Gv 15, 26-27; 16, 12-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Pentecoste deriva dal greco “pentekosté heméra”, che significa “cinquantesimo [giorno]”; è la festa che si
celebra appunto cinquanta giorni dopo la Pasqua. Per gli antichi cinquanta era
il numero della pienezza di un tempo: Pentecoste, il cinquantesimo giorno,
indica infatti che un tempo è finito: è il tempo vissuto dal Gesù terreno, il
tempo dei suoi insegnamenti, delle sue apparizioni, e apre un nuovo tempo, il
tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Ma cosa è successo negli
ultimi giorni di quel tempo a Gerusalemme? Gesù è morto e gli apostoli ancora
impreparati sono presi dalla paura: “Che accadrà adesso? La nostra guida, il
nostro capo, se n’è andato, è stato ucciso; cosa ne sarà di noi?” Per loro è un
momento di crisi profonda, radicale, decisiva. Improvvisamente, però, come
aveva promesso Gesù, i cieli si aprono su di loro e lo Spirito di Dio scende su
di loro, invade i loro cuori, trasforma radicalmente la loro vita.
Quante volte ci troviamo
anche noi in situazioni di grande tensione, di malessere interiore: all’esterno
tutto sembra andare per il meglio: viviamo tranquillamente la nostra vita, abbiamo
il lavoro, la salute, una famiglia che ci ama, tanti amici che ci stimano; nonostante
ciò, nel nostro intimo, siamo spenti, procediamo meccanicamente, per forza
d’inerzia: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole, siamo generosi, ma non c’è
slancio nella nostra fede, non c’è passione; se parliamo dell’amore di Dio
sembriamo degli stanchi e indifferenti precettori non degli innamorati, perché?
Anche se all’esterno veniamo rispettati, tutti ci considerano dei bravi
cristiani, dentro di noi non ci piacciamo, siamo insoddisfatti, ci rendiamo
conto che non è esattamente questa la vita che dovremmo vivere. Che fare
allora? Come risolvere queste situazioni? Abbandonandoci completamente nelle
mani di Dio: Lui sa di chi e di cosa abbiamo bisogno: in questo modo la nostra
fede riacquisterà forza e vigore, il suo Spirito trasformerà la nostra mente,
il nostro cuore, la nostra anima: Lui prenderà in mano la nostra vita. Sarà insomma
la nostra Pentecoste.
Un evento, la Pentecoste, che
ha marchiato intimamente gli apostoli, li ha trasformati in altre persone,
completamente “nuove”, diverse da prima. Da poveri pescatori, che per
sopravvivere erano costretti ad un lavoro ingrato, pesante, monotono,
frustrante, rinascono improvvisamente come depositari, sostenitori e
annunciatori in tutto il mondo, del rivoluzionario messaggio spirituale di
Gesù. Da una totale, quasi infantile, dipendenza da Lui, passano ad una totale
autonomia, alla loro piena libertà di pensiero. Parlano una lingua “altra”, sconosciuta,
che però tutti, nonostante la diversità dei rispettivi idiomi, capiscono
perfettamente; ogni timore, ogni dubbio, ogni incertezza, ogni debolezza,
scompaiono all’istante; lo Spirito di Dio scende in loro e satura la loro
anima.
Prima, Gesù era “fuori” di loro: il loro era un rapporto puramente esteriore, passavano
cioè le giornate insieme, mangiavano insieme, parlavano con Lui. Ora, quel
Gesù, morto e risorto, è “dentro di loro”, sentono, forte e chiara, la presenza
del suo Spirito. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora sanno
benissimo che nessuno potrà mai toglierlo dalla loro vita.
Ecco, la Pentecoste dovrebbe produrre
anche in noi un deciso salto di qualità: un salto che, da come siamo ora,
freddi, insignificanti, insapori, ci trasformi in persone appassionate,
entusiaste, animate da un fuoco interiore: in persone che vivono una nuova vita
con Dio, condividendo con Lui una personale, profonda, intimità.
Se non ci apriamo, se non
accogliamo lo Spirito di Dio, la nostra vita continuerà a trascinarsi nella
mediocrità, nella tiepidezza: non potremo “sentire” la sua voce, non potremo
parlare con Lui, non apprezzeremo la forza della sua guida; non arriveremo mai
a capire che Lui è il nostro tutto, che con Lui dentro di noi, le prospettive
del domani, della vita, del mondo, cambieranno radicalmente di aspetto e di
valore.
Così, per esempio, nel nostro
vivere la Chiesa: senza la nostra Pentecoste, resteremmo superficiali esecutori
di “riti” ripetitivi, spesso incompresi; la nostra fede rimarrebbe involuta,
non maturerebbe. Al contrario, nella nuova dimensione, Dio non è più una
regola, un precetto, una formula; è sempre invece la Persona meravigliosa di
cui innamorarsi, una realtà che ci conquista completamente: in particolare è il
Padre, modello di libertà, di energia, di coraggio; è lo Spirito santo, che con
il suo amore ci incendia l’anima, ci cauterizza le ferite, ci infonde i suoi
doni, i suoi carismi: è il Consigliere, l’Avvocato, il Maestro, l’Ispiratore,
grazie al quale, finalmente, tutto nella nostra vita acquista autenticità!
Certo, noi crediamo nello
Spirito Santo: ma siamo altrettanto certi di conoscerlo veramente? Da cristiani
quali ci professiamo, che rapporti concreti intratteniamo con Lui? Se girassimo
tale domanda a quanti incontriamo per strada, i più, sicuramente, non
saprebbero cosa rispondere. E non sanno rispondere, perché effettivamente non
lo conoscono, non ne hanno mai fatto un’esperienza diretta, non lo hanno mai
vissuto, godono dei suoi doni senza sapere cosa sono e da dove vengono. Molti
pensano che lo Spirito di Dio riguardi solo Lui, che non abbia nulla a che
vedere con noi, con la nostra corporeità; al massimo lo considerano un di più,
un vago optional, prodotto dalla fertile fantasia religiosa: quindi un qualcosa
di cui l’uomo può anche farne a meno. Ma lo Spirito Santo non è un accessorio, non
è frutto di una ideologia: è al contrario l’elemento imprescindibile che ci
dona la vita, è qualcuno che convive con noi dentro di noi, dal primo istante
del nostro concepimento, è colui con il quale, ancorché inconsciamente,
condividiamo la nostra essenza di persone razionali; è la “fiamma pilota” che
mantiene accesa la nostra debole esistenza, che illumina la nostra coscienza, le
nostre scelte, la nostra intelligenza: è insomma la nostra anima, quell’elemento
essenziale che presiede alla nostra sopravvivenza corporea, per poi
ricongiungersi con l’Altissimo.
Sentiamo spesso nelle
prediche la raccomandazione di essere creature “spirituali”, di rispettare lo
Spirito che abita in noi: un comportamento che non consiste nel pregare continuamente,
senza sosta, nel compiere grandi opere di carità, frequentare quotidianamente la
chiesa, partecipare a tutti i pellegrinaggi nei luoghi sacri. “Essere
spirituali” significa semplicemente vivere facendoci guidare dallo Spirito di
Dio, che non è chissà dove, ma dentro di noi. È il modo cristiano di
rapportarci con Dio, di ricambiare il suo amore profondo, di condividerlo con i
nostri fratelli, con le persone che ci circondano. Quando i santi guardavano le
persone che incontravano, non si fermavano al loro aspetto esteriore, alle loro
caratteristiche personali, ma erano affascinati dallo Spirito di Dio che trapelava
inconfondibilmente dalla loro corporeità.
Gesù fu per eccellenza l’uomo
del vedere oltre l’apparenza esteriore, del guardare dentro, del considerare la
realtà “superiore”, divina, dell’essere umano. Questa cosa Lui la chiamava “Regno
di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso futuro, ma
è presente qui, ora, è l’oggi; dipende dai tuoi occhi, da come ti guardi
intorno”. Quando infatti egli incontrava i sofferenti, i derelitti, i
poveracci, le donne bisognose, persone che tutti evitavano, Lui le abbracciava,
le ascoltava, appagava il loro bisogno di amore; vedeva i peccatori e mentre
tutti li giudicavano e li condannavano fermandosi all’apparenza (“Siete dei
disgraziati lontani da Dio!”), Lui andava “dentro”, sapeva scorgere la luce profonda,
la forza interiore, il desiderio di vita, nascosti dentro di loro. Un esempio? Sul
Golgota, al suo fianco, era crocifisso un peccatore, un assassino: e mentre
tutti vedevano in lui il malfattore, il delinquente, Lui gli disse: “Oggi
sarai con me in Paradiso”. Prima di esalare l’ultimo respiro, mentre tutti
coloro che lo conoscevano provavano sdegno e rabbia verso i suoi carnefici, Lui
al contrario vide in essi la tenue luce dell’anima, soffocata purtroppo dalle
tenebre dell’odio: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”.
Ebbene: noi, suoi moderni
discepoli, come ci comportiamo col nostro prossimo? Cosa vediamo in loro? Beh,
noi non abbiamo tempo per “guardarlo”: abbiamo un sacco di cose da fare,
dobbiamo correre, dobbiamo lavorare, dobbiamo produrre! E questo ci preoccupa,
ci assilla continuamente, ci tormenta l’esistenza: siamo sempre insoddisfatti,
mai pienamente felici. Non ci accorgiamo che invece di progredire siamo sempre fermi,
immobili, sempre allo stesso punto di partenza. Preoccupati solo del materiale,
non abbiamo tempo per lo Spirito, per fermarci a guardare la vita alla luce di
Dio: questo è il nostro vero problema!
Ci siamo mai chiesto perché
nel chiudere le porte, invece di accompagnarle, le sbattiamo? Perché urliamo
sempre invece di parlare normalmente? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché,
se possiamo imbrogliare gli altri, lo facciamo volentieri? Perché nulla più ci
commuove? Perché non c’è mai luce e serenità nel nostro volto? Perché non
sappiamo più esprimere sentimenti nobili? Perché non sappiamo più dire neppure “grazie”? Per un motivo molto semplice:
perché da “Spirito” che eravamo, ci siamo trasformati in “materia”.
Da cosa ce ne accorgiamo?
Semplice: siamo, per esempio, “materia” quando, all’inizio del nuovo giorno, ci
preoccupiamo di organizzare soltanto gli impegni di lavoro, le opportunità di
guadagno; siamo invece “spirito” quando consideriamo quel giorno un’ulteriore
opportunità offertaci da Dio per riservare amore a Lui e al prossimo; siamo “materia”
quando ci irritiamo per qualunque cosa, siamo “spirito” quando ci chiediamo
cosa non funziona in noi e cerchiamo di migliorarci; siamo “materia” quando ammiriamo
nella donna il solo fascino esteriore, siamo “spirito” quando vediamo in lei la
bellezza della sua anima e della sua dignità materna; siamo “materia” quando
respiriamo e basta (avviene in automatico), siamo “spirito” quando sentiamo che
il respiro, è vita, è dono, è la “ruah”, il soffio creatore di Dio. L’intera
nostra vita, pertanto, può essere sempre terribilmente materiale o
meravigliosamente spirituale, piena di buio deprimente o di luce esaltante:
renderla divina, appassionata, entusiasmante, dipende solo ed esclusivamente da
noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, dalla nostra anima.
Questo è il motivo per cui ci
serve veramente la Pentecoste: ben venga quello Spirito che mette in crisi la nostra
indifferenza; uno scossone dirompente che finalmente distrugga i nostri
nascondigli, le nostre becere scusanti, che ci costringa ad abbandonare i
nostri cenacoli di paura, la nostra materialità. Quello Spirito di Dio che ci
faccia camminare a testa alta sulle vie della vita, incuranti del mondo,
impassibili di fronte alle sue insidiose e inutili lusinghe, raggianti nel
volto, illuminati dal calore del Suo amore. Amen.
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