel credere siamo anche noi, che ancora non ci rendiamo conto del tesoro che abbiamo tra le mani, disposti anche noi a trasformare velocemente con il nostro comportamento la preghiera di benedizione in grido di “morte”!
Eppure da quella croce pende il destino dell'uomo, con quel sangue è firmato il patto dell'Amicizia eterna di Dio, in quel pane è conservato il Cuore di Colui che desidera ardentemente di mangiare la Pasqua con noi.
Ma che razza di Re era Gesù?
Un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un asinello e non un cavallo bianco, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re senza armate, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza. Un re nudo, appeso ad una croce, cinto da una corona di spine; un re talmente sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile almeno alle persone che l'hanno amato.
Ecco: questa è la non festa che celebriamo in questa settimana: una festa che abbandona i trionfalismi, per lasciare spazio alla meditazione, allo stupore.
Questo è il nostro re, discepoli del Nazareno. Questo è il nostro Dio.
Un Dio che rischia, un Dio che – per amore – accetta di farsi spazzare via dall'odio e dalla violenza; un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato, pur di mostrare il suo vero volto.
Un Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente, perché ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure e distorte visioni di un Dio personale!
Questo è dunque il nostro Dio: un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell'amore l'unica misura, l'ultima ragione, la sola speranza. Amen

giovedì 26 marzo 2009

29 Marzo 2009 - V Domenica di Quaresima

Ecco la vera identità del Figlio di Dio, Messia e Salvatore: Egli è il chicco di grano che, staccatosi dalla spiga, si prepara a marcire e morire perché nasca una nuova vita, una nuova spiga carica di altri grani. Con un riferimento naturale Gesù, profeticamente, rivela il culmine e il senso ultimo della sua missione. Egli è la Vita ed è venuto perché tutti abbiano la vita piena e abbondante. Ma perché questo accada occorre cadere nella terra, e Lui lo ha fatto, lasciando il seno del Padre; occorre marcire e morire, e lo farà sulla Croce; solo così nascerà altra vita, e questa pienezza si compirà nella Risurrezione. "Se il chicco di grano..." In un'immagine semplice e minuscola, quanto lo è un chicco di grano, ecco tutta la Sapienza di Dio. Ecco, legati da un unico filo d'oro la legge della natura, il dinamismo intimo della vita, la sua missione di Messia e, per chi non si accontenta solo di ascoltarlo, ma vuole anche seguirlo, ecco una proposta di vita: "Se il chicco di grano..." Non si semina un chicco di grano perché si perda e marcisca, ma perché, morendo, liberi tutta l'energia vitale che contiene e risorga come spiga carica di altri grani. E' questa la sorprendente ed assurda logica di Dio che Gesù ha pienamente incarnato e reso visibile in una vita interamente donata, dove la morte in croce è stata solo l'avvenimento culmine. Se entriamo in questa logica di Dio si apre ai nostri occhi, come uno squarcio di luce, che il dare tutto, l'uscire da se stessi per accogliere l'altro, è la vita di Dio, la vita del Padre, del Figlio e dello Spirito. Nella Trinità le Tre Persone si rapportano donandosi totalmente l'una all'altra e in queste relazioni nessuna Persona divina ne esce impoverita o annientata. Ciò che per Gesù è identità e missione, per chi lo ascolta è possibilità, cammino aperto. "Se il chicco di grano..." Dio rispetta la nostra libertà, non impone traiettorie obbligate, le propone, le presenta nella verità e per primo le percorre. "Se il chicco di grano..." Perché sia Pasqua non c'è altra strada. Perché sia la nostra Pasqua non ci sono tangenziali o scorciatoie: per dare vita occorre dare la vita. In ogni esistenza ci sono un Calvario e una Croce che attendono, in ogni esistenza c'è un sepolcro che da luogo di morte si trasformerà in culla di vita nuova, se il seme gettato in terra accetta di marcire e morire. Tutto questo travaglio si consuma nella quotidianità, senza attendere le grandi occasioni. Marcire e morire è disponibilità a dare tutto senza trattenere niente, a dimenticare se stessi, ad amare nella gratuità senza aspettarsi nulla in cambio, a rinunciare ai propri interessi e alle proprie sicurezze... essere seme che muore e, in una parola, dono di sé. E questa consegna concreta di noi stessi, nelle piccole morti nascoste, mentre dona vita ad altri, contemporaneamente, ci immerge nel cuore di Dio, nel mistero pasquale di morte per la Vita. Subito dopo, Gesù aggiunge: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia (perde) la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Cadere in terra e morire, non è dunque solo la via per portare frutto, ma anche per "salvare la propria vita", cioè per continuare a vivere! Che cosa succede al chicco di grano che rifiuta di cadere in terra? O viene qualche uccello e lo becca, o inaridisce e ammuffisce in un angolo umido, oppure viene ridotto in farina, mangiato e tutto finisce lì. In ogni caso, il chicco, come tale, non ha seguito. Se invece viene seminato, rispunterà, conoscerà il tepore della primavera e il sole dell'estate. Conoscerà una nuova vita. E' chiaro il significato di ciò sul piano umano e spirituale. Se l'uomo non passa attraverso una trasformazione che viene dalla fede, se non accetta la croce, ma rimane attaccato al suo naturale modo di essere, al suo egoismo, al suo io, tutto finirà con lui, la sua vita va ad esaurimento. Se invece accetta la croce in unione con Cristo, allora gli si apre davanti l'orizzonte dell'eternità. Ma senza pensare alla morte, ci sono situazioni sulle quali la parabola del chicco di grano getta una luce rasserenante. Chi non ha vissuto l'esperienza di un progetto che gli stava a cuore, per il quale ha lavorato, diventando lo scopo principale della vita. Ed ecco che, in breve lo vedi come caduto in terra e morto. Fallito, oppure tolto a te e affidato ad un altro che ne raccoglie i frutti. E' in questo momento che ci dobbiamo ricordare del chicco di grano e sperare. I nostri migliori progetti e affetti devono passare per questa fase di apparente buio e di gelido inverno, per rinascere purificati e ricchi di frutti. Se resistono alla prova, sono come l'acciaio che dopo che è stato immerso in acqua gelida né è uscito "temprato". Molte volte il chicco di grano (la nostra vita, i nostri progetti, gli ideali) continuiamo a tenerlo stretto nella mano, finché inaridisce e muore, senza che porti il frutto desiderato. L'alternativa è affidarlo alla terra e attendere che dia il frutto, anche se tutto fa pensare al contrario. Concretamente significa rimettere i nostri progetti, la nostra vita alla volontà di Dio, non in un atteggiamento di passiva rassegnazione, ma di fiducioso abbandono.

giovedì 19 marzo 2009

22 Marzo 2009 - IV Domenica di Quaresima

Dio ha tanto amato il mondo
"Bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato (sulla croce), perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna". Chi crede in Cristo Crocifisso, ha la vita eterna.Il Crocifisso e la fede: nel cammino quaresimale volgiamo lo sguardo e l'orientamento della vita verso la passione e la morte di Gesù, verso Gesù che è stato sulla croce. Gli ebrei, in grave pericolo, se guardavano il serpente di bronzo, erano salvi. Noi cristiani, se guardiamo Cristo Crocifisso e crediamo che Lui è il Figlio di Dio, siamo salvi. Siamo salvi su questa terra; siamo salvi per l'eternità.Questo perché Cristo crocifisso vive ed esprime tutto l'amore infinito di Dio per l'umanità e per ciascuno. "Se Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi, come non ci donerà ogni cosa, assieme a Lui?" La liturgia ci offre oggi le espressioni più profonde e più luminose della nostra fede."Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna"."Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia e mediante la fede, siamo stati salvati".Pensiamo a quale totale differenza fra una persona morta e una viva!E chi non crede in Cristo? E chi è superficiale nella fede? "Io sono ateo - dice qualcuno - io non credo, io sono agnostico". Tanti giovani, visti esteriormente, sembra che vedano l'ora di allontanarsi da Dio, da Cristo, dalla Chiesa. Qualcuno si lascia condizionare o rovinare da compagnie, da cattivi insegnamenti, da letture o film o servizi internet, che sembrano opere del maligno.Ce lo richiamiamo perché c'è una grande responsabilità nel portare avanti la crescita nella fede. Non è la stessa cosa credere o non credere in Cristo. Non è come fare il tifo per una squadra o l'altra o coltivare o meno un qualunque interesse: uno alla fine rimane sempre uguale. Credere o non credere in Cristo è questione di vita o di morte per sempre.Quand'ero ragazzo, mi facevano molto bene, specie negli esercizi spirituali, le meditazioni e le riflessioni, sulla morte, sull'eternità, sull'inferno e il paradiso. Mi veniva insegnato fin da ragazzo che era necessario costruire bene la vita, evitare il male e il peccato per non correre il pericolo dell'inferno, fare il bene il più possibile e chiedere il perdono di Dio nella confessione di tutti i peccati, per vivere nella fiducia che il Signore ci vorrà accogliere in Paradiso. S. Giovanni Bosco affermava che molte volte nell'età dell'adolescienza si decidono le sorti del tempo e dell'eternità.Lo sappiamo che siamo deboli, che tante volte soffriamo tentazione e cadiamo nel peccato: ma il Signore è venuto proprio perché potessimo essere perdonati e santificati. Per questo dobbiamo accogliere, desiderare, implorare il perdono; metterci davanti a Dio perché possiamo essere perdonati e salvati.Qui è la nostra gioia. Questa domenica di metà quaresima è la domenica della gioia. Gioia perché siamo davanti a Dio, perché Dio ci ama e ci salva, perché viviamo con il Signore e per il Signore. "Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia".Dice ancora il vangelo: "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui". Abituati ad immaginarci un Dio esigente, che formula continue richieste e domanda sacrifici, gli uomini faticano ad accettare un Dio che non domanda, ma dona, che non esige, ma offre, che non esercita il suo potere per giudicare e condannare, ma per salvare e liberare dal male. Eppure le cose stanno proprio così. Difficilmente si sarebbe prevista una simile realtà, ma in Gesù è proprio questo che si è manifestato. Perché la logica di Dio non è quella del potere, della forza, della superiorità, ma dell'amore. "Dio ha tanto amato il mondo"!Che differenza dal nostro atteggiamento! Noi continuamente giudichiamo, puntiamo il dito, ci lamentiamo di tutto il male che c'è e che ci viene continuamente buttato il faccia. Gesù ha fatto così? Fa così? Gesù conosce molto bene tutto il male e ogni debolezza; ma Gesù ama, si appassiona di questo mondo cattivo, non ha paura dei peccati, delle cose più terribili: si incarna, si fa uomo, si fa peccato, muore come un delinquente davanti a Dio e davanti alla società di allora. Ma in questa maniera salva e trasforma il mondo e nel mondo possono trovarsi i terreni più buoni, i fiori belli, i frutti più sani.Com'è il nostro rapporto col mondo? Come ci troviamo in esso? Siamo innamorati del nostro mondo, proprio così com'è, per assumerlo, per vivere una solidarietà nel male, che diventa salvezza dal male. Non devo continuare a puntare il dito, a giudicare gli altri, come se il male fosse solo degli altri, di quelli che fanno così terribili, e io sentirmi a posto, anche se la mia vita è insulsa ed egoista."Chi crede in Cristo non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell'unigenito Figlio di Dio". Questo avviene per il mistero del contrasto della luce e delle tenebre. Dice il vangelo: La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito letenebre. Nella luce si fa il bene, nelle tenebre si fa il male. Ecco un programma semplice, ma fruttuoso: Credere nel Figlio, muoversi nella luce, fare opere buone. Credere all'amore di Dio, accoglierlo; ripetere, commossi, con S. Giovanni: "Noi abbiamo creduto all'amore che Dio ha per noi!"Possiamo in questo imitare i bambini. Essi non hanno paura di lasciarsi amare; più amore si dà loro, più ne prendono, come se fosse la cosa più naturale del mondo. L'amore umano diventa simbolo dell'amore di Dio, l'amore di Dio serve da modello all'amore umano. In altre parole, da Dio impariamo come anche noi dobbiamo amare.Alcuni esempi: Dio non ha avuto paura di peccare di debolezza, ripetendo spesso nella Bibbia all'uomo: "Io ti amo", "tu sei prezioso ai miei occhi".Perché ci sono papà e forse anche mamme che non lo dicono quasi mai ai figli? Mariti che non lo dicono alla moglie? Molti giovani soffrono per tutta la vita per non essersi mai sentiti rivolgere, semplici e chiare, parole come queste dalle persone dalle quali di più le attendevano.Pur amandoci tanto, Dio ci lascia liberi. Esprime la qualità paterna del suo amore, proprio dandoci la libertà. E non si può dubitare che Dio non sia un buon educatore. Non si tratta nelle nostre responsabilità, semplicemente di dare libertà ad esempio ai figli, ma di educarli alla libertà. Dare la libertà può diventare permissivismo. Educare alla libertà significa aiutarli a non essere succubi delle mode, della pubblicità, di quello che fanno gli altri; a non avere paura di essere diversi, di andare, quando è necessario, controcorrente, ad avere il coraggio delle proprie convinzioni e decisioni.Il Signore si aspetta da noi una risposta di amore libera, gioiosa, consapevole, perché affascinati dal suo amore infinito e tenerissimo.

giovedì 12 marzo 2009

15 Marzo 2009 - III Domenica di Quaresima

Di Dio non si fa mercato!
Mi si permetta una fantasticheria: chissà come avrà reagito quel giorno il sommo sacerdote Caifa quando gli devono aver raccontato di quello scandalo inaudito, che si era verificato al tempio nell’atrio dei gentili, a firma del solito Gesù di Nazareth, mai visto “infuriato pazzo” così, contro mercanti e cambiavalute? Non ha risposto proprio a questa domanda, ma ci è andato molto vicino lo scrittore torinese, S. Jacomuzzi con il suo romanzo audace e avvincente, Cominciò in Galilea, una sorta di quinto vangelo, messo in bocca all’apostolo Andrea. Ecco come il “primo chiamato”, il fratello di Simon Pietro, ricostruisce il “fattaccio”: “Fu d’improvviso, in modo del tutto inaspettato. Mi ero appena accorto che Gesù aveva alzato gli occhi in alto, verso i fastigi del tempio, per poi rivolgerli tutto attorno a ciò che lo circondava, e lo vidi muoversi di scatto. Da una bancarella vicino afferrò delle cordicelle, ne fece una fune e con quella si abbatté addosso ai mercanti, rovesciò i banchi delle monete, cercò di spingere fuori pecore e buoi. Restammo allibiti, senza neppure il tempo di intervenire e di metterci accanto a lui. Si alzò un volo di colombe spaventate e Gesù gridò ai loro venditori: “Andatevene di qui! Avete mutato la mia casa in una spelonca di ladri!”.
1. Per comprendere adeguatamente da una parte la carica “rivoluzionaria” del gesto compiuto da Gesù e, dall’altra, la sua valenza simbolica, bisogna ricordare cosa rappresentasse il santo tempio di Gerusalemme per il giudaismo contemporaneo. Secondo la fede d’Israele, il tempio era la dimora di Dio in mezzo al suo popolo: là si operava la remissione dei peccati; solo là veniva pronunciato il santissimo nome di YHWH, altrimenti assolutamente impronunciabile. In sostanza il tempio era il segno concreto e tangibile sia della unicità di Dio sia della unità e unicità di Israele: lo ricordava una iscrizione su una lastra di pietra messa a confine tra i due piazzali, quello riservato ai giudei e quello dei pagani: comminava la pena di morte all’incirconciso che avesse osato oltrepassare il limite. Del gesto compiuto da Gesù sono state date due interpretazioni, una che potremmo chiamare “devota”, e l’altra “zelota”. Secondo la prima, si sarebbe trattato di una purificazione del tempio: come gli antichi profeti, Gesù avrebbe compiuto un gesto di violenta denuncia di abusi intollerabili e si sarebbe scagliato contro quella sacrilega profanazione che aveva ridotto il tempio a un centro commerciale. Bisogna però ricordare che in fondo la presenza di venditori e di cambiavalute non solo non era illegale - oltretutto il mercato si svolgeva nell’atrio dei pagani - ma era anzi necessaria per offrire sacrifici e cambiare le monete straniere, ritenute impure, in monete ebraiche. Di fatto Gesù non se la prende direttamente con il traffico del tempio, fonte di lauti guadagni per il sommo sacerdote e le grandi famiglie sacerdotali che si spartivano il controllo delle finanze. Secondo l’altra interpretazione, quella “zelota”, il gesto compiuto da Gesù sarebbe stato un atto squisitamente politico: un tentativo di occupazione del tempio, contro gli invasori romani e quindi un affronto oltraggioso all’alta aristocrazia sacerdotale, imparentata con la classe dei sadducei e connivente con il potere occupante. Di fatto il gesto in se stesso è stato un “gesto profetico” - come i gesti compiuti dagli antichi profeti per lanciare dei messaggi particolarmente importanti - insomma un’azione dimostrativa, simbolica. Più che una “purificazione” dell’area del tempio, quello che fa Gesù annuncia l’abolizione di ogni barriera: perfino l’atrio consentito ai pagani doveva essere considerato sacro, tanto quanto lo spazio riservato agli ebrei. In fondo Gesù non vuole la restaurazione del vecchio mondo, ma l’instaurazione di un nuovo mondo religioso, senza più tabù né odiose segregazioni.
2. Ma c’è ancora altro. È soprattutto il detto riportato da Giovanni, rispetto ai sinottici - “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” - a illuminarci sul senso attribuito da Gesù stesso al suo gesto eclatante. È da rimarcare qui la forte sottolineatura del soggetto che compie l’azione - che nella versione di Marco è ancora più accentuata: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo” (14,58). Il tempio non è più riformabile, perché decaduto: va sostituito, non perché profanato, ma perché il Messia è ormai venuto, e Gesù è insieme il soggetto e l’oggetto della sostituzione del vecchio santuario di Gerusalemme: è il ricostruttore del tempio e il tempio ricostruito. Nella precedente attesa giudaica, riguardante il rinnovamento del tempio negli ultimi tempi, è sempre e solo Dio che agisce; di norma, non ci si attendeva che un uomo, re o profeta che fosse, si arrogasse la prerogativa della riedificazione futura del tempio. Qui invece abbiamo proprio un uomo, il rabbi Gesù di Nazaret, che si accredita come dotato di una autorità divina. Infatti l’accusa che gli verrà mossa pochi giorni dopo in sede di processo dal tribunale del sinedrio, riguarda proprio questo capo: la funzione di Gesù, come il ricostruttore promesso del tempio, indirettamente comportava la sua piena e totale equiparazione con Dio. Il gesto simbolico compiuto dal Maestro di Nazareth e il suo messaggio profetico si possono capire solo alla luce della Pasqua: “egli parlava del tempio del suo corpo”. Abbiamo qui il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: la sua umanità è il luogo della presenza e della manifestazione di Dio in mezzo agli uomini. Il Signore Gesù dunque è il vero tempio, l’unico luogo di incontro con Dio. Il suo corpo, distrutto da mani d’uomo - dal peccato - sulla croce, diventerà nella risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini tutti. Questo significa che i veri adoratori di Dio non sono i guardiani del tempio materiale, i sommi sacerdoti garanti del sistema o gli scribi detentori del sapere, ma tutti coloro che adorano Dio “in spirito e verità” (Gv 4,23). La nota conclusiva di Giovanni - Gesù “non si fidava di loro... perché sapeva quello che c’è nel cuore dell’uomo” - sposta il luogo del vero incontro con Dio: dal recinto sacro all’intimo della coscienza, lì dove ogni uomo non si decide per qualcosa, ma per Qualcuno.
3. Ci stiamo preparando alla grande veglia pasquale, quando rinnoveremo le promesse del nostro battesimo, il sacramento-base con cui Cristo ci ha “incorporati” a sé, facendo di noi le pietre viventi del nuovo tempio: noi siamo il vero santuario, abitato dallo Spirito di Dio (cfr. 1Pt 2,4-5; 1Cor 3,16; 6,19). Ci stiamo preparando a rinnovare la promessa di fare di tutta la nostra vita “un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” (Rm 12,1). Camminando nel mondo come Gesù, facendo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per il mondo, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo incontrabile per quanti si imbattono nel nostro cammino. Ma il Signore si sente veramente a casa nella nostra vita? O anche per noi deve prendere la frusta per “fare le pulizie pasquali” negli atri del nostro cuore adultero e mercenario, e per scacciare gli idoli che vi si sono prepotentemente e comodamente installati? L’eucaristia che celebriamo ci mette in comunione con il tempio vero e vivo del Signore: il suo corpo crocifisso e risorto. Gesù sa bene quello che c’è in ognuno di noi, ma conosce pure il nostro più intimo e ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui.

venerdì 6 marzo 2009

8 Marzo 2009 - II Domenica di Quaresima

Ci siamo addentrati nella quaresima. La Parola di Dio continua a farci uscire dalla prigionia dell'amore per noi stessi per condurci più in alto, molto più in alto delle nostre banalità. La liturgia di questa seconda domenica è come dominata da due montagne che si stagliano alte, affascinati e terribili, di fronte alla banalità del nostro quotidiano: il monte Moria - che la tradizione posteriore identificherà simbolicamente con il colle del Tempio di Gerusalemme - e il monte Tabor; il monte della prova di Abramo e il monte della trasfigurazione di Gesù. Il libro della Genesi ci presenta quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni, affrontato con fede dal patriarca Abramo verso la vetta della prova: è il paradigma di ogni itinerario di fede, e dello stesso cammino quaresimale. E' un percorso difficile e combattuto, accompagnato solo da quel comando implacabile: "Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami e offrilo in olocausto!" Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del giovane e ignaro Isacco che una sola volta, con ingenuità straziante, "si rivolse al padre e disse: Padre mio! - Eccomi, figlio mio. - Dov'è l'agnello per l'olocausto? - Dio stesso provvederà, figlio mio!" E' la fede al livello più alto o, se si vuole, a quello semplice e puro del bambino che si fida totalmente del padre senza alcun tentennamento ("se non ritornerete come bambini...", dirà Gesù). Abramo deve rinunciare alla sua paternità per appoggiarsi unicamente alla parola di Dio. E' la fede allo stato puro, si potrebbe dire. Non è il figlio Isacco ad assicurargli la posterità, ma solo la Parola del Signore. Sì, solo la Parola del Signore è la roccia su cui fondarsi, il bastone su cui appoggiarsi, il fondamento su cui costruire. Dio lo mette alla prova facendogli balenare la possibilità della distruzione della sua paternità. E così, dopo la prova, Abramo riceve Isacco non più come figlio della sua carne, ma come il figlio della promessa divina, il figlio della Parola. Egli, che pure aveva rinunciato alla vita di Isacco, lo ritrova colmo di gioia, così come quel padre misericordioso della parabola evangelica fu pieno di gioia nel ritrovare il figlio prodigo "che era morto ed era tornato in vita". Abramo che accoglie Isacco, ci offre un esempio altissimo di fede che lo farà venerare dalle generazioni future di ebrei, cristiani e musulmani, come "Padre di tutti i credenti". Su quella vetta, il credente si scopre figlio dell'amore assoluto, e per questo esigente, di Dio. La fede di Abramo ci accompagni nel nostro pellegrinare di ogni giorno!
La montagna della trasfigurazione, che la tradizione successiva identificherà con il Tabor, si pone come termine di questo viaggio, il viaggio di ogni settimana e dell'intera vita. Il Signore ci prende e ci conduce con sé sul monte, così come fece con i tre più amici perché vivessero con lui l'esperienza della comunione intima con il Padre; un'esperienza così profonda da trasfigurare il volto, il corpo e persino i vestiti; tutto, dentro e fuori. C'è chi suggerisce che il nucleo storico del racconto si basa su un'esperienza che ha colpito anzitutto Gesù: una visione celeste che ha prodotto una trasfigurazione in lui. E' un'ipotesi verosimile e comunque suggestiva perché ci permette di cogliere più al fondo la vita spirituale di Gesù. Talora si dimentica che anche Gesù ha avuto un suo itinerario spirituale, come il Vangelo suggerisce: Gesù "cresceva in sapienza, età e grazia". Senza dubbio non mancarono in lui le gioie per i frutti del suo ministero pastorale, come pure non furono assenti le ansie e le angosce (il Getsemani e la croce ne sono i momenti più drammatici). La salita sul monte ci fu anche per Gesù, come già per Abramo eppoi per Mosé, per Elia e per ogni credente. Gesù sentì il bisogno di salire sul monte; era il bisogno di incontrarsi con il Padre. E' vero che la comunione con il Padre era tutta la sua vita, il pane delle sue giornate, la sostanza della sua missione, il cuore di tutto ciò che era e che faceva; ma Gesù aveva bisogno di momenti in cui questo rapporto intimo emergesse nella sua pienezza. E' un esempio che interroga profondamente i credenti di oggi. Se ne ha avuto bisogno Gesù, quanto più noi! Il Tabor fu uno di questi momenti singolarissimi di comunione, che il Vangelo estende a tutta la vicenda storica del popolo d'Israele, come testimonia la presenza di Mosé ed Elia che "discorrevano con lui". Gesù, però, non visse da solo questa esperienza; volle coinvolgere anche i suoi tre amici più intimi. Fu un momento tra i più significativi per la vita personale di Gesù, e lo divenne anche per i tre discepoli e per tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questa stessa salita.
Nella tradizione della Chiesa molte sono state le interpretazioni di questo brano evangelico. Tra le più costanti c'è quella che scorge nella vita monastica il riflesso della Trasfigurazione, a motivo della radicalità della scelta che comporta. E senza dubbio è necessario che nella vita della Chiesa di oggi si sottolinei con maggior coraggio la radicalità di questa scelta che mostra il primato assoluto di Dio sulla nostra vita. Penso però che si possa vedere nel monte della Trasfigurazione anche la Liturgia domenicale alla quale tutti siamo chiamati a partecipare per vivere, uniti a Gesù, il momento più alto della comunione con Dio. Ed è proprio durante la Santa Liturgia che potremmo anche noi ripetere le stesse parole di Pietro: "Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende...". Da questo santo monte ch'è la Liturgia domenicale, nella quale ci troviamo in compagnia dei patriarchi e dei santi del Primo e del Nuovo Testamento, anche noi sentiamo risuonare la stessa voce di allora: "Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo!" Immediatamente i tre discepoli si ritrovarono con "Gesù solo". Si guardano attorno stupiti, forse con un senso di smarrimento per essere tornati alla "normalità", e non videro nessun altro se non il solo Gesù. Iniziano di qui i giorni feriali che seguono la domenica; o, se si vuole, la discesa dal monte. I discepoli non erano più come prima. Tornarono nella vita quotidiana non più ricchi di se stessi, delle proprie idee, dei propri progetti, dei propri sogni o di altro ancora. Essi avevano davanti agli occhi la visione di Gesù trasfigurato, e questo gli bastava. Sì, alla comunità cristiana, ad ogni credente, non è dato altro che Gesù; solo Lui è il tesoro, la ricchezza, la ragione della vita personale e della vita della Chiesa. Quella tenda che Pietro voleva costruire con le sue mani, in realtà l'aveva costruita Dio stesso quando "il Verbo si fece carne e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). E con l'apostolo Paolo siamo lieti di poter ripetere che nessuno, né il dolore né la fatica né la morte ci separeranno da Cristo e dal suo amore.

venerdì 27 febbraio 2009

1° Marzo 2009 - I Domenica di Quaresima

La scena che precede il Vangelo di oggi ci ha mostrato Gesù mescolato alla folla che va da Giovanni il Battista, per farsi battezzare. Lui, senza peccato, assieme a coloro che si dichiarano peccatori e compiono un gesto di penitenza e di conversione. Lui, in cui risplende ogni bontà, accanto a coloro che hanno oscurato le tracce della bellezza di Dio, impresse nella loro vita.
La manifestazione che accade al Giordano lo rivela come il Figlio, la discesa dello Spirito lo conferma nella missione che sta per affrontare.
Non ci sono sconti, però, né esenzioni, né privilegi: è chiamato ad essere uomo fino in fondo. Così anche lui conoscerà la tentazione, il tempo della prova, il dubbio, il rischio di allontanarsi dal progetto di Dio.
Marco non presenta le tentazioni in dettaglio. Perché? Perché rifugge dal fornirci particolari, così come fanno Matteo e Luca? Forse perché, proprio a partire da quel momento in cui dà inizio alla sua missione pubblica, la vita di Gesù sarà tutta una tentazione.
Sarà tentato dal potere, mentre è venuto come Messia umile e buono, che è venuto per servire e non per farsi servire.
Sarà tentato dalla popolarità che lo investe subito, appena compie i primi miracoli. Ma questi sono solo dei «segni»: l'importante è altrove, è quella Parola che sola può convertire e cambiare i cuori.
Sarà tentato dalla fuga di fronte al cumulo di sofferenza, di violenza, di abbandono e di fallimento, che sta per rovesciarsi su di lui. E invece gli viene chiesto di essere il Figlio che si mette completamente nelle mani del Padre e rinuncia a misurare la sua esistenza col criterio del successo, della riuscita, del consenso.
Il Messia povero, disarmato e disarmante, che osa pronunciare una parola misericordiosa, colma della tenerezza di Dio, ma anche scomoda, tagliente, senza compromessi, non avrà la vita facile. E la tentazione costante sarà quella di ammorbidire, smussare gli angoli, rendere più accettabile quel vangelo che è annuncio di gioia, annuncio di cambiamento, ma anche denuncia di tutto ciò che rovina la vita degli uomini.
Anche noi, come lui, conosciamo le tentazioni. Dopo duemila anni esse sono, stranamente, sempre le stesse. E di fatto intaccano, tutte, la nostra fiducia in Dio, ci gettano nel sospetto di trovare in lui non un Padre, che ci ama e vuole il nostro bene, ma un concorrente geloso delle nostre capacità, un padrone esoso che richiede obbedienza cieca.
Occorre guardare a Cristo, seguire il suo esempio, accoglierlo perché vinca in noi il maligno e le sue tentazioni e ci aiuti a realizzare il progetto e la volontà di Dio su di noi.
È così che accogliamo e viviamo il comando di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo".
Nei giorni che verranno accostiamoci a Gesù, e con lui viviamo e lottiamo nel deserto di questo mondo. I quaranta giorni della quaresima descrivono, in verità, il paradigma di tutta la vita di Gesù e quindi della vita di ogni credente. Non c'è bisogno di luoghi più o meno solitari per trovare il "deserto" ove ritirarsi. Le nostre città, ove è rara la vita solidale e frequente la solitudine, sono il vero deserto di oggi. Un deserto che è penetrato anche nei cuori sino a renderli freddi e duri. Si potrebbe parlare di un vero e proprio processo di desertificazione dei cuori che porta all'inaridimento e alla violenza. Come non accorgersi nella nostra vita quotidiana di essere sempre più spesso in compagnia di belve e dei demoni della divisione e dell'odio?

venerdì 20 febbraio 2009

22 Febbraio 2009 - VII Domenica del Tempo Ordinario

C'è tanta folla accanto a Gesù, non c'è più posto da nessuna parte. E Gesù annuncia la Parola di Dio. Gli portano un uomo paralizzato. Non riuscendo ad entrare lo calano dalla terrazza, dal tetto. Ci vuole della fede per cercare tutti i modi, per affrontare tante difficoltà, purché il malato possa arrivare davanti a Gesù. E' un gesto di grande fede ed è un gesto di carità vera. E Gesù, dice il testo, "vista la loro fede" si prepara dare a quel malato la sua salvezza, a compiere per lui i miracoli della sua potenza.Ma Gesù ricorda qual è il vero e primo bene.Quando si trova davanti quel paralitico esclama: "Uomo ti sono rimessi (cioè perdonati) i tuoi peccati". Il Signore ci esaudisce sempre a di là delle nostre richieste e delle nostre attese. Noi sperimentiamo alcune nostre necessità, Lui conosce i veri bisogni profondi della nostra vita. Ma essi volevano la guarigione fisica e forse si trova spiazzati o delusi.E soprattutto c'è la reazione degli scribi. "Perché costui parla così? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?"La guarigione del paralitico è presente nei tre vangeli sinottici; Marco la racconta in modo particolarmente vivace e drammatico. Nel piano del suo vangelo questo fatto rappresenta un momento culminante della rivelazione di Gesù come Messia e Salvatore, e l'inizio delle controversie che culmineranno nella condanna di Gesù come bestemmiatore della Legge e della religione del suo popolo.Solo Dio può perdonare i peccati. Ma Gesù è Dio che si è fatto uomo e salvatore. E' venuto a caricarsi di nostri peccati, a toglierli. E' l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. E proprio per dimostrare che è Dio compie il miracolo. "Ora perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettucci e và a casa tua". E così avvenne.Meraviglia, scandalo, ammirazione sono le reazioni dei presenti. Gesù compie un segno di potenza, un miracolo, uno dei numerosi miracoli che accompagnano l'inizio della sua missione e fanno scoprire con gioia e con speranza che Dio è vicino. Tutti si meravigliavano e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto niente di simile!"Per Gesù la guarigione dalla malattia è segno della guarigione del cuore. Egli compie le profezie che annunciano la restaurazione del suo popolo, il ritorno alla vita, qualcosa di radicalmente diverso. Così diceva il testo di Isaia nella prima lettura: "Ecco, faccio una cosa nuova∑ Io, cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati". Dio esprime la sua potenza nella misericordia, nel perdono.Prima la pace con Dio: i peccati sono distrutti, cancellati, non più ricordati. Poi la riconciliazione con se stessi e con gli altri e con le cose.E' la salvezza offerta da Dio mediante il suo Cristo, ma a cui deve corrispondere la fede. La fede porta ad affidarci a Dio perché colmi la nostra debolezza con il suo amore. "Dove è abbondato il peccato, è sovrabbondata la grazia". Dobbiamo imparare ad affidarci così a Dio e Lui ci guarisce come noi abbiamo bisogno di essere guariti.Il miracolo rivela la potenza e la missione di Gesù. "Il Figlio dell'uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati". Questo perdono è affidato ancora oggi nelle mani di uomini: la Chiesa, corpo vivo di Cristo, lo esercita con il ministero dei sacerdoti; lo esercita nei "segni" sacramentali (battesimo, riconciliazione, eucaristia, unzione dei malati∑), in cui solo il credente sa riconoscere la forza di salvezza, pur nella semplicità e fragilità delle persone e dei mezzi.Ogni volta che accogliamo la grazia della riconciliazione, anche noi possiamo sperimentare la bellezza unica e la profondità delle parole di Gesù, rivolte a ciascuno di noi: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati": sono perdonati, non ci sono più; c'è solo l'amore di Dio e anche tu diventa amore. E' una cosa secondo verità coltivare il senso giusto del peccato, riconoscerci deboli, fragili, peccatori; che facciamo come dice S. Paolo "vedo il bene che voglio e faccio il male che non voglio". Se mi presento a Dio come sono, cioè malato, Lui potrà guarirmi. Ma se presumo di non aver bisogno di nulla, Lui non vedrà la mia fede, lui non potrà operare i suoi prodigi. Ma se sono sincero non farò fatica a scoprire tutte le mie mancanze nella fede, nell'amore al Signore, nell'amore al prossimo, nella mia pigrizia e nel mio egoismo, nell'attaccamento alle cose e agli interessi materiali, nella mentalità e nel comportamento mondano che mi prende da ogni parte. Davvero ho bisogno, tanto bisogno del perdono e della grazi di Dio: "Ti sono rimessi i tuoi peccati".Riconosciamo con gioia nell'Eucarestia di oggi l'amore misericordioso che ci è venuto incontro come forza creatrice di novità, che libera dalla paralisi del cuore e dello spirito."Alzati" dice Gesù al paralitico che "giaceva"; ed egli "si alzò":Il perdono e la guarigione sono un segno del mistero di morte e resurrezione che attraversa tutta la vita di Cristo e dei suoi fedeli: Egli che ha voluto giacere come noi nella morte, si è rialzato nella resurrezione perché anche noi ci rialzassimo e vivessimo da risorti.Peccatori perdonati, che non ricordano nevroticamente le loro colpe passate, ma gioiosamente "ricordano" la salvezza ricevuta, possiamo pregare il Padre animati dallo Spirito nuovo che Cristo ci ha donato. Uniti a Cristo "attraverso di Lui sale a Dio il nostro "Amen" (il nostro sì) per la sua gloria". Sale a Dio la nostra vita rinnovata, il nostro cammino spedito, come il cammino meraviglioso di colui che era stato paralitico.

giovedì 12 febbraio 2009

15 Febbraio 2009 - VI Domenica del Tempo Ordinario

Cos’è il dolore
Gesù esce dalla sinagoga e inizia a guarire la suocera di Pietro; poi evangelizza, scaccia i demoni e conclude la sua giornata pregando.
Noi, molto spesso, usciamo dalla chiesa e chiudiamo ben bene il cassetto del nostro ego religioso: se ne riparlerà tra una settimana; Dio ha avuto già abbastanza la sua razione di devozione.
Gesù trova nella preghiera la forza per cambiare, per lasciarsi consumare dagli altri, per rendere presente con la sua vita, il Regno di Dio, per raccontare non la "buona novella", ma diventando lui stesso buona novella, la buona notizia di un Dio che si è avvicinato a noi.
In questo percorso, in maniera brutale, inquietante, scomoda, Gesù fa esperienza del male nella sua forma più misteriosa: la malattia e il dolore che la accompagna.
Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini (le guerre sono opera nostra: Dio non c'entra!), ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.
Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente: ognuno di noi ne deve fare in conti quasi quotidianamente.
La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola.
Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice.
Quando si è giovani si pensa ingenuamente di essere dei privilegiati, ci si illude pensando che la sofferenza a noi sarà risparmiata o, almeno, ci arriverà ma in maniera molto attenuata.
Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente?
I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto.
Molti percorsi di sofferenza sono stati individuati, nel corso della propria esperienza religiosa, come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, oppure come strumento di prova per raffinare la propria fede.
L’uomo soffre, come soffrono tutte le creature di questo mondo: ma l’uomo è anche l'unico essere vivente che si pone domande sul senso della vita, e soprattutto sul senso della morte, sul perché della sofferenza.
Troppo spesso però le sue risposte sono ben lontane dal dare una spiegazione, un significato valido della sofferenza, soprattutto quando, con allucinante convinzione, accusa Dio di essere la causa di ogni avversità, il dispensatore vendicativo di malattie, dolori, disgrazie di ogni genere.
«Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire»; «Dio prende con sé sempre i migliori»; «Quand’è che Dio mi lascerà in pace»…
Sono modi di dire, è ovvio; espressioni che diamo per scontate, ma che negano il vero volto del Dio misericordioso di Gesù, fonte di ogni consolazione e pietà.
Nella nostra smania di voler dare una spiegazione razionale a tutto, cadiamo nel più irrazionale dei ragionamenti, senza accorgerci dell’assurdità delle nostre conclusioni.
La Parola di oggi cerca di illuminarci in qualche modo sul comportamento da tenere.
Gesù, dopo aver guarito il lebbroso, gli chiede il silenzio.
Certamente lo fa perché non vuol passare come un guaritore, come un santone, ma soprattutto perché vuole indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore.
Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo riscatta, lo salva, lo riempie di condivisione.
Gesù non dona nessuna risposta al dolore, ma lo condivide con passione.
Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso.
No: Gesù, come letteralmente spiega il verbo greco, splag-cnšuw, prova rabbia, stizza irrefrenabile [letteralmente “si rode le viscere”, senso figurato tratto dall’atto di mangiare le viscere delle vittime dopo la loro offerta sacrificale] verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico.
La vita è dolore, un dolore inevitabile, concludono i vari pensatori di questo mondo.
La vita è dolore, concludeva anche il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire.
Gesù invece propone, nella solidarietà condivisa, l'alternativa al dolore. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.
Un esempio di dolore condiviso? Padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un'isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all'inumanità della malattia.
Padre Damiano morirà a Molokai, facendo rinascere la dignità di queste persona, dando loro fede, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati a un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
A ben riflettere però, siamo tutti dei lebbrosi: perché il peccato, sempre più espressione della vita di quanti sono lontani da Dio, è la lebbra più infettiva di oggi e si diffonde con una tale rapidità tra il genere umano, che è difficile arginarla.
È necessario pertanto fare ciò che ha fatto il lebbroso del Vangelo di oggi: inginocchiarsi davanti al Salvatore dell'umanità e chiedere la guarigione della mente e del cuore perversi.
Soprattutto di quelle menti diaboliche che pensano e concepiscono il male in ogni angolo della terra e poi lo portano a compimento.
Tali lebbrosi morali sono estremamente pericolosi perché possono, come di fatto sta succedendo, prendere piede nella società odierna e seminare odio e vendetta nel nome dello stesso Dio.
I fatti di questi giorni ai quali stiamo assistendo, con violenze di ogni genere, ci confermano che il Demonio si è insinuato nella vita di tanti esseri umani, al punto tale che il male passa per il bene ed il bene per il male.
A questo sistema di pensiero, infettante come la molteplicità dei virus che attaccano la vita umana, bisogna porre argine per far emergere il miracolo della guarigione che parte dalla compassione e dalla condivisione.
Spesso siamo quindi noi stessi più lebbrosi dei lebbrosi fisici e non ce ne accorgiamo, perché sappiamo nascondere talmente bene le nostre malattie dell'animo, che siamo sepolcri imbiancati, cioè belli esternamente, ma gravemente ammalati interiormente.
Queste malattie vanno curate con una forte terapia di amore verso Dio e verso i fratelli, perché solo chi mette al centro della propria esistenza Cristo e in Lui riconosce l'unico salvatore può trovare la via della sua guarigione.
Si tratta, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Corinzi di oggi, di imitare Gesù Cristo e di non essere di scandalo a nessuno con il proprio modo di agire:
«Fratelli, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l'utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Argomenti di grande attualità che ci pongono davanti alle nostre responsabilità individuali e comunitarie, perché ci richiamano alla coerenza con le scelte di vita che abbiamo fatto in una visione cristiana dell'esistenza.
Coerenza che già di per sé è un invito a seguire le orme di Cristo e lasciarsi prendere totalmente da Lui, come avvenne per l'Apostolo delle Genti, quando si convertì al cristianesimo.

giovedì 5 febbraio 2009

8 Febbraio 2009 - V Domenica del Tempo Ordinario

Con i passi da gigante che ha fatto la medicina, potremmo dire che oggi Gesù sarebbe quasi disoccupato: la scienza ha camminato, ha vinto febbri e malattie.
Pietro stesso porterebbe sua suocera in ospedale o chiamerebbe un qualunque medico.
Già, ma noi non siamo semplicemente dei corpi con organi e tessuti.
Siamo creature impastate di sentimenti, di pensieri, di passioni.
Abbiamo un cuore, che spesso è malato d'infelicità.
Ecco, questa è la grande malattia di oggi, il nemico dell’umanità, il male interiore che solo Gesù sa curare: l’infelicità.
Tutta la scienza non ci regalerà mai un solo istante di felicità.
Gesù sì. Perché Lui, e solo Lui, è l’unico medico dell'anima.
Anche oggi Egli entra nella nostra casa, come in quella di Pietro, si accosta a noi, ci solleva prendendoci per mano. La febbre ci lascerà, e soprattutto ci abbandonerà quel nostro mormorare contro Dio a causa di qualche sofferenza che riteniamo senza senso!...
«Ricordati che sei fatto per il cielo - ci dice Gesù - tua è la vita eterna! Cammina, verso il cielo e non ti curare se i tuoi piedi sanguinano; cammina e guarda avanti; cammina e canta il mio amore per te; cammina e andando testimonia agli uomini la ragione della tua speranza, racconta come il tuo fardello è diventato leggero; cammina annunciando il mio Vangelo: e così facendo ti accorgerai che a camminare non sei solo ma, con me sempre al tuo fianco, una folla immensa ti accompagna: la folla di tutti gli uomini che io ho salvato, e che sono in marcia con te verso il Regno, dove non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, ma solo un'immensa gioia e una pace perenne».
Una volta poi che il Signore ci avrà liberati dal nostro malessere spirituale, dalle nostre paure, dalle nostre angosce, dobbiamo metterci immediatamente al suo servizio, sull’esempio della suocera di Pietro, che immediatamente si mise a servire Gesù.
Anche noi dobbiamo servire , dobbiamo “dare una mano”: meglio, dobbiamo anche noi “prendere per mano” quei nostri fratelli che si trovano in particolari sofferenze morali, che hanno bisogno di una buona parola, di conforto, di amicizia, di comprensione, di aiuto.
Dobbiamo dir loro: «Vieni, ti do una mano!», un’espressione con cui intendiamo esprimere tutta la nostra solidarietà.
Penso che a tutti, almeno una volta nella vita, sarà capitato di sentirselo dire: ed è stato bello, perché ci ha rassicurato, ci ha confermato che qualcuno si interessava anche a noi. Una parola che ci ha aiutato a superare la gelida paura di essere soli, abbandonati.
Bene: il Signore non si stanca di ripeterci queste parole affettuose; perché vuole restituirci nuovo vigore, fresca vitalità, gioia di vivere.
Egli è sempre pronto, con il Sacramento della Riconciliazione, a stenderci una mano amica per rimetterci in piedi, dopo le nostre inevitabili cadute nel peccato.
Ecco perché anche il nostro servizio ai fratelli, il nostro “dare una mano”, deve essere la risposta operativa all’amore misericordioso che Cristo continuamente ci dimostra.
La guarigione della suocera di Pietro rappresenta dunque il miracolo del servizio. Può sembrare un miracolo insignificante. Ma i miracoli non sono spettacoli di potenza, ma segni della misericordia di Dio.
Il miracolo più grande che Gesù è venuto a compiere in terra, è infatti la capacità di amare, cioè di servire.
Chi ama serve, serve gratuitamente, serve continuamente, serve tutti indistintamente.
Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine di Dio che è Amore. L'egoismo si esprime nel servirsi degli altri, che porta all'asservimento reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro.
Solo nel servizio reciproco saremo tutti finalmente liberi: "Alter alterius onera portate et sic adimplebitis legem Christi: Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo" (Gal 6,3).

venerdì 30 gennaio 2009

1 Febbraio 2009 – IV Domenica del Tempo Ordinario

Nel vangelo di questa domenica, Gesù viene descritto da Marco con due pennellate incisive: Gesù è il "maestro" che insegna; Gesù è il "liberatore" che guarisce, perché la sua parola è efficace. Ci troviamo davvero davanti a una "dottrina nuova", dove "nuova", nel linguaggio biblico, non significa originale, inedita, ma perfetta e definitiva. Gesù insegna con autorità e comanda con efficacia; egli proclama ed agisce, dice e fa', predica e guarisce. Il profeta è colui che parla "in nome di Dio". Gesù è il vero grande profeta. Egli insegna con autorità, attraverso parole e opere.
Con i quattro ex pescatori, ora suoi discepoli, è a Cafarnao. Di sabato entra e parla nella sinagoga. C'è molta gente. La sua parola provoca un ascolto eccezionale. Tutti stanno a orecchi aperti. Non si sente nemmeno il movimento del respiro. In tutti c'è un grande stupore: avvertono di trovarsi davanti a un uomo fuori del comune. Lui non conosce che l'aramaico, la lingua dialettale; non ha studiato la Scrittura presso alcuna scuola rabbinica; è un illustre sconosciuto. Eppure parla con autorità. Gli scribi e i rabbì del tempo sono dei 'ripetitori'; Gesù no. La sua è una parola che genera meraviglia, perché è novità assoluta, parla di Dio come uno che 'ci vive dentrò, da sempre. Leggendo i vangeli si nota come questo sia il suo stile costante. Possiamo davvero chiamarlo l'uomo che stupisce. Il 'maligno' è molto più acuto della gente: non è preso dallo stupore, ma dalla rabbia e dall'odio. Egli sa che quell'uomo di Nazaret è venuto a sbancarlo dal suo trono. Il suo dominio indiscusso sull'uomo è finito. È scoccata l'ora di fare i conti con «il Cristo di Dio». E Gesù davanti a lui non si piega, perché ha qualcosa in più degli altri uomini: egli è «il Santo di Dio» e il maligno lo sa. Nello scontro è Cristo che vince, ma non con la forza dialettica, Gesù non discute con il demonio. Gli impone addirittura di «tacere e di andarsene». Cristo non scende a patti con lui. Può discutere con il peccatore pentito, mai con colui che compie il male con piacere. Il pasticcio in cui l'uomo d'oggi è impantanato è proprio questo: andare a braccetto con Dio e con il diavolo. Non esiste più distinzione: bene e male, onestà e disonestà, fedeltà e adulterio, purezza e lussuria, danaro pubblico e danaro sporco sono realtà così intrecciate da non essere più riconoscibili. L'arte del doppio gioco, della doppia morale, della doppia coscienza, è pane quotidiano. Gesù ha una parola che taglia come una spada, che fa male, che invita a scegliere, che scuote, che libera e salva. Questa pagina di vangelo ci mette con le spalle al muro e ci invita a fare delle scelte precise, che abbiano il sapore di una libertà interiore ritrovata. A costo di apparire di un altro mondo. Infatti, noi cristiani siamo «nel mondo, ma non del mondo». Di fronte a Gesù che insegna, qual è il nostro atteggiamento? Di fronte a Gesù che ingaggia la sua lotta contro il male, quali comportamenti ci sono richiesti? "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?" Anche nelle nostre "possessioni", nei nostri limiti, compromessi... abbiamo bisogno di essere "rovinati". La parola di Dio scuote e toglie la "tranquillità" di chi la predica e a chi l'ascolta. A volte essa fa male, ma è un male, come nel caso dell'ossesso del vangelo, che si converte nel nostro vero bene. Gesù è venuto per accendere una speranza nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E tutti subito percepiscono che la sua parola non è come quella degli scribi. Perché Gesù non si limita a commentare quello che Dio ha detto, magari con dotti riferimenti. No, la sua parola nasce da un'esperienza di Dio, da una comunione con lui che è del tutto unica. È questa la fonte della sua «autorità».
Un annuncio, però, per quanto consolante, non può bastare. Una buona notizia può riscaldare il cuore, può ridare fiducia a chi ormai si è rassegnato, può risollevare da terra chi non ce la faceva più ad andare avanti... Ma viene il momento in cui c'è bisogno di vedere dei segni concreti, di quel cambiamento che è stato annunciato. Ed è proprio quello che Gesù fa', in giorno di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Mostra come Dio provi compassione per le nostre infermità e si impegni, in prima persona, nella lotta contro il male: il male fisico e quello, più profondo, che intacca l'anima, il male che coincide con la cattiveria del cuore e quello che ha i connotati di una prigionia, da cui non si riesce più ad uscire con le proprie forze. Marco, nel suo racconto, è abbastanza sobrio e quasi avaro di particolari: ci presenta un uomo, «posseduto da uno spirito immondo» che è lì, nella sinagoga. E mette sotto i nostri occhi l'azione di Gesù che libera questa persona dalla sua sofferenza, dalla sua lacerazione, dalla sua schiavitù. È bene, tutto sommato, che la descrizione di quell'uomo e della sua malattia sia generica. È bene perché ognuno di noi può vedere nel gesto di Gesù un compito che è affidato anche a lui. In fondo il gesto della liberazione non ha nulla di strano: è un'ingiunzione allo spirito del male ad uscire da quella creatura, è una parola forte che si propone di portare liberazione e speranza in una vita oscurata dalla presenza mortificante del male. E in quel male ci è lecito ravvisare ogni male di cui soffrono i nostri fratelli, ogni situazione di disagio, di abbandono, di strazio, di scoraggiamento. In Gesù ci viene offerto un segno chiaro, senza alcuna ambiguità: Dio non esita ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro ciò che ci tiene in schiavitù, Dio impegna se stesso fino in fondo per la nostra felicità. Per questo il suo Figlio si è fatto uomo. Per questo non esiterà a lottare a mani nude contro ogni cattiveria e contro ogni odio, contro ogni brutalità e contro ogni menzogna. Fino a ferirsi. Fino a venir condannato alla morte di croce. Fino a versare il suo sangue. Storia di un amore che non sopporta l'umiliazione, l'abbruttimento, il sopruso, l'emarginazione. Storia di un amore che non si manifesta attraverso proclami, ma con gesti precisi, costosi, audaci, in cui la liberazione dell'uomo comporta rischi e costi molto alti. Storia di un amore che possiamo annunciare solo se siamo disposti a compiere gli stessi gesti, a fare le stesse scelte.

venerdì 23 gennaio 2009

25 Gennaio 2009 - III Domenica del Tempo Ordinario

Quelle di Gesù non sono promesse elettorali o specchietti per le allodole: quando promette ai primi discepoli di farli diventare “pescatori di uomini”, (cosa ben più grande del pescare pesce) chiede qualcosa di notevole: aver fiducia in lui, mettersi DIETRO di lui, come discepoli di un maestro che indica il cammino, di CONVERTIRSI e CREDERE nel VANGELO, cioè nella bella notizia di un Dio che è venuto a sporcarsi le mani per ridare dignità e gioia a persone bloccate, angosciate, timorose. Persone che riconosce come figli amati e desiderati. Figli a cui lascia la libertà di decidere della loro vita, ma offre prospettive e risorse per prospettare e costruire qualcosa di più bello ed entusiasmante.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”: sono queste le prime parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Marco:
- è questo il tempo opportuno e improrogabile per accogliere Dio. E’ come il tempo della raccolta o della vendemmia: aspettare oltre significa rischiare di vedere i frutti della terra e del nostro lavoro marcire, rischiare di rimanere senza cibo, senza vino, senza sostentamento e senza la gioia della festa.
- E’ il tempo opportuno e improrogabile perché il Regno di Dio è vicino: è presente in mezzo a noi, come un seme che è stato seminato e che ora sta germogliando e richiede la nostra collaborazione perché diventi grande e porti frutto. Il Regno di Dio indica il fatto che è Dio finalmente a regnare, a governare, guidare: non è più il potere e il prepotere degli uomini a decidere delle nostre sorti, non è più la superbia, l’avidità, la violenza… il motore della storia, ma è il desiderio di Dio d’amore, di pace, di comunione, di fraternità, di solidarietà a voler prendere le redini delle nostre vicende umane: come un seme, Gesù, venuto in questo mondo, ma ancora presente e operante per guidarci alla realizzazione di questo mondo che tutto desideriamo, ma a cui a fatica crediamo e vi collaboriamo.
Questo nuovo mondo, questa speranza inizia con l’invito a convertirci e a credere nel Vangelo: a cambiare vita e a iniziare a credere seriamente e fermamente in questa possibilità, in un futuro diverso che possa coinvolgere il nostro presente.
Per questo Gesù passa nella nostra storia ed è capace di vedere dentro le persone che incontra, andare oltre ai loro miseri ruoli e riconoscere delle potenzialità grandi: in Simone ed Andrea, semplici pescatori, vede dei pescatori di uomini, persone capaci di raccogliere moltitudini, cercatori di uomini, scopritori di tesori sepolti in ignare persone… in particolare in Simone vede la Pietra su cui poggerà la Chiesa futura, il sostegno che darà fondamento, solidità e durata alla costruzione. In Giovanni vedrà il discepolo che trasmetterà, con la profondità del suo Vangelo, parole sublimi d’amore di Gesù. Un giorno guarderà l’adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna.
Passando anche oggi vede ciascuno di noi e vi scopre potenzialità a noi invisibili, capacità di amare che non sappiamo di avere, doni da condividere che non abbiamo mai sospettato in noi.
Penso a me, alla mia gioventù in continua ricerca, desiderosa di autenticità e di luce, e ha visto e donato un futuro di servizio, come prete e come uomo, che non avevo certo programmato per la mia vita.
Convertitevi e venite dietro di me e vi farò diventare…persone felici e realizzate. Una felicità che siamo chiamati a conquistare a caro prezzo, seguendolo su una via che prevede anche la croce, la morte, ma per poter con lui risorgere a vita nuova, piena ed eterna. A condizione di condividere il suo amore e di donarlo senza riserve.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto di Giovanni che sembra molto differente da quello riportato da Marco e con lui dai sinottici: erano loro a decidere di seguire Gesù in seguito alla testimonianza del Battista che indica in lui il Messia. Eppure alla base di queste esperienze c’è la stessa lezione: i quattro del lago, già discepoli del Battista, seguono Gesù (che li chiama o risponde alla loro ricerca dicendo di venire dietro di lui) non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono di potersi fidare di lui, fanno una esperienza che li spinge a lasciare la vecchia vita e iniziare una nuova vita incerta, ma affascinante e ben più luminosa.
Fidarsi e affidarsi precede la missione di diventare pescatori di uomini, di tirar fuori dall’invisibile i tesori sepolti, di riportare alla luce chi era sommerso nel mare dell’oscurità. Li scelse perché stessero con lui e per inviarli: c’è sempre prima una esperienza personale che siamo chiamati a fare. Gesù poi li invia, come oggi può inviarci a formare famiglie cristiane, a testimoniare con l’amore coniugale l’amore di Dio: come portare avanti questo compito grande senza una esperienza personale in Dio? Come donare sapore e gioia nelle nostre famiglie se non attingiamo tutto ciò dalla fonte? Quante volte ci limitiamo a portare nelle nostre case solo la nostra fatica, le ansie quotidiane, le frustrazioni che ci avvolgono? I nostri figli e i nostri coniugi hanno bisogno del nostro amore come noi abbiamo bisogno del loro: ma possiamo portare amore anziché frustrazione solo se ci dissetiamo alla fonte. Non sarà allora mai tempo perso, tempo rubato alla famiglia o alla società quello che dedichiamo alla preghiera, al servizio, alla formazione spirituale, ma tempo risanato che ci carica e ci fornisce di doni da condividere. Solo così il nostro mondo si trasformerà pian piano nel regno di Dio, nel regno d’amore.

venerdì 16 gennaio 2009

18 Gennaio 2009 – II Domenica del Tempo Ordinario

Giovanni e Andrea, discepoli del Battista, fissano lo sguardo su Gesù che passa.
Anche noi Fissiamo lo sguardo, cioè affiniamo il nostro sguardo interiore, diamo spazio al "dentro" come l'adolescente Maria, perché il Signore Gesù passa. Passa nelle nostre vite, mescolato alle tante persone, ai tanti avvenimenti, alle tante preoccupazioni. Passa il Signore e corriamo il rischio di perderlo, travolti dalle troppe cose che ci ingombrano il cuore e la vita.
"Ecco l'agnello" dice il rude Giovanni, spiazzato anche lui nel vedere l'atteso mischiato all'immensa folla dei penitenti in coda per ricevere il battesimo. Attonito, il più grande dei profeti, spiazzato (lui!) per l'inatteso volto del Messia. Lo vede e lo indica ai suoi due discepoli, e profetizza: "ecco l'agnello".
L'agnello, animale mansueto, mite, che non si fa notare, che si lascia uccidere senza neppure belare. L'agnello che richiama la capra cui venivano addossati i peccati del popolo il giorno dello Yom Kippur, giorno dell'espiazione, per poi essere mandata nel deserto a morire per le infedeltà di Israele. L'agnello: profezia, intuizione, stupore nel vedere un Messia nascosto e determinato, un Messia che ha già scelto di stare con gli ultimi, di portarne la fatica e il peccato, di condividerne la fragilità e il tormento.
I discepoli, sentendolo parlare così, seguono il Nazareno.
E' sempre qualcuno che ci indica il Signore, sempre qualcuno che ce ne ha parlato, ce lo ha indicato. Poi sta a noi seguire, scegliere, divenire discepoli. Ma la fede si comunica così: da bocca a orecchio, da vita a vita. Se siete discepoli, amici, qualcuno vi ha parlato del Rabbì, qualcuno che già era discepolo. Se qualcuno conoscerà il Rabbì, sarà attraverso la vostra esperienza, la vostra luce interiore.
Giovanni Battista non è un guru che si specchia nell'adorazione dei suoi seguaci: si stacca da loro con forza, vuole che essi, ora, crescano nella conoscenza autentica di Dio.
Vero modello del Pastore, il Battista rifiuta di essere al centro dell'attenzione, accetta volentieri di sparire per nascondersi dietro quella Parola cui egli ha imprestato la voce.
Una volta raggiunto Gesù, questi si volta e, sorprendentemente, chiede ai due discepoli di Giovanni: "Che cercate?". Potremmo a ragione tradurre "Che volete?". Cosa cerchiamo quando ci mettiamo alla ricerca di Gesù? Chi cerchiamo veramente?
E' una domanda all'apparenza dura e che pure rivela il profondo rispetto che Gesù ha nei confronti della nostra umanità. Può succedere, e lo vediamo, che la fede non sia ricerca, ma rifugio; che Dio non diventi Signore ma padrone; che la sua azione non sia grazia ma supplenza alle mie difficoltà... esiste, cioè, un modo di avvicinarsi alla fede che non ci fa crescere come uomini, ma che ci fa fuggire i problemi.
Il Signore mette a fuoco il senso della ricerca dei due discepoli, li invita a non lasciarsi andare al facile entusiasmo ma a riflettere sulla loro sequela. Anche per noi la ricerca della fede può essere un momento passeggero, euforico, legato ad un momento particolarmente carico di emotività.
Il Signore ci scrolla: vuole accanto a sé degli uomini consapevoli delle loro scelte.
La risposta dei discepoli rivela tutta l'insicurezza della loro scelta: "Maestro, dove abiti?". Non cogliete una richiesta di certezze in questa domanda? Un dire: "Prima di seguirti, facci vedere dove ci conduci"? Quanto bisogno di certezze abbiamo prima di poterci fidare... Quanti "se" e "ma" mettiamo prima di dire il nostro "sì" definitivo al Signore. E' lui che, allora come oggi, ci risponde: "Venite a vedere".
Non chiedere, fidati, muoviti, fa' diventare questa ricerca un'esperienza, investi...
La fede - quante volte lo dico! - non è "fare", "sapere" ma "conoscere".
Noi per primi siamo chiamati ad andare a vedere, noi per primi siamo chiamati a fare l'esperienza della sequela. Ed essi andarono. videro e restarono con lui. Dopo essersi fidati restano, accettano, si lasciano coinvolgere.
L'annotazione finale di Giovanni è simpaticissima: "erano circa le quattro del pomeriggio". Quel giorno, quell'istante, è così importante per lui che segna l'inizio di una vita nuova.
Sono passati forse sessant'anni da quell'evento e il discepolo ricorda l'ora precisa, tutto è cambiato, ormai, per Giovanni e Andrea: quel giorno è stato come l'inizio di una nuova Creazione.
Per chi incontra il Signore i giorni non sono più uguali, ma diventano gravidi di una luce nuova. Ecco ciò che ci attende nell'ordinarietà del nostro tempo: l'incontro con il Signore, l'esperienza della sequela. Se sapremo ogni giorno spalancare gli occhi e riconoscere l'Agnello che passa, potremo cambiare la nostra esperienza di vita in autenticità e in maggiore luce interiore.

venerdì 9 gennaio 2009

11 Gennaio 2009 - Battesimo del Signore

Sappiamo che Gesù non ha bisogno di lasciarsi alle spalle il male e il peccato, però sappiamo anche che da questo momento in poi, anche Gesù cambia la sua vita!
Per 30 anni, nessuno ha saputo granché di lui: lo conoscono solo i suoi parenti e la gente di Nazareth. Ha trascorso una vita normalissima, una vita come tante, senza che lasciasse capire che era il Figlio di Dio, il Messia atteso da sempre. Adesso, di fronte a Giovanni Battista, sulle rive del Giordano, Gesù sa che la sua vita sta per cambiare completamente. Non più solo figlio di Maria e Giuseppe, ma Rabbi, Maestro, sulle strade di tutta la Palestina che mostra il volto del Padre suo e Padre nostro.
Il battesimo che Gesù riceve da Giovanni non è per il perdono o per la rinuncia al male, ma è il segno del completo cambiamento che sta cominciando nella vita di Gesù.
Perciò insiste tanto con il cugino, fino a convincerlo; possiamo infatti immaginare una fila di persone che vanno da Giovanni per essere immerse nel Giordano: in quella fila si mette anche Gesù, che Giovanni ha appena definito «più forte di me, colui che battezzerà in Spirito Santo e fuoco»!
Questo recarsi di Gesù da Giovanni per essere battezzato apparirà azione scandalosa persino per i primi cristiani, alcuni dei quali cercheranno di minimizzare l’evento. Eppure tutti e quattro i Vangeli ce lo testimoniano: Gesù si associa ai peccatori nel chiedere a Giovanni il Battesimo. L’altro si oppone, ma Gesù ribatte: «Lascia fare per ora!», invitandolo a compiere la volontà di Dio, la sua giustizia: e la giustizia di Dio è quella particolare coerenza con cui egli intende realizzare la sua misericordia verso i peccatori, il suo disegno universale di salvezza. Giovanni allora acconsente e si sottomette al volere di Gesù, il quale a sua volta si sottomette a lui nel Battesimo.
Gesù realizzerà in pieno questa missione attraverso il battesimo pasquale (“C’è un battesimo che devo ricevere”) nelle acque simboliche della morte, da cui riemerge con la risurrezione. Dal suo fianco trafitto sgorgheranno acqua e sangue, cioè il battesimo e l’eucarestia, sacramenti della nuova vita. (Gv 19,34)
La festa del Battesimo del Signore conclude il tempo di Natale e dà inizio al Tempo Ordinario. Come l’evento del Battesimo di Gesù fu l’avvio della progressiva manifestazione del suo mistero al mondo, così la festa corrispondente è il principio di quel percorso che la Chiesa ci offre ogni anno per approfondire la nostra conoscenza vitale del mistero di Cristo. È, quindi, il periodo non soltanto per smontare il presepio e togliere gli addobbi dalla chiesa e dalle nostre case, ma di conoscere sempre più e sempre meglio il Signore che è nato per noi.
Proprio nel momento in cui Gesù risale da quell’acqua carica dei peccati dell’umanità, «si aprono i cieli ed egli vede lo Spirito di Dio scendere come colomba su di lui. Ed ecco una voce dal cielo: "Questi è il mio Figlio amato, nel quale ho posto la mia gioia"».
Così si compiono le Scritture e la giustizia di Dio si è realizzata: Dio voleva vedere Gesù così, in mezzo ai peccatori, e in quell’atto di abbassamento voleva riempirlo di Spirito Santo. È in questa inattesa epifania che ci è dato di cogliere l’unità dell’azione di salvezza di Dio: il Padre opera attraverso il Figlio Gesù conferendogli tutta la potenza dello Spirito.
La festa del Battesimo di Gesù è anche memoria del nostro Battesimo e, nel contempo, della voce di Dio rivolta a ciascuno di noi: «Tu sei mio figlio!». Ognuno di noi è figlio di Dio, ed è causa della sua gioia se, riconoscendosi peccatore, intraprende il cammino di conversione; su ognuno di noi scende e riposa lo Spirito se sappiamo invocarlo e apprestare tutto per accoglierlo. È così che possiamo sentirci figli di Dio, capaci di gridargli «Abbà, papà amato!» e di vivere delle energie dello Spirito: energie nascoste che pure non cessano di mostrarsi efficaci nella nostra vita, energie più forti del peccato e della morte.