Nel vangelo di questa domenica, Gesù viene descritto da Marco con due pennellate incisive: Gesù è il "maestro" che insegna; Gesù è il "liberatore" che guarisce, perché la sua parola è efficace. Ci troviamo davvero davanti a una "dottrina nuova", dove "nuova", nel linguaggio biblico, non significa originale, inedita, ma perfetta e definitiva. Gesù insegna con autorità e comanda con efficacia; egli proclama ed agisce, dice e fa', predica e guarisce. Il profeta è colui che parla "in nome di Dio". Gesù è il vero grande profeta. Egli insegna con autorità, attraverso parole e opere.
Con i quattro ex pescatori, ora suoi discepoli, è a Cafarnao. Di sabato entra e parla nella sinagoga. C'è molta gente. La sua parola provoca un ascolto eccezionale. Tutti stanno a orecchi aperti. Non si sente nemmeno il movimento del respiro. In tutti c'è un grande stupore: avvertono di trovarsi davanti a un uomo fuori del comune. Lui non conosce che l'aramaico, la lingua dialettale; non ha studiato la Scrittura presso alcuna scuola rabbinica; è un illustre sconosciuto. Eppure parla con autorità. Gli scribi e i rabbì del tempo sono dei 'ripetitori'; Gesù no. La sua è una parola che genera meraviglia, perché è novità assoluta, parla di Dio come uno che 'ci vive dentrò, da sempre. Leggendo i vangeli si nota come questo sia il suo stile costante. Possiamo davvero chiamarlo l'uomo che stupisce. Il 'maligno' è molto più acuto della gente: non è preso dallo stupore, ma dalla rabbia e dall'odio. Egli sa che quell'uomo di Nazaret è venuto a sbancarlo dal suo trono. Il suo dominio indiscusso sull'uomo è finito. È scoccata l'ora di fare i conti con «il Cristo di Dio». E Gesù davanti a lui non si piega, perché ha qualcosa in più degli altri uomini: egli è «il Santo di Dio» e il maligno lo sa. Nello scontro è Cristo che vince, ma non con la forza dialettica, Gesù non discute con il demonio. Gli impone addirittura di «tacere e di andarsene». Cristo non scende a patti con lui. Può discutere con il peccatore pentito, mai con colui che compie il male con piacere. Il pasticcio in cui l'uomo d'oggi è impantanato è proprio questo: andare a braccetto con Dio e con il diavolo. Non esiste più distinzione: bene e male, onestà e disonestà, fedeltà e adulterio, purezza e lussuria, danaro pubblico e danaro sporco sono realtà così intrecciate da non essere più riconoscibili. L'arte del doppio gioco, della doppia morale, della doppia coscienza, è pane quotidiano. Gesù ha una parola che taglia come una spada, che fa male, che invita a scegliere, che scuote, che libera e salva. Questa pagina di vangelo ci mette con le spalle al muro e ci invita a fare delle scelte precise, che abbiano il sapore di una libertà interiore ritrovata. A costo di apparire di un altro mondo. Infatti, noi cristiani siamo «nel mondo, ma non del mondo». Di fronte a Gesù che insegna, qual è il nostro atteggiamento? Di fronte a Gesù che ingaggia la sua lotta contro il male, quali comportamenti ci sono richiesti? "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?" Anche nelle nostre "possessioni", nei nostri limiti, compromessi... abbiamo bisogno di essere "rovinati". La parola di Dio scuote e toglie la "tranquillità" di chi la predica e a chi l'ascolta. A volte essa fa male, ma è un male, come nel caso dell'ossesso del vangelo, che si converte nel nostro vero bene. Gesù è venuto per accendere una speranza nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E tutti subito percepiscono che la sua parola non è come quella degli scribi. Perché Gesù non si limita a commentare quello che Dio ha detto, magari con dotti riferimenti. No, la sua parola nasce da un'esperienza di Dio, da una comunione con lui che è del tutto unica. È questa la fonte della sua «autorità».
Un annuncio, però, per quanto consolante, non può bastare. Una buona notizia può riscaldare il cuore, può ridare fiducia a chi ormai si è rassegnato, può risollevare da terra chi non ce la faceva più ad andare avanti... Ma viene il momento in cui c'è bisogno di vedere dei segni concreti, di quel cambiamento che è stato annunciato. Ed è proprio quello che Gesù fa', in giorno di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Mostra come Dio provi compassione per le nostre infermità e si impegni, in prima persona, nella lotta contro il male: il male fisico e quello, più profondo, che intacca l'anima, il male che coincide con la cattiveria del cuore e quello che ha i connotati di una prigionia, da cui non si riesce più ad uscire con le proprie forze. Marco, nel suo racconto, è abbastanza sobrio e quasi avaro di particolari: ci presenta un uomo, «posseduto da uno spirito immondo» che è lì, nella sinagoga. E mette sotto i nostri occhi l'azione di Gesù che libera questa persona dalla sua sofferenza, dalla sua lacerazione, dalla sua schiavitù. È bene, tutto sommato, che la descrizione di quell'uomo e della sua malattia sia generica. È bene perché ognuno di noi può vedere nel gesto di Gesù un compito che è affidato anche a lui. In fondo il gesto della liberazione non ha nulla di strano: è un'ingiunzione allo spirito del male ad uscire da quella creatura, è una parola forte che si propone di portare liberazione e speranza in una vita oscurata dalla presenza mortificante del male. E in quel male ci è lecito ravvisare ogni male di cui soffrono i nostri fratelli, ogni situazione di disagio, di abbandono, di strazio, di scoraggiamento. In Gesù ci viene offerto un segno chiaro, senza alcuna ambiguità: Dio non esita ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro ciò che ci tiene in schiavitù, Dio impegna se stesso fino in fondo per la nostra felicità. Per questo il suo Figlio si è fatto uomo. Per questo non esiterà a lottare a mani nude contro ogni cattiveria e contro ogni odio, contro ogni brutalità e contro ogni menzogna. Fino a ferirsi. Fino a venir condannato alla morte di croce. Fino a versare il suo sangue. Storia di un amore che non sopporta l'umiliazione, l'abbruttimento, il sopruso, l'emarginazione. Storia di un amore che non si manifesta attraverso proclami, ma con gesti precisi, costosi, audaci, in cui la liberazione dell'uomo comporta rischi e costi molto alti. Storia di un amore che possiamo annunciare solo se siamo disposti a compiere gli stessi gesti, a fare le stesse scelte.
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