venerdì 3 febbraio 2017

5 Febbraio 2017 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!» (Mt 5,13-16)

Il brano del vangelo di oggi si trova, come quello di domenica scorsa e tutti quelli delle prossime domeniche, nel Discorso della Montagna (Mt 5-7), che costituisce il programma di Gesù, il manifesto, la sintesi di tutta la sua predicazione: Gesù non ha scritto libri, non ha pubblicato manuali di comportamento, ma ha lasciato questo grande e meraviglioso “Discorso della Montagna”.
Il testo di oggi ci propone in particolare due immagini riferite da Gesù ai suoi: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!».
Da notare innanzitutto i due verbi “siete”; non sono degli imperativi (“dovete essere!”) ma degli indicativi: indicano cioè una condizione già in atto, già presente in noi: vivere in questo modo, è già nelle nostre possibilità. Noi siamo “sale”, siamo “luce”: quindi è naturale vivere di conseguenza.
Ma come è possibile, visto che sale e luce presentano due caratteristiche completamente opposte? Se la luce infatti è immediatamente percepibile, non altrettanto succede per il sale. Il sale non si vede: però lo sentiamo subito, lo riconosciamo, ne percepiamo la presenza, anche se non lo vediamo: ci è mai capitato di mangiare una pietanza senza sale? Ce ne saremo accorti immediatamente!
Sale e luce, sono pertanto due realtà che si impongono immediatamente all’attenzione di chiunque e quindi sono entrambe facilmente armonizzabili nella nostra vita.
Cerchiamo allora di cogliere nel dettaglio il significato di queste caratteristiche, che Gesù simbolicamente ha trasformato in “virtù” determinanti per i suoi discepoli.
Prima di tutto il sale. Quali proprietà emergono dal testo? Che è invisibile, che non si vede, che la sua presenza non è percepibile all’occhio, ma che se non c’è, se manca totalmente, ogni cosa perde di sapore, di gusto, tutto appare senza senso, senza incisività.
L’importanza del sale e la sua indispensabilità non era una novità ai tempi di Gesù: non è una sua. Sappiamo infatti dalla storia che anticamente questo minerale era ritenuto così importante, e apprezzato per le sue qualità, da divenire una preziosa merce di scambio; lo stesso Plinio il Vecchio, contemporaneo di Gesù, arriverà addirittura a scrivere: “Nihil sole et sale utilius”: non c’è nulla di più utile del sole (la luce) e del sale. Era inoltre sinonimo di garanzia, di validità di un patto, di un’alleanza: sulla stretta di mano con si esprimeva il reciproco consenso e si sanciva la legittimità contrattuale, veniva versato un pizzico di sale. Per i Greci, dire di “aver mangiato un moggio di sale”, significava affermare l’esistenza di una amicizia inseparabile con qualcuno. Una simbologia peraltro giunta fino a noi attraverso il vecchio rituale del Battesimo dei bambini, (è stato sostituito dal nuovo Rito nel 1970), che prevedeva la benedizione del “sale della sapienza” e la sua imposizione sulla bocca del battezzando.
Essere allora, come dice Gesù, “il sale della terra”, significa dare sapore, dare gusto, dare il giusto valore alle persone, alla vita, alle cose.
Ma cos’è che dà “sale” alla vita? Ci sono fondamentalmente due elementi che concorrono a ciò. Prima di tutto il “sentimento”: il sano piacere, il bello della vita, il “gusto” della natura, l’amabilità delle persone, delle cose, derivano dalle vibrazioni interne della nostra anima. Più “sentiamo” queste vibrazioni, più siamo sensibili a questi “impulsi” dell’anima, più la nostra vita avrà senso, più sarà significativa, più godrà di un valore aggiunto.
Ma che succede se noi non avvertiamo queste vibrazioni, se le percepiamo poco o nulla? Succede che rischiamo di perdere completamente il senso, il gusto della vita. Non sentiamo più nulla: viviamo come anestetizzati, desensibilizzati. Non disponiamo più del “sale” della gioia, dell’amore, della vitalità, della compassione; nulla più ci commuove, nulla più ci intenerisce.
Per cui, nel grigiore più totale, ci lamentiamo che la vita è noiosa; che la vita è un tran-tran monotono, che è sempre la solita; e trasciniamo i nostri giorni nella cupa rassegnazione, quando invece, nella realtà, la vita è ricchissima di emozioni, di bellezza, di amore. Siamo noi purtroppo che non le sentiamo. Succede un po’ come quando indossiamo gli auricolari del cellulare: ci isoliamo, intorno a noi cala il silenzio, non sentiamo più nulla; i rumori, i suoni della vita, la voce di chi ci rivolge la parola, diventano impercettibili: siamo tagliati fuori dalla realtà, dalla vita. Cosa fare allora? Dobbiamo toglierci le cuffiette! Per sentire la “vita”, il sapore di ogni cosa, dobbiamo toglierci i tappi che ci siamo messi, magari in un momento particolarmente difficile, problematico, doloroso. All’inizio forse sentiremo un gran dolore (è proprio per non sentirlo che ci siamo messi i tappi), ma se avremo pazienza e volontà, piano piano, risentiremo tutto il gusto della vita, l’armonia del creato, l’importanza delle persone.
L’altro elemento che ci ridà “sale”, che ci restituisce il gusto di vivere, è il “sentirsi utili”.
Accade spesso, purtroppo, che tanta gente si chieda con angoscia: “Che vivo a fare? A che serve questa mia vita? ”. Non hanno prospettive, non guardano lontano: vivono schiavizzati dalle problematiche del presente. Magari buone, come “servendo” i figli: certo, far crescere una vita li fa sentire senz’altro utili, importanti, li fa sentire qualcuno; è insomma una gran cosa; ma poi, quando i figli crescono e se ne vanno di casa per vivere la loro vita, si sentono inutili, isolati, si abbandonano a loro stessi, cadono in depressione. Come pure altre persone che si sentono insostituibili al lavoro: quando ad un certo punto vengono “scaricati”, vivono un trauma profondo, un autentico fallimento. Ci sono poi persone che hanno l’assoluta necessità di sentirsi attive, “utili”, importanti, insostituibili, tanto da arrivare ad odiare i superiori che non riconoscono il loro talento, la loro genialità, dimenticando di coinvolgerle nelle varie iniziative (quante volte succede anche negli ambienti religiosi, nelle parrocchie!); allora si sentono non valorizzate, accantonate, abbandonate, inutili.
Attenzione però: perché nell’uomo c’è anche un sano bisogno di essere considerato, di essere visto, di esserci per qualcuno, di “sentirsi utile” che lo porta a combattere, a darsi da fare, un bisogno che non si ferma di fronte alle difficoltà. È il bisogno di essere “sale”, di offrire cioè un servizio al prossimo, ai fratelli, all’umanità: e ciò si realizza non con l’isolamento, non con l’invidia, non con la bramosia di gloria e onorificenze, ma con un vivere in positivo, un vivere che produca “vita”, evoluzione, benessere, amore, crescita. È quando sentiamo nascere dentro di noi qualcosa di importante, come una “chiamata”, una passione particolare, sentiamo di avere dentro di noi dei doni, dei talenti che possono essere utili a questo mondo: allora ci rendiamo umilmente disponibili, ci offriamo, ci doniamo. In una parola siamo “sale”.
“Voi siete il sale della terra”. La terra è la vita di tutti i giorni: essere sale della terra vuol dire quindi aiutare le persone a dare un senso, il loro senso, alla vita, a tutto ciò che accade intorno a loro. Dobbiamo aiutarle a pensare che le cose non accadono per caso. Dobbiamo farli riflettere su ciò che vivono, a porsi delle domande, ad ascoltare la voce di Dio che parla in continuazione attraverso la storia, attraverso i fatti, gli eventi, gli incontri, di ogni giorno. A quanti si chiedono ancora: “Dio? Ma chi è Dio? Dov’è Dio?”, pensando che Lui se ne stia altrove a farsi i fatti suoi, dobbiamo dimostrare con la nostra vita che Lui c’è, è presente al nostro fianco, ci parla, ci educa continuamente, ogni giorno; ci dona la sua “sapienza”. La parola “sapienza”, che viene dal latino “sàpere”, vuol dire appunto “avere sapore”. Solo con Lui noi diventiamo saggi, sapienti, solo con Lui noi “gustiamo” la vita, e imparando dalle nostre esperienze, diventiamo “sale” per il prossimo.
L’altra immagine proposta dal vangelo di oggi è la “luce”: “Voi siete la luce del mondo!”.
La luce, la lampada ad olio, per una povera casa palestinese era tutto. Per noi moderni invece la luce ha perso la sua eccezionalità. Parole come quelle del Salmo 118: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”, hanno perso il loro fascino; per noi la luce non è una cosa rara, ce l’abbiamo sempre a portata di mano, a disposizione. Basta un pulsante per accenderla! Non così ai tempi di Gesù: anche una luce fioca, una piccola lampada ad olio, erano fondamentali.
Non dimentichiamo inoltre che “Dio”, in lingua sanscrita, vuol dire proprio “luce”. Una luce abbinata da sempre alla vita: “venire alla luce”, “dare alla luce”, significa “nascere”; spegnere la luce, “morire”.
In pratica, allora, cosa vuol dire Gesù con “voi siete la luce del mondo”?
“Luce del mondo” una volta era Gerusalemme; di lei il Profeta Isaia aveva infatti scritto: “Alzati, vestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60,1-3).
Ora però, con Gesù, Gerusalemme ha cessato di essere tale: realtà statiche, come una città, un tempio in muratura, sono state sostituite da nuove realtà dinamiche, vive, palpitanti: i discepoli che Gesù manda in tutto il mondo ad annunciare la buona notizia (Mt 28,20).
Sono loro la nuova “luce del mondo”, sono loro che, al pari di una città costruita sopra un monte, non potranno passare inosservati. In altre parole, chi segue Gesù, chi vive le “beatitudini”, il suo messaggio, chi annuncia il suo Vangelo, in una parola il suo “discepolo”, è automaticamente “luce”: è visibile da tutti, può illuminare tutti.
Che significato avrebbe infatti accendere una lampada e metterla sotto un “moggio”, sotto un recipiente? Una lampada accesa va messa in alto, su un candelabro, perché la sua luce sia godibile da tutti. Tutti cioè, vedendo questa “luce”, vedendo questi discepoli, potranno constatare che è possibile vivere come loro, che è possibile per tutti vivere in maniera diversa, in maniera nuova; tutti potranno rendersi conto che è possibile adottare un altro stile di vita, un altro modo di fare, un modo diverso di sentire, di relazionarsi, di amare.
Ecco perché la fonte della nostra luce devono essere le opere buone. Perché è la nostra vita, il nostro modo di viverla, la luce che gli altri devono ammirare, che gli altri devono imitare; è il nostro buon esempio, la nostra convinzione, il nostro vivere il Vangelo in modo serio e coerente. Gesù in pratica non ci chiede di frequentare università pontificie, non ci chiede di insegnare teologia, non ci chiede di fondare associazioni e gruppi di preghiera, ma ci chiede semplicemente di vivere le sue “beatitudini”, di testimoniare onestamente il suo Vangelo.
Con il nostro vivere “luminoso” dobbiamo in pratica dire a tutti: “Anche tu sei anima, sei spirito, sei emozione, sei divino, sei energia, sei canto, sei luce, sei forza, sei fuoco; anche tu puoi vivere nel Tutto perché il Tutto già risplende in te”. Senza la Sua “Luce”, senza lo Spirito d’Amore, senza una nostra vita in simbiosi con la Vita, non c’è possibilità di salvezza per questo mondo! Amen.



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