giovedì 12 febbraio 2009

15 Febbraio 2009 - VI Domenica del Tempo Ordinario

Cos’è il dolore
Gesù esce dalla sinagoga e inizia a guarire la suocera di Pietro; poi evangelizza, scaccia i demoni e conclude la sua giornata pregando.
Noi, molto spesso, usciamo dalla chiesa e chiudiamo ben bene il cassetto del nostro ego religioso: se ne riparlerà tra una settimana; Dio ha avuto già abbastanza la sua razione di devozione.
Gesù trova nella preghiera la forza per cambiare, per lasciarsi consumare dagli altri, per rendere presente con la sua vita, il Regno di Dio, per raccontare non la "buona novella", ma diventando lui stesso buona novella, la buona notizia di un Dio che si è avvicinato a noi.
In questo percorso, in maniera brutale, inquietante, scomoda, Gesù fa esperienza del male nella sua forma più misteriosa: la malattia e il dolore che la accompagna.
Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini (le guerre sono opera nostra: Dio non c'entra!), ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.
Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente: ognuno di noi ne deve fare in conti quasi quotidianamente.
La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola.
Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice.
Quando si è giovani si pensa ingenuamente di essere dei privilegiati, ci si illude pensando che la sofferenza a noi sarà risparmiata o, almeno, ci arriverà ma in maniera molto attenuata.
Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente?
I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto.
Molti percorsi di sofferenza sono stati individuati, nel corso della propria esperienza religiosa, come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, oppure come strumento di prova per raffinare la propria fede.
L’uomo soffre, come soffrono tutte le creature di questo mondo: ma l’uomo è anche l'unico essere vivente che si pone domande sul senso della vita, e soprattutto sul senso della morte, sul perché della sofferenza.
Troppo spesso però le sue risposte sono ben lontane dal dare una spiegazione, un significato valido della sofferenza, soprattutto quando, con allucinante convinzione, accusa Dio di essere la causa di ogni avversità, il dispensatore vendicativo di malattie, dolori, disgrazie di ogni genere.
«Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire»; «Dio prende con sé sempre i migliori»; «Quand’è che Dio mi lascerà in pace»…
Sono modi di dire, è ovvio; espressioni che diamo per scontate, ma che negano il vero volto del Dio misericordioso di Gesù, fonte di ogni consolazione e pietà.
Nella nostra smania di voler dare una spiegazione razionale a tutto, cadiamo nel più irrazionale dei ragionamenti, senza accorgerci dell’assurdità delle nostre conclusioni.
La Parola di oggi cerca di illuminarci in qualche modo sul comportamento da tenere.
Gesù, dopo aver guarito il lebbroso, gli chiede il silenzio.
Certamente lo fa perché non vuol passare come un guaritore, come un santone, ma soprattutto perché vuole indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore.
Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo riscatta, lo salva, lo riempie di condivisione.
Gesù non dona nessuna risposta al dolore, ma lo condivide con passione.
Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso.
No: Gesù, come letteralmente spiega il verbo greco, splag-cnšuw, prova rabbia, stizza irrefrenabile [letteralmente “si rode le viscere”, senso figurato tratto dall’atto di mangiare le viscere delle vittime dopo la loro offerta sacrificale] verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico.
La vita è dolore, un dolore inevitabile, concludono i vari pensatori di questo mondo.
La vita è dolore, concludeva anche il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire.
Gesù invece propone, nella solidarietà condivisa, l'alternativa al dolore. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.
Un esempio di dolore condiviso? Padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un'isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all'inumanità della malattia.
Padre Damiano morirà a Molokai, facendo rinascere la dignità di queste persona, dando loro fede, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati a un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
A ben riflettere però, siamo tutti dei lebbrosi: perché il peccato, sempre più espressione della vita di quanti sono lontani da Dio, è la lebbra più infettiva di oggi e si diffonde con una tale rapidità tra il genere umano, che è difficile arginarla.
È necessario pertanto fare ciò che ha fatto il lebbroso del Vangelo di oggi: inginocchiarsi davanti al Salvatore dell'umanità e chiedere la guarigione della mente e del cuore perversi.
Soprattutto di quelle menti diaboliche che pensano e concepiscono il male in ogni angolo della terra e poi lo portano a compimento.
Tali lebbrosi morali sono estremamente pericolosi perché possono, come di fatto sta succedendo, prendere piede nella società odierna e seminare odio e vendetta nel nome dello stesso Dio.
I fatti di questi giorni ai quali stiamo assistendo, con violenze di ogni genere, ci confermano che il Demonio si è insinuato nella vita di tanti esseri umani, al punto tale che il male passa per il bene ed il bene per il male.
A questo sistema di pensiero, infettante come la molteplicità dei virus che attaccano la vita umana, bisogna porre argine per far emergere il miracolo della guarigione che parte dalla compassione e dalla condivisione.
Spesso siamo quindi noi stessi più lebbrosi dei lebbrosi fisici e non ce ne accorgiamo, perché sappiamo nascondere talmente bene le nostre malattie dell'animo, che siamo sepolcri imbiancati, cioè belli esternamente, ma gravemente ammalati interiormente.
Queste malattie vanno curate con una forte terapia di amore verso Dio e verso i fratelli, perché solo chi mette al centro della propria esistenza Cristo e in Lui riconosce l'unico salvatore può trovare la via della sua guarigione.
Si tratta, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Corinzi di oggi, di imitare Gesù Cristo e di non essere di scandalo a nessuno con il proprio modo di agire:
«Fratelli, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l'utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Argomenti di grande attualità che ci pongono davanti alle nostre responsabilità individuali e comunitarie, perché ci richiamano alla coerenza con le scelte di vita che abbiamo fatto in una visione cristiana dell'esistenza.
Coerenza che già di per sé è un invito a seguire le orme di Cristo e lasciarsi prendere totalmente da Lui, come avvenne per l'Apostolo delle Genti, quando si convertì al cristianesimo.

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