«Voi siete il sale della terra…
Voi siete la luce del mondo!» (Mt
5,13-16)
Il
brano del vangelo di oggi si trova, come quello di domenica scorsa e tutti
quelli delle prossime domeniche, nel Discorso della Montagna (Mt 5-7), che costituisce
il programma di Gesù, il manifesto, la sintesi di tutta la sua predicazione: Gesù
non ha scritto libri, non ha pubblicato manuali di comportamento, ma ha
lasciato questo grande e meraviglioso “Discorso della Montagna”.
Il
testo di oggi ci propone in particolare due immagini riferite da Gesù ai suoi: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la
luce del mondo!».
Da
notare innanzitutto i due verbi “siete”; non sono degli imperativi (“dovete
essere!”) ma degli indicativi: indicano cioè una condizione già in atto, già
presente in noi: vivere in questo modo, è già nelle nostre possibilità. Noi siamo
“sale”, siamo “luce”: quindi è naturale vivere di conseguenza.
Ma
come è possibile, visto che sale e luce presentano due caratteristiche completamente
opposte? Se la luce infatti è immediatamente percepibile, non altrettanto
succede per il sale. Il sale non si vede: però lo sentiamo subito, lo riconosciamo,
ne percepiamo la presenza, anche se non lo vediamo: ci è mai capitato di mangiare
una pietanza senza sale? Ce ne saremo accorti immediatamente!
Sale e
luce, sono pertanto due realtà che si impongono immediatamente all’attenzione
di chiunque e quindi sono entrambe facilmente armonizzabili nella nostra vita.
Cerchiamo
allora di cogliere nel dettaglio il significato di queste caratteristiche, che
Gesù simbolicamente ha trasformato in “virtù” determinanti per i suoi discepoli.
Prima
di tutto il sale. Quali proprietà emergono dal testo? Che è invisibile, che non
si vede, che la sua presenza non è percepibile all’occhio, ma che se non c’è,
se manca totalmente, ogni cosa perde di sapore, di gusto, tutto appare senza senso,
senza incisività.
L’importanza
del sale e la sua indispensabilità non era una novità ai tempi di Gesù: non è
una sua. Sappiamo infatti dalla storia che anticamente questo minerale era ritenuto
così importante, e apprezzato per le sue qualità, da divenire una preziosa merce
di scambio; lo stesso Plinio il Vecchio, contemporaneo di Gesù, arriverà
addirittura a scrivere: “Nihil sole et
sale utilius”: non c’è nulla di più utile del sole (la luce) e del sale. Era
inoltre sinonimo di garanzia, di validità di un patto, di un’alleanza: sulla
stretta di mano con si esprimeva il reciproco consenso e si sanciva la
legittimità contrattuale, veniva versato un pizzico di sale. Per i Greci, dire
di “aver mangiato un moggio di sale”,
significava affermare l’esistenza di una amicizia inseparabile con qualcuno. Una
simbologia peraltro giunta fino a noi attraverso il vecchio rituale del Battesimo
dei bambini, (è stato sostituito dal nuovo Rito nel 1970), che prevedeva la
benedizione del “sale della sapienza” e la sua imposizione sulla bocca del
battezzando.
Essere
allora, come dice Gesù, “il sale della
terra”, significa dare sapore, dare gusto, dare il giusto valore alle
persone, alla vita, alle cose.
Ma cos’è
che dà “sale” alla vita? Ci sono fondamentalmente due elementi che concorrono a
ciò. Prima di tutto il “sentimento”: il sano piacere, il bello della vita, il “gusto”
della natura, l’amabilità delle persone, delle cose, derivano dalle vibrazioni
interne della nostra anima. Più “sentiamo” queste vibrazioni, più siamo
sensibili a questi “impulsi” dell’anima, più la nostra vita avrà senso, più sarà
significativa, più godrà di un valore aggiunto.
Ma che
succede se noi non avvertiamo queste vibrazioni, se le percepiamo poco o nulla?
Succede che rischiamo di perdere completamente il senso, il gusto della vita. Non
sentiamo più nulla: viviamo come anestetizzati, desensibilizzati. Non disponiamo
più del “sale” della gioia, dell’amore, della vitalità, della compassione; nulla
più ci commuove, nulla più ci intenerisce.
Per
cui, nel grigiore più totale, ci lamentiamo che la vita è noiosa; che la vita è
un tran-tran monotono, che è sempre la solita; e trasciniamo i nostri giorni
nella cupa rassegnazione, quando invece, nella realtà, la vita è ricchissima di
emozioni, di bellezza, di amore. Siamo noi purtroppo che non le sentiamo.
Succede un po’ come quando indossiamo gli auricolari del cellulare: ci
isoliamo, intorno a noi cala il silenzio, non sentiamo più nulla; i rumori, i
suoni della vita, la voce di chi ci rivolge la parola, diventano impercettibili:
siamo tagliati fuori dalla realtà, dalla vita. Cosa fare allora? Dobbiamo toglierci
le cuffiette! Per sentire la “vita”, il sapore di ogni cosa, dobbiamo toglierci
i tappi che ci siamo messi, magari in un momento particolarmente difficile,
problematico, doloroso. All’inizio forse sentiremo un gran dolore (è proprio
per non sentirlo che ci siamo messi i tappi), ma se avremo pazienza e volontà,
piano piano, risentiremo tutto il gusto della vita, l’armonia del creato, l’importanza
delle persone.
L’altro
elemento che ci ridà “sale”, che ci restituisce il gusto di vivere, è il “sentirsi
utili”.
Accade
spesso, purtroppo, che tanta gente si chieda con angoscia: “Che vivo a fare? A
che serve questa mia vita? ”. Non hanno prospettive, non guardano lontano: vivono
schiavizzati dalle problematiche del presente. Magari buone, come “servendo” i
figli: certo, far crescere una vita li fa sentire senz’altro utili, importanti,
li fa sentire qualcuno; è insomma una gran cosa; ma poi, quando i figli
crescono e se ne vanno di casa per vivere la loro vita, si sentono inutili, isolati,
si abbandonano a loro stessi, cadono in depressione. Come pure altre persone che
si sentono insostituibili al lavoro: quando ad un certo punto vengono “scaricati”,
vivono un trauma profondo, un autentico fallimento. Ci sono poi persone che hanno
l’assoluta necessità di sentirsi attive, “utili”, importanti, insostituibili, tanto
da arrivare ad odiare i superiori che non riconoscono il loro talento, la loro genialità,
dimenticando di coinvolgerle nelle varie iniziative (quante volte succede anche
negli ambienti religiosi, nelle parrocchie!); allora si sentono non
valorizzate, accantonate, abbandonate, inutili.
Attenzione
però: perché nell’uomo c’è anche un sano bisogno di essere considerato, di
essere visto, di esserci per qualcuno, di “sentirsi utile” che lo porta a
combattere, a darsi da fare, un bisogno che non si ferma di fronte alle
difficoltà. È il bisogno di essere “sale”, di offrire cioè un servizio al
prossimo, ai fratelli, all’umanità: e ciò si realizza non con l’isolamento, non
con l’invidia, non con la bramosia di gloria e onorificenze, ma con un vivere in
positivo, un vivere che produca “vita”, evoluzione, benessere, amore, crescita.
È quando sentiamo nascere dentro di noi qualcosa di importante, come una “chiamata”,
una passione particolare, sentiamo di avere dentro di noi dei doni, dei talenti
che possono essere utili a questo mondo: allora ci rendiamo umilmente disponibili,
ci offriamo, ci doniamo. In una parola siamo “sale”.
“Voi siete il sale della terra”. La terra è la vita di tutti i
giorni: essere sale della terra vuol dire quindi aiutare le persone a dare un
senso, il loro senso, alla vita, a tutto ciò che accade intorno a loro. Dobbiamo
aiutarle a pensare che le cose non accadono per caso. Dobbiamo farli riflettere
su ciò che vivono, a porsi delle domande, ad ascoltare la voce di Dio che parla
in continuazione attraverso la storia, attraverso i fatti, gli eventi, gli
incontri, di ogni giorno. A quanti si chiedono ancora: “Dio? Ma chi è Dio? Dov’è
Dio?”, pensando che Lui se ne stia altrove a farsi i fatti suoi, dobbiamo
dimostrare con la nostra vita che Lui c’è, è presente al nostro fianco, ci
parla, ci educa continuamente, ogni giorno; ci dona la sua “sapienza”. La
parola “sapienza”, che viene dal latino “sàpere”, vuol dire appunto “avere
sapore”. Solo con Lui noi diventiamo saggi, sapienti, solo con Lui noi “gustiamo”
la vita, e imparando dalle nostre esperienze, diventiamo “sale” per il prossimo.
L’altra
immagine proposta dal vangelo di oggi è la “luce”: “Voi siete la luce del mondo!”.
La
luce, la lampada ad olio, per una povera casa palestinese era tutto. Per noi moderni
invece la luce ha perso la sua eccezionalità. Parole come quelle del Salmo 118:
“Lampada ai miei passi è la tua parola,
luce sul mio cammino”, hanno perso il loro fascino; per noi la luce non è
una cosa rara, ce l’abbiamo sempre a portata di mano, a disposizione. Basta un
pulsante per accenderla! Non così ai tempi di Gesù: anche una luce fioca, una
piccola lampada ad olio, erano fondamentali.
Non
dimentichiamo inoltre che “Dio”, in lingua sanscrita, vuol dire proprio “luce”.
Una luce abbinata da sempre alla vita: “venire
alla luce”, “dare alla luce”,
significa “nascere”; spegnere la luce, “morire”.
In
pratica, allora, cosa vuol dire Gesù con “voi
siete la luce del mondo”?
“Luce
del mondo” una volta era Gerusalemme; di lei il Profeta Isaia aveva infatti scritto:
“Alzati, vestiti di luce, perché viene la
tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché ecco, le tenebre
ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il
Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i
re allo splendore del tuo sorgere” (Is 60,1-3).
Ora
però, con Gesù, Gerusalemme ha cessato di essere tale: realtà statiche, come una
città, un tempio in muratura, sono state sostituite da nuove realtà dinamiche,
vive, palpitanti: i discepoli che Gesù manda in tutto il mondo ad annunciare la
buona notizia (Mt 28,20).
Sono
loro la nuova “luce del mondo”, sono loro che, al pari di una città costruita
sopra un monte, non potranno passare inosservati. In altre parole, chi segue
Gesù, chi vive le “beatitudini”, il suo messaggio, chi annuncia il suo Vangelo,
in una parola il suo “discepolo”, è automaticamente “luce”: è visibile da tutti,
può illuminare tutti.
Che
significato avrebbe infatti accendere una lampada e metterla sotto un “moggio”,
sotto un recipiente? Una lampada accesa va messa in alto, su un candelabro,
perché la sua luce sia godibile da tutti. Tutti cioè, vedendo questa “luce”, vedendo
questi discepoli, potranno constatare che è possibile vivere come loro, che è
possibile per tutti vivere in maniera diversa, in maniera nuova; tutti potranno
rendersi conto che è possibile adottare un altro stile di vita, un altro modo
di fare, un modo diverso di sentire, di relazionarsi, di amare.
Ecco
perché la fonte della nostra luce devono essere le opere buone. Perché è la
nostra vita, il nostro modo di viverla, la luce che gli altri devono ammirare, che
gli altri devono imitare; è il nostro buon esempio, la nostra convinzione, il
nostro vivere il Vangelo in modo serio e coerente. Gesù in pratica non ci
chiede di frequentare università pontificie, non ci chiede di insegnare teologia,
non ci chiede di fondare associazioni e gruppi di preghiera, ma ci chiede semplicemente
di vivere le sue “beatitudini”, di testimoniare onestamente il suo Vangelo.
Con il
nostro vivere “luminoso” dobbiamo in pratica dire a tutti: “Anche tu sei anima,
sei spirito, sei emozione, sei divino, sei energia, sei canto, sei luce, sei
forza, sei fuoco; anche tu puoi vivere nel Tutto perché il Tutto già risplende in
te”. Senza la Sua “Luce”, senza lo Spirito d’Amore, senza una nostra vita in
simbiosi con la Vita, non c’è possibilità di salvezza per questo mondo! Amen.
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