«In quel tempo Gesù disse ai
suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà
l’altro…» (Mt 6,24-34)
Siamo
sempre nel grande “Discorso della montagna”, considerato dagli studiosi come il
“manifesto” di Gesù. Il brano che la liturgia ci propone in questa domenica, si
apre con una esortazione programmatica: “siate voi stessi; nella vita perseguite
un solo ideale; scegliete bene la vostra strada e siate costanti nel
percorrerla, non cercate ovunque la soluzione dei vostri problemi, non ne
verrete mai a capo”. Giusto, diciamo noi: ma come riusciamo a coniugare la
decisione di “servire un solo padrone” con i mille problemi di sopravvivenza
con i quali dobbiamo fare quotidianamente i conti?”. Si può e si deve, dice il
vangelo: l’essenziale è fare le proprie scelte alla luce della fede, perché è
con la fede che si può contare in ogni occasione sulla provvidenza di Dio.
E
andiamo ai particolari del testo:
“Nessuno può servire due padroni, perché o
odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà
l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Parole
note, sentite migliaia di volte, che tuttavia non abbiamo mai preso in seria
considerazione. Anche perché, ripeto, ci sembrano illogiche, fuori dalla
realtà, impraticabili.
Come
la mettiamo per esempio con i doppi, i tripli “servizi”, e anche di più, con i
quali spesso ci misuriamo nell’arco della “giornata”? E poi, è proprio vero che
se si ama un padrone automaticamente dobbiamo disprezzare l’altro? È proprio vero
che se preferiamo uno dobbiamo detestare l’altro? Nossignori, non è vero: tant’è
che a noi capita spesso di sperimentare amore e apprezzamenti per l’uno e per
l’altro “padrone”. Ma come al solito non è come pensiamo noi! Il Vangelo non si
esprime in questo senso.
Qui i
verbi “amare e odiare” non si riferiscono alle emozioni umane, agli stati d’animo,
che un dipendente deve nutrire nei confronti del padrone; essi piuttosto
intendono “qualificare” in senso positivo (amare) o negativo (odiare) gli
effetti di una nostra scelta; non importa quale essa sia, l’essenziale è che
deve essere una sola tra due alternative. È impossibile infatti cavalcare
contemporaneamente due cavalli; come non possiamo stare nello stesso momento in
due località diverse. Non possiamo insomma, nel corso della nostra breve vita, seguire
contemporaneamente due stili di vita, opposti e incompatibili tra loro: o amiamo
l’uno e odiamo l’altro, o viceversa.
“Nessuno può servire due padroni”: il senso letterale ci apparirà più chiaro se lo
retrodatiamo ai tempi di Gesù: allora il servo, lo schiavo, aveva sempre, per
definizione, un unico padrone. Per cui, dice il vangelo, se ha un padrone, non
può averne un secondo; quindi, è impossibile anche per voi essere contemporaneamente
servi di due padroni, non potete cioè “servire”, essere “schiavi”, di Dio e di
mammona. Ma chi è questo “Mammona”? Cosa vuol dire essere schiavi di mammona?
Con “Mammona”
(in ebraico “ma’amùn”, con la stessa radice di “emunà” = fede) gli antichi
intendevano qualcosa che “dava fiducia”, un qualcosa su cui si poteva contare, fare
affidamento: per cui “mammona” erano quei beni, quelle sostanze, che
assicuravano una dignitosa sopravvivenza per il domani. Un termine quindi privo
di qualunque connotazione negativa. Solo secoli più tardi esso ha assunto il valore
di ricchezza disonesta, di beni conquistati iniquamente, con l’inganno, con
egoismo vorace, senza scrupoli; in tal senso “mammona” è diventata sinonimo di “immorale,
di iniquità, di male in assoluto”, di qualcosa insomma decisamente negativa. Per
Gesù quindi questo termine è decisamente “negativo”: per cui è proibito
dedicare a “mammona” ogni nostra iniziativa, proibito trasformarla in un assillo
esclusivo, proibito “sceglierla” e rincorrerla come stile di vita, proibito insomma
sottostare alle sue imposizioni, diventare suoi “servitori”, suoi schiavi.
Nella
nostra vita si impongono pertanto, quotidianamente, delle “scelte oculate”. Ma in
che cosa consiste esattamente questo nostro “scegliere”? Ebbene: “scegliere” vuol
dire optare per “questo” e non per “quello”; vuol dire dirigere le nostre
risorse, il nostro amore, tutto il nostro potenziale, in un’unica direzione, su
di un’unica direzione, perché tutto e il contrario di tutto non possono simultaneamente
coesistere. Scegliere vuol dire “plasmare” la nostra vita, darle valore: trasformarla,
con le nostre scelte, in una vita onesta, dignitosa, corretta. Attenzione però:
perché anche con le nostre “non scelte” sono già una scelta; una scelta peraltro
improponibile per gente come noi che abbiamo scelto di camminare al seguito di
Gesù.
Ogni scelta,
insomma è un “sì” a qualcosa e un “no” a qualcos’altro: qui, la nostra scelta
deve avvenire tra Dio e Mammona: non tanto tra un bene e un male ma, come ho
detto, tra due diversi e incompatibili stili di vita. Gesù infatti, poco prima,
ci aveva già messo in guardia:
“Non accumulate per voi tesori
sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano;
accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e
dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà
anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21).
I
tesori della terra, “mammona”, sono precari, sono soltanto cibo per il corpo:
non sono cattivi, ma sono limitati, distolgono l’attenzione da cose più
importanti e indispensabili, danno solo una “parvenza” di sicurezza,
nient’altro. I tesori del cielo, Dio, sono invece definitivi, sono cibo per l’anima:
la riempiono, la fanno sentire davvero viva, vitale, felice.
La
scelta spetta solo a noi: tocca a noi scegliere a che livello vivere, se con Dio
o Mammona, se con la sicurezza o la caducità; facciamolo subito e bene! Se poi,
attratti dalle lusinghe di questo mondo, la nostra vita non è come pensavamo, non
lamentiamoci: perché gli unici responsabili delle nostre scelte siamo noi.
Se
pensiamo che l’Eucaristia domenicale, gli incontri di “Ascolto della Parola”,
di meditazione, di preghiera solitaria, siano “inutili”, tempo perso, e preferiamo
vivere nello sconforto, nella frustrazione, nessun problema, nessun dramma:
dipende solo da noi, siamo noi che scegliamo di vivere così!
Se non
frequentiamo mai alcun corso di approfondimento religioso in cui imparare a
crescere, a conoscere meglio la nostra fede, a metterci in gioco, a conoscerci nel
profondo, a “convertire” la nostra vita, e ci sentiamo insoddisfatti,
irrealizzati, privi di serenità, non lamentiamoci: siamo sempre noi che scegliamo
di vivere a questo livello. Se il nostro unico pensiero, la nostra idea fissa, è
quella di aumentare sempre più i nostri soldi; se siamo ossessionati dalla
paura di essere criticati, giudicati male, inferiori agli altri; se le nostre
preoccupazioni sono soltanto quelle di dove andare in vacanza, di quale vestito
comprare, di quale moda da seguire, non lamentiamoci: siamo ancora noi che scegliamo
cosa mettere al primo posto nella nostra vita.
Noi
che ci riteniamo intelligenti, ottimi conoscitori di come vanno le cose del
mondo, cerchiamo furbescamente di convivere con Dio e Mammona, saltellando un
po’ dall’uno e un po’ dall’altra. Attenzione però: perché Dio può anche tollerare
di essere ignorato, ma mai di essere messo al secondo posto. Non sarebbe Dio. Quindi
facciamo le persone serie e decidiamoci: o l’Uno o l’altra; decidiamoci cioè se
seguire Dio, Amore eterno, o gli idoli appariscenti destinati al nulla. Se
essere figli del Dio vivente, nello splendore della Luce e dell’Amore vitale, o
diventare delle maschere fredde, senza vita, buie, ombre funeree di noi stessi.
Dipende solo da noi. Dipende dalla passione e dalla serietà con cui scegliamo,
dalla fedeltà e decisione con cui poi difendiamo la scelta fatta: per essa
dobbiamo insistere, faticare, lottare.
A
questo punto facciamoci una domanda: cosa riteniamo essenziale per la nostra
vita? Cosa abbiamo messo al primo posto? C’è un modo per saperlo? Certamente: perché
nel nostro cuore occupa il primo posto ciò a cui pensiamo di più, ciò che
condiziona continuamente la nostra attenzione, le nostre preoccupazioni, i
nostri interessi! Per cui se pensiamo continuamente a goderci la vita, vuol
dire che al primo posto ci sono i soldi. Se il nostro assillo è la disonestà
della gente, perché fa di tutto per imbrogliare, per farsi solo i fatti suoi,
allora al primo posto c’è la diffidenza. Se pensiamo sempre di essere delle
vittime, di essere ingiustamente il bersaglio della cattiveria altrui, allora al
primo posto c’è la rabbia. Se la nostra preoccupazione principale è quella di vestirci
sempre all’ultima moda, di esibire continuamente il nostro fisico atletico, vuol
dire che al primo posto c’è la vanità, l’ammirazione da parte degli altri. Se temiamo
sempre di sbagliare, che ogni cosa che facciamo, se sia giusta o sbagliata,
allora al primo posto c’è l’insicurezza, l’indecisione, la sfiducia, la paura
di decidere.
Ma se
vediamo sempre il lato bello, il lato positivo delle cose, allora al primo
posto c’è la fiducia, c’è l’amore. Se vediamo sempre che le contrarietà della
vita “non sono poi così gravi”, vuol dire che al primo posto c’è l’ottimismo.
Se siamo convinti che nell’intimo dei nostri fratelli ci sia sempre un lato
buono, ci sia del bene, che se fanno “certe” scelte le fanno più per paura, per
necessità, che per cattiveria, allora in loro vediamo sicuramente Dio.
Cosa c’è
dunque di più importante nella nostra vita? A cosa pensiamo sempre? Perché
tutti noi siamo “servi” di qualcuno o di qualcosa. Tutti noi “dipendiamo” da colui
o da ciò che, nella nostra scala delle priorità, occupa il primo posto: quello
è il nostro Dio; quello è il Dio o l’idolo che serviamo, il Dio o l’idolo a cui
abbiamo votato la nostra fedeltà.
“Non preoccupatevi dunque
dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di
tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa
che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,31-33). Sono versetti altrettanto noti. Parole che sgorgano
dal cuore, che sono un’autentica poesia, un’ode, un inno, un canto di Gesù in
onore del Padre. Cerchiamo di capirle meglio.
Prima
di tutto il “Non preoccupatevi”: cosa
intende qui Gesù con “preoccupazione”? Questo termine (dal greco merimnao che significa “preoccuparsi,
affannarsi, darsi preoccupazione, angustiarsi”) ricorre in questo testo per ben
quattro volte: e sempre con un significato decisamente diverso dal nostro. La
preoccupazione per noi è un sentimento passeggero, circoscritto, riguarda un
aspetto particolare della nostra vita. Noi, per esempio, ci preoccupiamo se una
persona cara ritarda notevolmente ad un appuntamento: ma poi appena arriva, la nostra
preoccupazione scompare. Così pure ci preoccupiamo per un esame, per cosa
servire a tavola agli invitati, per come comportarci per fare sempre bella
figura con tutti, ecc. Uno stato d’animo occasionale, contingente, temporale,
accessorio.
Al
contrario quando il vangelo parla di “preoccupazione” non intende un sentimento
passeggero, destinato a cessare, ma un fenomeno persistente che coinvolge la
totalità della nostra mente. Preoccupazione è allora un qualcosa che si impone
continuamente alla nostra attenzione, che assorbe ogni nostro pensiero, che fa
passare in seconda linea tutto il resto.
In
ogni caso, per accettare il contenuto di questi versetti dobbiamo ricorrere
alla fede: senza il filtro della fede, gli esempi portati da Gesù non sono
reali, condivisibili. Infatti, è proprio vero che gli uccelli del cielo sono
nutriti dal padre celeste? No, perché anche loro devono faticare e volare per
trovare di che nutrirsi. È proprio vero che i gigli del campo non lavorano? No,
perché dentro la pianta c’è un lavorio enorme. È proprio vero che mangiare e
bere ci viene dato in aggiunta? No, perché il cibo e l’acqua sono essenziali e non
ci cadono dal cielo.
Pertanto,
da un punto di vista materiale, tutto dipende da noi, non da Dio: se non ci diamo
noi da fare, non mangiamo e non beviamo. Ma se guardiamo le cose dal punto di
vista spirituale, se guardiamo con gli occhi della fede, allora tutto effettivamente
dipende da Dio. Gli uccelli sono nutriti dal padre celeste? Certo. E i gigli
vestiti meglio di Salomone? Certo! Se guardiamo nostro figlio appena nato, è naturale
che lo consideriamo una creatura “nostra”. Ma se lo guardiamo con altri occhi,
come possiamo dire che è opera nostra? È un miracolo, è un dono: non siamo noi che
l’abbiamo creato, che gli abbiamo infuso l’anima, lo spirito. È stato Qualcun
altro. Quando guardiamo un tramonto meraviglioso, le stelle o la luna, il
volgere puntuale delle stagioni, sappiamo certamente la spiegazione dal punto
di vista scientifico; ma con altri occhi non possiamo non riconoscere che tutto
è mosso da Lui. Quando siamo felici, quando siamo traboccanti d’amore, quando ci
viene da dire: “Potrei anche morire da quanto sono felice”, questa felicità,
questo amore, viene realmente da noi? Siamo noi gli autori di queste
sensazioni? Se guardiamo umanamente la nostra vita realizzata, felice, pensiamo
giustamente di essere noi gli autori di tutto, ma con gli occhi più profondi del
cuore non possiamo non convenire che qualche angelo ci ha sempre protetti e
indirizzati.
“Fede”
allora vuol dire che la vita è più di quello che vediamo. Per cui Gesù qui
voleva dire: “Guarda oltre gli
uccelli del cielo; oltre i gigli del
campo! Guarda “oltre”, e troverai
qualcos’altro, troverai Qualcun altro”. Allora, quando guardiamo una cosa,
guardiamo oltre; quando guardiamo una
persona, guardiamo dentro di lei.
Omettere ciò significa essere “superficiali, significa fermarsi alla superficie
delle cose: in tal caso la montagna è un ammasso di detriti, sassi, alberi e
terra; la persona, un insieme ordinato di muscoli, tessuti, nervi, cellule,
ecc.; la vita, un susseguirsi incalzante di avvenimenti scanditi dal tempo. Ma
è tutto qui? Assolutamente no: guardare con gli occhi della fede non equivale
ad essere ciechi, a non vedere cosa c’è attorno o vicino a noi, essere cioè
fuori dalla realtà. Fede, ripeto, è vedere “oltre”, vedere “dentro” le cose, dentro
le persone, dentro gli avvenimenti; è vedere la vera realtà, la vera essenza di
ogni cosa, è andare oltre la crosta, l’aspetto esteriore.
Le
parole di Gesù, insomma, non sono un invito alla pigrizia, non sono un insulto
a quei poveri che lo seguono, per i quali non preoccuparsi del cibo oggi, significa
non mangiare domani. Le sue non sono parole che introducono una filosofia di
vita apatica, stoicista o meglio atarassica!
Niente
di tutto ciò. Non facciamo confusione!
Questo
vangelo, al contrario, deve farci riflettere, deve interrogarci su alcune cose
fondamentali. Prima di tutto, ci fa sapere che per le nostre scelte vitali, per
la scelta della via buona, è indispensabile la luce dalla fede. È la fede che
deve essere “lampada per i nostri passi”. Per questo dobbiamo sempre parlare il
linguaggio della fede; quella stessa fede che siamo chiamati a trasmettere ai nostri
fratelli.
Una
fede che non consiste nelle parole, nei discorsi, ma nel mistero. “Mistero”, che
viene dal greco “miein”, vuol dire “rimanere senza parole, a bocca aperta”.
È la sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di troppo grande, di talmente
forte, intenso, bello, enorme, che nessuna parola può in realtà contenere. Il
linguaggio della fede, allora, è musica, è danza, è stupore, meraviglia,
entusiasmo (in greco entusiasmo vuol
dire avere un Dio dentro); è
commozione, pianto, vulnerabilità, tenerezza, compassione; è passione (da pathos che vuol dire percepire, sentire, patire). La fede insomma
è la percezione del Mistero di Dio che ci abita.
Riusciamo
noi a percepirlo? Sappiamo piangere? Sappiamo emozionarci? Sappiamo mostrarci
nella nostra vulnerabilità? Sappiamo chiedere scusa? Sappiamo gioire? Sappiamo
innamorarci? Sappiamo commuoverci? Sappiamo entusiasmarci? Se la nostra
risposta è “sì”, allora vuol dire che “sentiamo” la voce di Dio nel nostro
cuore; una voce che renderà il nostro cammino più sicuro, più deciso, più
coraggioso. Non per niente la fede elimina la paura. Un esegeta ha calcolato
che l’espressione “non temere”
ricorre 365 volte nella Bibbia, tante quanti sono i giorni dell’anno. Allora
ogni mattina facciamo tesoro di questa esortazione divina: alziamoci con la
certezza che nel momento del bisogno, Dio sicuramente ci fornirà tutte le
risorse necessarie, le capacità, le forze sufficienti per affrontare e superare
qualunque disagio della vita. O per accettarlo con cristiana rassegnazione. Non
sappiamo esattamente come, ma questa è la nostra fede.
“Non preoccupatevi dunque del domani, perché
il domani si preoccuperà di se stesso”.
Gesù
sa bene come è fatto l’uomo. Conosce molto bene le nostre debolezze, la nostra
voglia di rincorrere l’effimero, i lustrini del mondo, di affannarci, di agitarci
per qualunque bene tarocco, a costo anche di rinunciare alla vera bellezza
della vita, all’autenticità dell’amore.
Lui sa
che noi vorremmo essere sempre al sicuro, avere tutte le certezze: degli
affetti, del tempo, delle cose, di tutto insomma. Che noi vorremmo
avere tutto e subito: oggi, per essere tranquilli domani. Ma il futuro non
offre garanzie: il domani è nelle mani di Dio: e nel momento stesso in cui pensiamo
di averlo toccato, di goderlo, ci sfugge inesorabilmente di mano. Per questo
ci insegna di affidare il nostro domani alla provvidenza del Padre, accogliendo
con semplicità e riconoscenza quell'oggi che Egli ci concede di vivere.
Allora,
nella serenità di chi si sente affrancato da ogni “preoccupazione” terrena,
accogliamo con gioia il messaggio del Vangelo.
Chi sceglie
di seguire Gesù è veramente felice, perché libero. È libero di darsi ai
fratelli con cuore lieto e generoso; è libero di appassionarsi alla propria
vita, sapendo che essa è un dono di Dio. Un dono immeritato e sovrabbondante. È
libero di cercare quel Regno di Dio, promesso ai servi fedeli. Ed è proprio in
questo cercare umile, orante, continuo, settimana dopo settimana, vangelo dopo
vangelo, che noi riusciremo a raggiungere il vero senso della vita. Senza peraltro
mai “possederla”: perché possedendola, torneremmo inesorabilmente ad essere
schiavi delle preoccupazioni, degli affanni, degli accumuli, dei piaceri smodati,
delle ipocrisie di questo mondo.
Cercare
tuttavia non è garanzia di comprendere tutto; ci offre però la possibilità di
imparare. Di vivere. Di amare. Le cose belle della vita non sono lontane da
noi: le troviamo nelle pieghe del nostro vivere quotidiano. Usciamo allora di
casa ogni mattina, ammiriamo le bellezze della natura, del creato, capolavoro di
Dio; spalanchiamo gli occhi e il cuore. Abbandoniamoci in Lui. E potremo
tuffarci in un oceano di bellezze, in un universo di meraviglie. E finalmente capiremo.
Capiremo sul serio che Gesù è fedele, è di parola. Capiremo che la vita è un suo
dono preziosissimo, un tesoro incalcolabile, oro puro. Amen.