«Io sono il buon pastore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce
me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che
non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la
mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». (Gv 10,11-18)
Gesù
non poteva trovare una immagine più bella per indicarci la sollecitudine con
cui continua a seguirci anche dopo la sua risurrezione. Lui è il “buon Pastore”,
é poimÑn kalçv, il “pastore bello”, come dice
il testo greco. Il buon pastore è colui che segue le pecore, che si prende cura
di loro; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi, le cerca se si perdono,
le conosce una per una, per nome. Il buon pastore è colui che ha “cura” delle
pecore: e “avere cura” significa dedicare tanto tempo e lavoro in abbondanza. Lo
sa bene chi cerca di far germogliare, di far crescere e fiorire una pianticella:
ogni giorno deve darle acqua, deve esporla al sole, proteggerla da eventuali parassiti
e pericoli. Il buon pastore è soprattutto colui che trasmette sicurezza; è
colui che parla con le sue pecore; che a ciascuna sussurra dolcemente: “Sono io
che penso a te, io che mi prendo cura di te, che veglio su di te; perché tu mi
sei cara, mi sei preziosa, sei davvero unica per me. E anche se non sei sola,
perché di pecore ne ho altre 99, se ti dovessi perdere, io verrò a cercarti.
Qualunque cosa succeda, tu sarai sempre nel mio cuore”.
Ecco,
fratelli: questo è l’amore con cui Gesù ci tratta: questo è l’unico amore di
cui possiamo veramente fidarci. È questo l’unico amore di cui abbiamo bisogno. Ma
è anche l’amore che noi stessi siamo chiamati a offrire ai nostri fratelli.
Dobbiamo
essere anche noi pastori “buoni” per le persone che ci stanno vicine, per i nostri
figli, per gli amici, per i colleghi di lavoro. Dobbiamo imitare i primi
cristiani: il Signore era il loro unico pastore, il loro punto di riferimento.
Lo “sentivano” sempre vicino, lo “vivevano”. Era il loro compagno di viaggio, la
loro guida, colui che si prendeva “cura” di loro. E non temevano nulla e
nessuno.
Del
buon pastore il Vangelo dice tre cose molto importanti: prima di tutto che “offre
la sua vita per le pecore”. Al contrario del mercenario, che pensa soltanto a
svolgere un lavoro, che lo fa per soldi, per interesse, per avere un profitto
personale. Al mercenario non interessa nulla delle pecore, ma solo ciò che
dalle pecore può ricavare. Le utilizza per se stesso. Quanti mercenari abbiamo
incontrato anche noi nella nostra vita! Quanti sedicenti pastori ci hanno usato
e abusato a loro piacere! Quanti mercenari ci hanno illuso per farci fare
quello che volevano; quante promesse abbiamo ricevuto finché pensavamo come
loro, fino a quando non siamo diventati per loro un problema! E poi? Poi più
nulla. E delusi ci siamo chiesto: “Che amore era questo? Era amore o squallido interesse?”
E abbiamo pianto sulle nostre ferite. Ebbene, fratelli, queste esperienze dovrebbero
insegnarci molte cose. Dovrebbero farci guardare a Lui, al nostro vero Pastore,
con sempre maggior riconoscenza; a Lui che non ha mai ingannato nessuno, che
non è mai venuto meno alle sue promesse, che è sempre stato fedele con noi.
La
seconda cosa che il vangelo ci dice del buon pastore è che “conosce le sue
pecore e che le chiama ciascuna per nome”. Una prospettiva meravigliosa, non vi
pare? Chi ama, infatti, vuole conoscere per davvero. Non si ferma ad una
conoscenza superficiale, di comodo. Vuol sapere tutto, vuol essere coinvolto,
pende dalle labbra dell’amato, previene ogni suo desiderio. Allora chiediamoci:
come sono i nostri rapporti con gli altri?. Li ascoltiamo veramente quando ci
parlano? Abbiamo voglia di ascoltarli sul serio? Oppure il nostro è solo un bluff: non solo non li ascoltiamo, ma non
li lasciamo parlare, li interrompiamo continuamente, interpretiamo le loro
parole solo come piace a noi? Ascoltiamo il loro cuore, facciamo attenzione a quello
che provano dentro, oppure semplicemente fingiamo? Eppure fratelli, se amassimo
veramente le nostre “pecore”, per prima cosa le ascolteremmo, non vi pare? Non
le deluderemmo, dedicheremmo loro maggiore “cura” e attenzione. Impariamo da
Lui: Gesù ci ha mai deluso? Egli ci ama e ci ascolta, sempre. È sempre lì,
paziente e silenzioso, presente nel Tabernacolo con il suo corpo e sangue, e ci
aspetta. Aspetta fiducioso che qualche volta, durante il giorno, ci ricordiamo
di Lui. Ci ricordiamo che è Lui il nostro Pastore, che è Lui l’unico che può
aiutarci, consigliarci, lenire i nostri dolori; che solo Lui non ci deluderà
mai!
Terza
cosa che il vangelo oggi ci fa notare sul Pastore, è che il Risorto - è Lui il
nostro Pastore - non ha solo noi da accudire, ma ha tante “altre pecore”, di
altri ovili, forse non tutte fortunate come noi; quindi, Gesù non è soltanto a
nostro servizio: non è una nostra proprietà, il suo amore non è un nostro esclusivo
diritto: Egli è Pastore di tutti gli uomini di tutto il mondo; tutti sono suoi figli
e tutti sono dunque nostri fratelli.
Ebbene,
di fronte a queste realtà, cari fratelli, dobbiamo decidere seriamente come
vivere; dobbiamo finalmente prendere una decisione seria, dobbiamo scegliere se
stare con Lui, se stargli vicino, se ascoltare i suoi richiami, oppure lasciarci
trasportare dagli eventi, lasciarci condizionare da ciò che ci circonda, bearci
egoisticamente del presente. Dobbiamo quindi deciderci di nuotare
controcorrente, di imitarlo come pastore, combattendo l’indifferenza e l’apatia
di chi non crede, di seguirlo per quanto ci è possibile, anche nella gestione
del suo gregge, offrendogli il nostro piccolo contributo, la nostra “sofferta”
collaborazione. Sì, fratelli, perché in tal caso dobbiamo considerare anche la
fatica, le sofferenze, perché immedesimarci in Lui ha un suo costo, talvolta
anche alto, che implica sudore e sangue: essere come tutti, seguire l’andazzo
del mondo, è estremamente facile; invece essere “unici”, esattamente come Dio ci
ha pensati e voluti, ve lo assicuro, non è assolutamente una passeggiata; è un
cammino tutto in salita, una scelta piena di rinunce, di sacrifici. Lo dobbiamo
mettere in conto; ma in ogni caso dobbiamo scegliere, fratelli. Dobbiamo
prendere una decisione. Avete mai pensato che, forse, l’insoddisfazione e l’amarezza
che proviamo nel profondo il nostro cuore, può derivare proprio da questo nostro
continuo rimandare, dalla nostra perenne indecisione, dal lasciarci vivere così
come viene, dal non avere un ideale forte per cui combattere? Allora diventiamo
padroni della nostra vita, fratelli: non facciamoci trascinare dagli eventi, ma
viviamo come vogliamo noi, anzi meglio, come vuole Lui; mettiamoci nelle sue
mani, e vedrete che ogni inquietudine, ogni amarezza, ogni dubbio scomparirà!
Imitiamo
il nostro buon Pastore, la nostra guida: Egli ha sempre vissuto da uomo libero:
Lui ha offerto in dono per noi la sua vita, e lo ha fatto spontaneamente; ha
accettato una morte straziante e ignominiosa: nessuno l’ha costretto, né giudei
né romani. Lui è il padrone assoluto della sua vita: tant’è che appena morto,
se l’è immediatamente ripresa. Non sono stati gli scribi e i farisei a ucciderlo;
è Lui che ha accettato e deciso di vivere la sua missione fino alle estreme conseguenze.
Gesù “ha offerto la sua vita”, sapendo bene a cosa andava incontro. Ma lo ha comunque
fatto. E Dio con la risurrezione se lo è “ripreso”, ha confermato cioè la sua
libertà e la bontà delle sue scelte. Ecco, fratelli, è così che Egli ci ha
indicato la via della vera libertà: e noi saremo liberi solo quando decideremo di
vivere come Lui, prendendoci in pieno le nostre responsabilità e le conseguenze
delle nostre decisioni.
Da qui
nasce anche per noi, fratelli miei, il dovere di essere dei “buoni” pastori. Pastori
in qualche modo lo siamo già tutti: chi non ha infatti qualche ruolo di guida,
di responsabilità: il prete con i suoi fedeli; i genitori con i figli; i
dirigenti, i capireparto con i loro dipendenti; l’amico con gli altri amici; il
maestro con gli alunni, e via dicendo. Tutti in qualche modo siamo già
coinvolti, siamo dei pastori: ma il vangelo di oggi ci insegna soprattutto come
essere dei “buoni pastori”; ci sollecita cioè a prestare la massima attenzione alle
nostre “pecorelle”, a coloro cioè che per qualunque motivo sono affidati a noi.
Dobbiamo stare molto attenti a chi abbiamo di fronte. Non tutti siamo uguali,
ognuno ha la sua sensibilità; non dobbiamo quindi “gestirli”, come se fossero
della merce; non dobbiamo usarli; non dobbiamo umiliarli, non dobbiamo accentrarli
esclusivamente su di noi, creando una dipendenza negativa. Non possiamo
pretendere di occuparci noi di tutto, di sapere tutto, di intrometterci su
tutto. Massima sollecitudine e conoscenza, questo sì, ma dobbiamo lasciare alle
“pecore” il loro respiro, i loro margini. Altrimenti la nostra guida da dolce e
attenta, potrebbe diventare autoritaria e sprezzante. Non riconoscere la loro libertà
e dignità alle persone che ci seguono, significa soffocarle, umiliarle. Ricordiamoci
che chi pretende di controllare tutto, col tempo perderà il controllo di tutto.
La fiducia non è un diritto, si merita.
Essere
buoni pastori vuol dire anche “credere” nelle proprie pecore. Credere che in
ognuna di esse, pur se nascosto, c’è un fondamento di bontà. Dobbiamo credere
in loro, dare fiducia, coltivare il seme buono che c’è in loro: con grande discrezione
e umiltà.
Molti falsi
pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) abusano del loro potere. Non
sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano
i loro fratelli come se fossero degli oggetti, degli strumenti utili solo per
il lavoro e basta; li fanno sentire privi di ogni dignità. Credere invece nelle
proprie pecore, conoscerle, averne rispetto, vuol dire valorizzarle, perché nessuna
è uguale all’altra. Guidare, essere pastori, significa stimolare, incoraggiare,
aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé. Il loro compito è quello di precedere,
di andare avanti, di affrontare per primi i pericoli, di prevenire, di condurre,
di servire. In questo sta l’amore, fratelli. Questo è servire gli altri. Questo
ci ha insegnato Gesù.
Pensate
all’amore con cui Dio ci tratta: è immenso e ci tocca il cuore: ci commuove
pensare che lui è sempre pronto, fedele, sollecito, misericordioso; che veglia continuamente
su di noi, i fortunati, e anche su quelli che nella loro vita vagano ancora in
cerca di un approdo, su quelli che non sanno ancora dove trovare il vero conforto,
sui tanti disperati sparsi sulla faccia della terra, su quelli, uomini e donne,
vicini e lontani, che aspettano angosciati una consolazione che non trovano.
Rileggiamo
allora con calma, cari fratelli, questo brano bellissimo del vangelo di oggi; convinciamoci
a prenderlo veramente sul serio. Lasciamoci toccare; diamo finalmente il loro nome
agli ideali, ai progetti, ai modelli di vita, che ispirano le nostre scelte, il
nostro cammino. A chi andiamo dietro noi? Di chi e di che cosa siamo ancora alla
ricerca? Verso chi sono diretti i nostri passi? In definitiva, a chi abbiamo
affidato la nostra vita? Al buon pastore che ci tratta da pecorelle o ai falsi
pastori, i mercenari, che ci trattano da caproni? È una verifica urgente del
nostro cammino di fede, che dobbiamo assolutamente affrontare.
Oggi tutta
la comunità cristiana è unita al suo Signore, a quel Gesù che ancora si
commuove sulle folle di questo mondo, per chiedergli con preoccupazione che non
manchino gli operai nella sua vigna. E anche noi, di fronte a Lui e “ai campi
che già biondeggiano per la mietitura” (Gv
4,35) nel profondo del nostro cuore, dobbiamo generosamente ripetere con il
profeta (Is 6,8): “Ecco, Signore,
manda me!”. Amen.
«Perché siete turbati, e perché
sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono
proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete
che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi»: (Lc 24,35-48).
I due di
Emmaus tornano a Gerusalemme e raccontano agli altri discepoli la loro
incredibile esperienza, di come cioè abbiano visto e riconosciuto Gesù; anche
Pietro racconta il suo incontro con il Signore, e tutti sono a conoscenza dell’incontro
che con Lui ha fatto la Maddalena, la mattina di Pasqua. Ma poi, quando Gesù appare
a tutto il gruppo riunito, essi rimangono senza parole; rimangono di stucco, sorpresi,
sconcertati, come se non sapessero nulla delle precedenti apparizioni, come se
nulla fosse mai accaduto. Beh, non ci sembra un po’ strano questo comportamento?
Cosa ci vuol dire Luca con questo particolare? Una cosa molto semplice: che l’esperienza
del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente e palpitante nella propria
vita, è un’esperienza personale, privata, un’esperienza che ciascuno deve fare
per sé. Quello che provano gli altri non ci colpisce più di tanto. E infatti
Gesù dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”; toccatemi voi, uno
alla volta, rendetevi conto di persona. Si tratta cioè di toccare, di capire,
di percepire, di vedere con la mente e con il cuore, di rendersi conto che
davvero Lui è vivo, che Lui c’è, che è qui al nostro fianco, pronto ad intervenire.
E solo noi, ciascuno di noi, e nessun altro, può e deve fare questa esperienza.
Non possiamo delegare gli altri. Non basta che gli altri “ci raccontino”; non ci
basta sapere che delle persone, incontrando Dio, hanno rivoluzionato la loro
vita. Non ci basta vederlo con gli occhi di chi gli crede, di chi lo sente vivo
in sé; non ci basta sentirlo attraverso la passione di chi lo porta già nel
cuore e nell’anima. Non ci basta neppure assistere ai miracoli, vedere persone
guarite dalle loro malattie, solo per avergli dato piena fiducia. Niente
ci basta, se non abbiamo noi stessi il coraggio di toccare, di lasciarci
coinvolgere in prima persona, di metterci noi direttamente in gioco. Dobbiamo
essere sicuri di Lui, dobbiamo poter contare individualmente su di Lui, dobbiamo
credergli senza ombra di dubbio. Se dubitiamo di Lui, anche per un solo
momento, nessun “surrogato” ci potrà mai bastare. E quando nasce questa nostra
certezza? Solo quando lo avremo
toccato con mano; solo quando ci avrà cambiato la vita, quando avremo scoperto
la gioia dell’amore, della vera felicità; solo quando, dopo aver vissuto come morti
o come portatori di morte, torneremo a sentirci vivi, a risentire la vita pulsare
dentro di noi. Solo allora, fratelli, non avremo più dubbi; solo allora sapremo
per certo che “Lui è vivo”.
La
fede è un’esperienza, un incontro. Un incontro personale e diretto. Altrimenti la
nostra fede è teoria, ipotesi, possibilità; soprattutto rimane
dubbio. Un dubbio che non nasce per caso, ma che è radicato in noi, nelle
nostre paure ancestrali, nella nostra diffidenza. Credere è un po’ come trovarsi
per la prima volta di fronte al mare. Per capire cosa sia quella enorme distesa
d’acqua che si apre davanti a noi, dobbiamo buttarci dentro, dobbiamo
immergerci totalmente, sentirci “coperti”, avvolti dall’elemento acqua.
Soltanto così la “sentiremo”, sentiremo l’effetto che ci fa'; e allora scopriremo
che il mare è bello, scopriremo i suoi pericoli ma soprattutto il suo fascino e
le sue potenzialità; scopriremo insomma che ci piace: un po’ alla volta, sperimentandolo
di persona, passo dopo passo, ci diventerà familiare, amico. Ecco, credere è
un pò come questo: se vogliamo sapere cos’è il mare, dobbiamo immergerci, bagnarci; se vogliamo
sapere cos’è la vita, dobbiamo viverla attivamente, non trascinarla; se vogliamo
sapere chi è Dio, dobbiamo toccarlo, sperimentarlo, viverlo.
Altrimenti continueremo ad avere sempre e solo delle meravigliose idee su Dio,
sulla vita e sul mare. Ma solo semplici idee. Che non possono bastarci. L’idea
del cibo, fratelli, l’immagine di una tavola imbandita con opulenza, non ci potrà
mai saziare: se non mangiamo sul serio, moriamo di fame!
Il
dubbio non trascina, non coinvolge. Perché il dubbio è pigrizia, è paura. Al
contrario vivere, sperimentare, mettersi in gioco richiede fatica, coraggio, un
nostro personale volere; e forse per questo preferiamo dubitare. Perché,
fratelli, fino a quando dubitiamo, finché ci trastulliamo con le
più affascinanti “teorie” di questo mondo, non ci muoviamo, non facciamo
nulla, non facciamo fatica, soprattutto non ci compromettiamo. Dubitare vuol dire avere
tanti bei progetti, tante belle intuizioni, tanti pensieri nobili, per poi, al
dunque, lasciarli così come sono, delle semplici idee. E questo, fratelli, significa in
pratica non lasciarci “toccare”,
non voler “toccare” Gesù; è il nostro modo di esprimere la nostra indisponibilità ad aprire a Gesù il nostro cuore. Tanta teoria,
nessuna pratica. Comodo e indolore.
Anche
gli apostoli del resto facevano fatica a credere: non credevano ai loro compagni
di missione, ai loro amici di sempre; ma quel che è peggio non credevano che Gesù
fosse risorto, pur avendolo lì davanti! Non gli credevano dopo aver visto le
sue ferite, dopo che egli aveva mangiato nuovamente con loro; non gli credevano
neppure quando Lui pazientemente cercava di spiegare loro il significato di quanto
era successo, il senso degli avvenimenti, del perché fosse necessario che
accadessero. Niente! La loro testa era chiusa ermeticamente. E, ripeto, loro lo
avevano lì, di fronte ai loro occhi! Noi almeno, che non abbiamo avuto una tale fortuna, possiamo anche avere qualche attenuante in più per la nostra
mancanza di fede; ma
non ne approfittiamo. Non nascondiamoci dietro ad un dito, non continuiamo a giustificare
la nostra indolenza e la nostra poca voglia di incontrarlo, di conoscerlo: scuotiamoci
invece, diamoci da fare, perché la fede richiede un cammino difficile; è una strada, un
itinerario a volte molto impegnativo, che prevede una gradualità, un passo dopo
l'altro, una lenta maturazione. Noi invece siamo quelli del “tutto e subito”, del
“detto e fatto”. Ma per le cose spirituali, dell’anima o del cuore, fratelli, non funziona
così. Vorremmo essere come il telecomando della tv o il pulsante che accende il
computer: basta schiacciarlo e in un secondo tutto si apre, tutto appare chiaro
e luminoso. Ma, dicevo, nella via della perfezione, della fede ardente, non funziona
così! Tutto avviene per gradi. Ed è importante che sia così. Che meriti, infatti, che stimoli
potremmo mai avere, se tutto si esaurisse in un attimo solo, automaticamente? Siamo degli “atleti”,
diceva Paolo: e come tali dobbiamo correre, superare gli ostacoli, faticare, se vogliamo arrivare alla fede e
conservarla. Perché è l'impegno, la gradualità, la perseveranza, che ci fanno capire quanto in verità noi desideriamo “toccare” Gesù, quanto
cioè siamo motivati a seguirlo. Sono le contrarietà, la fatica, gli
imprevisti che ci permettono di gustare giorno per giorno i nostri piccoli passi in questo cammino, che ci fanno constatare con gioia il progressivo avvicinamento a Lui.
Il
vangelo dice che “Gesù apparve in mezzo a loro”. Solo due volte, a Maria
Maddalena e a Pietro, Gesù, subito dopo la risurrezione, appare alla singola persona. Tutte le sue altre apparizioni avvengono
in un contesto comunitario. Alla presenza cioè, di due o più persone. Che vuol
dire? Abbiamo detto che l’esperienza di “toccare” Gesù deve essere personale,
individuale. È vero, ma è un’esperienza che deve avvenire in un ambito
comunitario. È importantissimo: queste parole ci indicano cioè che la nostra
esperienza personale ha motivo di esistere, di svilupparsi, soltanto in
determinati contesti: che nello specifico sono la Chiesa, le nostre comunità
religiose, le nostre parrocchie, le nostre famiglie. Incontrare Gesù a nostro esclusivo uso e consumo non ha senso, considerarlo un privilegio esclusivamente personale, non farne parte con i fratelli, significa escludersi dalla comunità, tagliarsi fuori dalla “Ecclesia”, unico organismo in cui Cristo ha assicurato la sua presenza nello Spirito fino alla fine dei tempi.
È qui che deve succedere, è qui che possiamo sicuramente incontrarLo; e perché ciò avvenga, il vangelo ci
suggerisce anche alcune strade preferenziali.
La
prima strada, come abbiamo detto domenica scorsa, è l’incontro con le proprie
ferite. Gesù mostra ai discepoli le mani, i piedi e il cuore trafitti. Sono
il segno della sofferenza. Le
mani rappresentano il nostro fare, il nostro agire, il costruire, il
realizzare. Molti sono convinti che nella loro vita non ci sia più
niente da fare, che ormai tutto sia compromesso. Ma non è vero! C’è sempre una
nuova via, una nuova situazione, un nuovo progetto da prendere in
considerazione. Le nostre mani devono diventare le “sue” mani, dobbiamo trasformarle
nelle “sue”, essere noi ad agire per Lui.
I
piedi feriti sono l’incapacità di camminare con le nostre gambe, di andare
avanti, di percorrere il nostro cammino, di diventare noi stessi, di progredire
nella via dello spirito. Per questo dobbiamo “risorgere” con Cristo: la “risurrezione” ci dice che tutto può cambiare, che possiamo farcela, che possiamo rivivere,
che possiamo riplasmare con gioia la nostra vita, che possiamo darle nuovi
impulsi, nuovi ideali, nuove direzioni. Ma che convergano sempre e solo “verso” di Lui, nella
“sua” direzione; accettando a priori di
fare sempre la sua volontà.
Il
cuore trafitto è l’amore che viene ferito. Molte persone si sentono aride, impotenti
di fronte alla loro situazione affettiva. C’è chi non vuole amare più: è talmente
deluso, da essere convinto della propria incapacità di amare, di essere ormai insensibile
e indifferente a tutto, di aver perso ogni fiducia nell’amore e nel prossimo.
C’è chi si sente travolto, imprigionato, condizionato dai fatti dolorosi della
vita. Ma c’è anche chi vuole lasciarsi andare, chi vuole amare ancora, chi vuole tornare ad essere vivo, innamorato, chi vuol rifare scelte importanti. Ma bisogna
essere convinti di questo, perché se continuiamo a considerare queste aspirazioni
al pari di inutili fantasie, di semplici progetti inattuabili, non approderemo mai a nulla:
arriveremo soltanto alla nostra condanna, alla nostra fine. Il Risorto invece vuole
che “tocchiamo” il suo cuore trafitto; perché solo così capiremo che il
nostro cuore trafitto dalla vita, può sicuramente guarire; che da esso può ancora
sgorgare vita vera, intensa, luminosa; e che quindi non possiamo tergiversare,
ma agire di conseguenza.
La
seconda strada è l’amicizia, la donazione. È creando legami di amicizia, di
confidenza, di intimità fra le persone, che noi possiamo sentire Cristo vivo e
chiaro, percepirlo in maniera forte. Solo se noi riusciremo ad aprirci al
prossimo, a far colloquiare reciprocamente i rispettivi cuori, ci sentiremo
accolti, amati; solo allora sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare
dentro di noi; e allora non ci vergogneremo più di quello che siamo, ma troveremo
nuova fiducia in noi e in ciò che facciamo, risentendoci nuovamente forti e
potenti interiormente. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in
mezzo a loro”: letteralmente è “dove due o tre cantano, sono in sintonia,
sono in mezzo a loro”. Di quale altra occasione disponiamo per sentirci “comunità”, per sentirci in perfetta sintonia con gli altri, al di fuori dell’Eucarestia domenicale? È lì, soprattutto,
che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo”.
Nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che
avremo la percezione chiara che Dio è presente; proprio lì, in mezzo a noi, con
noi e fra di noi. È questa, fratelli, la “comunità” del Risorto, quella in cui
Lui vuole incontrarci tutti di persona. E da qui poi usciremo fortificati a testimoniarlo ai fratelli. Approfittiamone, dunque!
La
terza strada per incontrare il Risorto è l’ascolto e la comprensione delle
Scritture. Gesù spiega agli apostoli le sue vicende, cos’è successo nei giorni
immediatamente precedenti e perché è successo. Essi devono capire che tutto “doveva”
succedere. Ebbene, fratelli, anche noi abbiamo bisogno di capire la “nostra”
storia, di capire il perché della nostra vita, di conoscere quel filo rosso che
lega le nostre giornate a Lui; perché c’è, e dobbiamo assolutamente trovarlo il
significato, il senso, il collegamento. C’è ed è evidente: il vivere nostro e
dei fratelli consiste nel fare esperienza del Signore Risorto: scoprire che nulla avviene
per caso, che tutto converge a Lui, che tutto ha un senso ben preciso in Lui,
che tutto avviene per un motivo che ci parla di Lui. E quando avremo questo
motivo per vivere, allora qualunque situazione, anche la più difficile, diventerà
superabile.
Abbiamo
bisogno, come gli Apostoli, di capire il profondo senso del vangelo e della
Bibbia. Siamo ancora molto ignoranti al riguardo, fratelli miei. S. Girolamo
diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ignorare le
Scritture, significa non aver capito nulla di Cristo, del suo messaggio, della
sua vita.
C’è
ancora chi crede all’esistenza storica di Adamo ed Eva, di Caino e di Abele o
dei patriarchi, esattamente come ci vengono proposti dalla Bibbia. C’e ancora
chi guarda alla Parola come ad una cronistoria, una raccolta di fatti realmente
accaduti e di personaggi storici realmente vissuti. C’è ancora chi crede che il
Vangelo sia un semplice documentario di quanto Gesù ha detto e fatto, una specie di film
girato da una troupe di qualche trasmissione televisiva o il resoconto di qualche
giornalista, inviato speciale in Palestina. Siamo ancora troppo lontani da
quello che realmente rappresenta la Parola per noi, fratelli miei. Abbiamo
ancora bisogno di conoscere, di capire, di cercare la verità. A tutti i
livelli.
Ecco
perché dobbiamo contribuire anche noi a “rassicurare”, a formare comunità fondate saldamente sul
Vangelo e non sulla creduloneria, sulla superficialità; a costruire comunità in cui la gente
creda grazie alla loro ricerca personale, aderendovi con la
propria anima e il proprio cuore; ecco perché dobbiamo annunciare e vivere per primi la persona di Gesù, e il
suo autentico messaggio di amore.
Solo
così “la verità ci farà liberi”. Anche se a volte potrà farci male, anche se a
volte ci svelerà un mondo completamente diverso da come noi lo pensiamo e da
come lo viviamo.
Tornare
al Vangelo e a Gesù: questo è fare esperienza del Risorto. Perché è il Gesù del
Vangelo, il Gesù risorto, che ci infiamma l’anima; sono le sue Parole che ci
appassionano nel profondo, che ci riscaldano il cuore. Il Vangelo di Gesù,
fratelli, non è un libro da leggere; ma è una Persona vera e autentica da
incontrare, da amare, da far entrare nel nostro cuore. Amen.
«Otto giorni dopo i discepoli
erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte
chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui
il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e
non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20, 19-31).
Cristo
è risorto. Alleluja. Ma ne siamo veramente convinti? Quanti di noi vanno in
chiesa, anche in questo periodo di Pasqua, e pregano il Dio risorto, il Dio Vivo.
Un fatto concreto, ma poco credibile: perché? Perché Dio non è vivo per loro; è
e rimane morto. È un Dio che non entra nella loro vita, non li “tocca”, non li
cambia, non li coinvolge, non penetra nella loro esistenza, non si lasciano
entusiasmare da Lui. È un Dio morto! Non è il Dio di Gesù Cristo, perché Lui è
sì morto ma è anche risorto, è vivo, presente, operante. Molti vanno dunque in
chiesa ma non sono toccati da niente: escono freddi, piatti, vuoti. Come erano
entrati.
Non
vedono Dio. Sono assenti, come era successo a Tommaso; non percepiscono cosa
voglia dire che Lui è Vivo, che Lui ci incontra, che Lui è Vita.
Quando
leggiamo il vangelo e sentiamo le parole di Gesù, le facciamo nostre, le
interiorizziamo, esse sicuramente risuonano in noi, vibrano, sono creatrici di
vita. A volte ci possono creare anche dei problemi, perché non ammettono
compromessi, ma sempre e comunque ci fanno bene; sono sempre salutari perché ci
scuotono, perché ci aprono nuovi orizzonti, perché anche se le porte sono chiuse,
rinserrate, per lo meno qualche fessura inizia a crearsi. In quei momenti Dio è
veramente vivo in noi: agisce, lavora, sentiamo che ci plasma, ci modella, ci
crea. Allora ogni volta che andiamo in chiesa noi lo sentiamo, percepiamo che
Lui è Vivo: e questo non può lasciarci indifferenti.
Ci
dice: “Pace a te: che tu abbia la pace profonda, la pace dell’anima”. E noi la
percepiamo questa pace; sentiamo che possiamo vivere ancorati ad una pace
sovraumana, ad una pace che va oltre tutti i conflitti e le lotte. Avvertiamo
che, nonostante tutte le battaglie di ogni giorno, a volte senza risparmio di
colpi, c’è un luogo dove tutti gli spari della maldicenza, i colpi, le
cattiverie, le fucilate vendicative del mondo non arrivano: è il luogo della
Pace. Comprendiamo allora cosa vuol dire “La pace sia con voi!”, avere pace nel
bel mezzo dei nostri conflitti interiori, pur continuando ad avere problemi,
contrasti o incomprensioni.
Ci
dice: “Il Padre manda me e io mando te”. E sentiamo la nostra grandezza. Noi
abbiamo una missione, noi siamo gli “inviati di Dio”. È difficile crederci, a
volte dubitiamo perché dubitiamo di noi, non ci fidiamo, non possiamo credere
alla nostra grandezza. Ma sentire queste parole e fidarci di Lui ci aiuta a
credere alla nostra missione, alla nostra vocazione, al Suo disegno, al fatto
che noi siamo in questo mondo per un motivo ben preciso, che dobbiamo vivere per
compiere veramente qualcosa di “grande”.
Ci
dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e credi”.
Sono parole forti. La mano per gli antichi era l’oggetto di conoscenza. Pilato
che si lava le mani con quel gesto dice: “Non voglio sapere. Preferisco il
buio, l’ignoranza, il non sapere”. Noi invece sentiamo il bisogno di conoscere,
non una conoscenza mentale ma affettiva, del cuore. Sentiamo il bisogno di
“toccare” e di essere toccati da ciò che tocchiamo e vediamo. Sentiamo il
bisogno di percepire nell’altro tutta la sua passione, la sua sofferenza e la
sua voglia di vivere perché dobbiamo farle nostre; perché la sua vita deve
essere la nostra vita. “Chi accoglie loro, accoglie me”, ci ricorda Gesù.
Allora,
fratelli, ogni volta che andiamo a messa, ci andremo non tanto per fare una
bella esperienza, per ricordare qualcosa, per piangere su Gesù. Ma andremo lì e
lo sentiremo vivere in noi; sentiremo che Lui è Risorto veramente; sentiremo
che Lui è vivo; sentiremo che Lui si rivolge a noi; sentiremo che ci chiama e
che ci parla.
Quando
Lo ascoltiamo nel vangelo e permettiamo alle Sue parole di superare le nostre
porte chiuse, blindate, per paura non dei “nemici”, ma dei cambiamenti, del non
sapere a cosa ci porteranno, della fatica e del dolore di metterci in
discussione per la paura di perdere le nostre false immagini, le nostre maschere
e impalcature; per la paura di vederci solo per quello che siamo. In tutte
queste situazioni, quando lo lasciamo entrare, sentiamo che qualcosa ci fa
sussultare, ci fa fremere, ci fa sentire che Lui c’è, che Lui è vivo. Anche noi
come Tommaso possiamo allora dire: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il
problema di Tommaso non è stato tanto il dubbio, le domande bisognose di
risposte. Il problema di Tommaso è stata l’esperienza. Lui non laveva visto e non
ne aveva fatto esperienza. Non era stato toccato in profondità dal Signore
Risorto. Era l’amore che gli mancava.
La
fede cristiana è un incontro, un’esperienza, è una relazione personale. È un
innamoramento. Tutte le testimonianze dei fratelli ci aiutano, ci servono, ci
stimolano, ci invitano. Tutte le preghiere sono buone, utili, importanti. Tutti
i gruppi, le liturgie, gli incontri ci aiutano ma se noi non vediamo e non tocchiamo,
cioè non facciamo esperienza personale, la fede degli altri aiuta e serve agli
altri ma non a noi. Inutile farsi un sacco di domande su Dio, sulla vita, fare
infinite congetture e possibili implicazioni. Diamo l’idea di essere dei grandi
pensatori, dei profondi contemplativi, di essere persone che soffrono molto il
problema di Dio. Ma in definitiva abbiamo semplicemente paura di Lui. Non vogliamo
lasciarci coinvolgere, abbiamo paura: temiamo di dover mettere le nostre mani
sulle ferite e sul cuore trafitto. Temiamo l’incontro. Temiamo l’esperienza
bruciante di Dio.
Eppure,
anche noi come Tommaso, lo possiamo toccare realmente nell’Eucaristia. Perché celebrare
nell’eucarestia la morte e la resurrezione del Signore, vuol dire esattamente percepire
la sua presenza, incontrarlo, sentire che Lui è il Vivente, che Lui ci parla,
che Lui ci incontra. Sentire che non solo Lui ha vissuto, ma che Lui vive; che non
solo Lui è stato forza e passione, ma che Lui è Forza e Passione; che non solo Lui
ha chiamato e guarito, ma che Lui ci chiama e ci guarisce.
Quando
il Risorto appare, mostra agli apostoli le mani e il costato feriti. In ogni
eucaristia noi mostriamo e tendiamo a Lui le nostre mani ferite. Con le mani
lavoriamo e facciamo tante cose. Le nostre mani ferite sono il dolore e la
sofferenza che viviamo mentre lavoriamo, mentre facciamo il nostro dovere e veniamo
umiliati. Le mani ferite sono quelle mani che si aggrappano a noi, che non ci
lasciano liberi, che pretendono sempre e tutto da noi, che ci inchiodano ad
ogni minimo sbaglio, che ci trattengono e che ci feriscono. Sono quelle situazioni
e quei ruoli in cui tutti si aspettano tutto da noi.
Le nostre
mani sono ferite quando qualcuno che amavamo ritira improvvisamente la sua
mano, non ci appoggia più, ci toglie il suo sostegno, il suo amore, ci tradisce.
Le mani ferite sono quando ci rendiamo conto che anche noi abbiamo vissuto
male, che abbiamo anche noi ferito e umiliato; quando in certi giorni ci
vergogniamo di ciò che siamo. Allora abbiamo bisogno di un amore che ci risani
e che ci ridia dignità.
In
ogni eucaristia Gesù ci mostra le sue mani perché anche noi possiamo mostrargli
le nostre mani. Perché se gli mostriamo le nostre mani ferite, potremo
sperimentare immediatamente la forza risanante del Suo amore. Molti si tengono
dentro le ferite. Soffrono e non lo dicono a nessuno; non lasciano trasparire nulla.
Allora il dolore marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Se una ferita
non viene curata, medicata, infetta tutto l’organismo. Le mani di molte
persone, le loro vite, sono piene di dolore, di rabbia, di lacrime e di
umiliazioni. Ma temono di aprirle e mostrarle, si vergognano. Ma in questo modo
non può avvenire nessuna guarigione, niente può trasformarsi, niente può essere
risanato. Chi non si accorge di essere malato, come può guarire? Non si può
vivere senza essere feriti. Ma si può vivere, e bene, guarendo.
In
ogni eucaristia noi portiamo le nostre mani ferite. E facciamo un gesto piccolo
ma infinitamente grande. Con le nostre mani ferite ci accostiamo all’altare e
le apriamo, le stendiamo perché il Sacerdote vi deponga Cristo, con il suo
Corpo vivente; perché Lui si prenda cura di tutte le nostre ferite, e le
risani. Noi gli tendiamo tutte le nostre ferite e lui viene con il suo amore: nel
nostro dolore, entra il suo amore. Perché lì, dove c’era rifiuto, ci sia
accettazione. Dove c’era paura ci sia fiducia. Dove c’era esclusione ci sia
accoglienza.
In
ogni eucaristia noi mostriamo il nostro costato e il nostro cuore trafitto. Il nostro
cuore è ferito dal desiderio di amare e di non riuscirci, di farlo soltanto in
modo aggressivo, possessivo o avvinghiante. Vorremmo amare di più i fratelli;
vorremmo amarli meglio; vorremmo amarli più in profondità, ma spesso non ci
riusciamo. A volte non lo facciamo, per paura di essere lasciati, di essere
traditi; abbiamo paura di amare. Andiamo allora, fratelli; andiamo a messa e
mostriamo a Gesù le nostre mani sanguinanti, il nostro cuore trafitto, da cui
sgorga amore e dolore. In ogni eucaristia, mostriamogli il nostro cuore, il nostro
amore e chiediamogli di trasformare il nostro modo meschino di amare. In ogni
eucaristia mostriamogli il nostro bisogno vitale di amore. A volte pensiamo di
bastare a noi stessi, di non aver bisogno di nessuno, di arrangiarci da soli.
Ma sappiamo che non è così, e quando ammettiamo questo bisogno, siamo disposti
a prendere qualunque amore, anche di sottobanco, attraverso la gloria, l’imporci,
il comandare.
In
ogni eucaristia mettiamo allora nel Suo cuore il nostro bisogno di ricevere
amore, la nostra fatica di aprirci per riceverlo, la nostra paura di essere
vulnerabili, di essere nuovamente feriti. In ogni eucaristia mostriamogli il nostro
cuore trafitto, ferito nell’amore, ma bisognoso d’amore. E chiediamo a Dio di
darci la forza di poter continuare ad aprire continuamente il nostro cuore, di
non aver mai paura di fidarci dell’amore e di Dio. E Cristo Signore, risorto e
vivo, ci benedica sempre. Amen.
«Allora entrò anche l’altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non
avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai
morti». (Gv 20,1-9)
Pasqua:
una parola profonda, carica di significato. Vuol dire, passare, salvare, risparmiare. La parola ebraica pesah (da cui pasqua) indica appunto il grande passaggio del Mar Rosso. Ricordate? In Egitto gli Ebrei erano
schiavi del faraone; non hanno praticamente nulla; pane, cipolle e un lavoro
massacrante; ma, quel che è peggio, sono affetti da un male ancor più grave e terribile:
l’abitudine. Si sono cioè abituati a questa non-vita, si sono abituati a vivere
da schiavi, a vivere una vita che non è vita, che non ha nulla di “umano”, che
è decisamente morte.
Ecco,
fratelli, questo può diventare anche il nostro dramma: confondere cioè la “vita”
con la schiavitù. Di qualunque genere essa sia. E abituarci, affezionarci a
questa schiavitù.
Del
resto guardiamoci intorno: non è forse un dramma quello di pensare di vivere
da liberi, quando invece siamo schiavi, sottomessi, dominati dai nostri
istinti, dal nostro egoismo, dalle nostre passioni, dalla nostra cattiveria? Ebbene:
Pasqua deve costituire anche per noi un autentico “passaggio”: passare cioè da
uno stato di dipendenza negativa, dal male, dal mondo, da una mentalità “laica”,
ad una entusiasmante e rigenerante libertà. Certo, è un passaggio difficile, un
passaggio che può sembrare addirittura impossibile, un passaggio per il quale
dobbiamo necessariamente ricorrere all’aiuto di Qualcuno, di fidarci ciecamente
di Qualcuno. Ed è questo il messaggio che le parole di Cristo, nostra Pasqua, oggi
ci trasmettono in tono perentorio: “Vivi da uomo libero. Non buttarti via, non continuare ad illuderti, non vivere
più da schiavo. Io ti ho affrancato”.
Ascoltiamo
questo invito, fratelli, facciamo in modo che per noi la Pasqua significhi veramente
un punto fermo: se dobbiamo compiere questo passaggio,
facciamolo, non perdiamo altro tempo! Se ci viene chiesto di vivere la Pasqua, facciamolo,
con tutta la generosità del nostro cuore! Se dobbiamo affrontare questo passaggio, così determinante e
improrogabile, non rimandiamolo oltre, ma buttiamoci dentro con forza ed
entusiasmo! Perché questa è la nostra Pasqua!
Abbiamo
detto che pesah, pasqua, oltre che passare, vuol dire anche salvare, risparmiare: come ha fatto Dio
con gli Israeliti che, contrariamente agli Egiziani, sono stati risparmiati, hanno avuto salva la vita
di tutti i loro primogeniti. L’Egitto invece, succube di un faraone dal cuore
“duro”, testardo, irremovibile, è stato colpito da una serie di “segni” divini,
da una serie di “prove” della potenza divina. Nove, per l’esattezza, sono stati
questi segni. Esattamente come nove sono i mesi necessari ad una creatura per
nascere, per entrare nella vita, per “risorgere” ad una nuova realtà. In questo
frangente il cuore del faraone non si è sviluppato, non è nato, non è cresciuto: il faraone non è riuscito a formare dentro
di sé un “figlio”, un’anima, ed è morto. E questo è quanto succede anche a noi quando
non ci sviluppiamo dentro, quando non
ci curiamo di formare una nostra vita
interiore: automaticamente, con il nulla all’interno, moriamo anche
all’esterno, nella nostra vita di relazione. Se all’interno non abbiamo l’anima,
all’esterno costruiremo soltanto un arido guscio, un inutile apparire, ancorato
nel nulla; otterremmo un fallimento totale che ci porta inesorabilmente al
vuoto più assoluto, alla morte.
Pasqua
invece è vita: rinasciamo, risorgiamo con Cristo! L’unico invito che Gesù,
nostra Pasqua, ci ripete oggi, è “Vivi! Vivi per me! Vivi insieme a me!”. Certo,
fratelli, questa non è una vita che si improvvisi, non cade dal cielo; tutti siamo
chiamati a sacrificare il nostro agnello:
è un procedimento faticoso, a volte lacerante; ma se affronteremo con decisione
il cammino nel deserto, se attraverseremo coraggiosamente il nostro “mar
Rosso”, sicuramente, alla fine, anche noi conquisteremo la nostra terra della
libertà. Allora sì che vivremo per davvero, fratelli. Allora sì che saremo definitivamente
vittoriosi sulla “morte”; perché il segreto di Pasqua è il segreto di una Vita immortale,
in assoluto la più forte e invincibile.
Una
vita che se ascoltiamo l’invito di Gesù, se andiamo al massimo delle nostre
possibilità, se investiamo tutta l’estensione del nostro cuore, tutta la
ricchezza della nostra anima, tutta l’intensità del nostro amore, tutta la
passione di cui siamo capaci, sicuramente è alla nostra portata.
Può
capitarci a volte di chiedere a qualcuno come gli vada la vita: “Bene!”, ci sentiamo
rispondere. Ma, guardandolo, ci accorgiamo che questo suo “bene” non è altro che
un misero “tirare avanti”, un sopravvivere: non c’è “vita” nei suoi occhi, non
c’è energia nelle sue parole; il suo “Va bene” in realtà significa: “Non va per
niente bene, sono morto, mi sono spento; non ho più fiato, arranco, vado avanti
a tentoni; ormai mi sono abituato, e mi va bene così!”.
Ebbene,
che non succeda mai una cosa simile anche a noi, fratelli! Non contrabbandiamo
l’abitudine ad una non-vita, con la gioia di una vita vera, da liberi, da eredi!
Dovunque
andava, Gesù ci provava sempre: cercava cioè di risvegliare in tutti la scintilla
della loro vita; una scintilla vitale
magari assopita, addormentata, ma mai spenta; perché questa è la verità che Egli
ci ha voluto insegnare: la Vita, quella vera, non muore mai. E per quanto
sembriamo spenti, prosciugati di ogni energia, lontani dalla realtà, alienati
dalla paura, nonostante ciò il respiro della nostra anima, il sigillo di Dio, non
cessa; resiste sempre; magari è in letargo, è coperto di incrostazioni, oscurato,
ma, sotto sotto, vive tenacemente; anche se in forma minima, la nostra scintilla
di Dio sopravvive sempre e comunque. Si tratta di risvegliarla, di ravvivarla, di
stimolarla, di riaccenderla.
Noi viviamo
nel buio, è vero. Ma quel che è peggio, noi amiamo questo buio; dovremmo
guardare in faccia a qualcosa di molto importante e vitale, ma non vogliamo
farlo, non lo vogliamo di proposito: abbiamo paura, e chiudiamo gli occhi. Lo
so, vedere certe cose di noi, prenderne coscienza, ci fa paura. Ma nel buio,
fratelli, non c’è possibilità di Vita; c’è solo menzogna, illusione; significa vivere
non da “figli della luce”, ma da “figli delle tenebre” (Gv 1,5).
Ci rifiutiamo
di guardare, perché continuiamo a fare cose che la nostra anima non vuole fare,
continuiamo a vivere vite moribonde che il nostro cuore non accetta di vivere. Per
questo ci paralizziamo, abbiamo paura di scegliere, di sbagliare, di soffrire. Ci
blocchiamo perché, non ascoltando il nostro cuore, non troviamo nessun’altra
strada, temiamo di ritrovarci soli, e abbiamo paura di percorrere strade nuove,
sconosciute, mai percorse.
Ascoltiamo
invece Gesù che ci dice: “Amico, alzati, prendi il tuo lettuccio, fai la tua
strada con le tue gambe!”. Perché è vero. Tutti abbiamo le nostre gambe: dobbiamo
semplicemente rendercene conto, metterle in moto e camminare da soli, smettendo
di fare i falsi invalidi, di farci compatire, di affidarci alla pietà altrui.
Prendiamo in mano la nostra vita e percorriamola con decisione come Lui
suggerisce al nostro cuore. Perché per noi questo è Pasqua!
Ricordate
il Vangelo? Lebbrosi, figli morti, padri che si inginocchiano a pregare, madri
distrutte dal dolore, persone che sembrano perse nei loro peccati, persone
emarginate da tutti, gente insomma la cui vita sembra spenta, morta, persa. Bene:
Gesù avvicinava tutti e li guariva tutti. Il suo annuncio era: “Dio, la Vita, è
il più forte!”. Ne era convinto. Lo disse, lo visse, lo testimoniò.
Poi
però, un giorno, anche lui morì. E per i suoi fu la fine. Se ne tornarono a
casa delusi. Avevano creduto e puntato tutto su di Lui, ma la morte sembrava
averlo vinto. Sembrava, fratelli; semplicemente sembrava: perché, i pusillanimi, ben presto fecero la scoperta più
grande e più imprevedibile della loro vita: non è stata la morte ad avere l’ultima
parola. È Lui che ha vinto la morte, è Lui che vive. Lui è vivo. E, forti di questa
constatazione, improvvisamente agguerriti, nessuno più riuscì a fermarli; andarono
in tutto il mondo, testimoniando nient’altro che questo: “Lui è vivo. La Vita è
più forte della morte, di ogni morte. Tutto quello che ci aveva detto, è vero.
Lui è la Vita vera”.
Oggi
noi, quando sentiamo queste parole, pensiamo immediatamente all’altra vita, a quella
vera che viene dopo, al Paradiso. Ed è giusto. Ma se non fosse proprio così? Se
non fosse solo questo? E se la nostra vita attuale fosse, già da ora, una
pallida sembianza dell’altra vita, quella vera? E se la vita che viviamo
all’esterno, il nostro mondo, fosse lo specchio della nostra anima, del nostro
mondo interiore? Se il mondo reale fosse
non tanto quello che vediamo, che ci circonda, ma quello che abbiamo dentro?
Quando
noi diciamo: “Il mondo è proprio cattivo, è irriconoscibile: c’è violenza, c’è
odio, ci sono stupri e aggressioni, ci sono imbrogli e ruberie”, ci siamo mai
chiesto cosa nutriamo dentro il nostro cuore? E se fosse che il mondo esterno
va così proprio perché il mondo che è dentro di noi, va esattamente allo stesso
modo? Siamo certi di poter escludere che tutto il male che vediamo all’esterno,
non sia già presente dentro di noi? Non dimentichiamo che Gesù dice: “È dal di
dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni cattive!” (Mc 7,21).
Parole
sacrosante, fratelli, da meditare seriamente; perché, in verità, il male il più
delle volte non è fuori, ma dentro di noi! Non viviamo in due mondi
distinti, in due realtà completamente separate: ma quello che pensiamo di fare per
noi stessi, finiamo per farlo anche per i nostri fratelli, sia esso bene o male:
se ci amiamo, li amiamo. Se ci odiamo, li odiamo.
Pasqua
è la vittoria sulla morte. Un tema ostico, per noi, quello della morte: sappiamo
bene che un giorno dobbiamo morire, ma non ci pensiamo, è l’ultima delle nostre
preoccupazioni; anche perché se ci pensassimo seriamente, ci assalirebbe l’angoscia.
Chi però ci osserva, e non crede nella Pasqua, ha ragione di chiedersi che senso
ha fare ciò che facciamo, dal momento che poi tutti devono morire e tutto
finisce. In effetti, che senso avrebbe il nostro amare, il nostro cercare e
dare Amore, il nostro lottare contro il male, se poi tutto passasse e tutto
finisse? Ma la Pasqua ci dice che la vita non finisce qui: che è solo un passaggio; che Cristo, sconfiggendo la
morte “in un duello prodigioso”, ci ha riservato una esistenza eterna inimmaginabile.
A
questo punto la morte perde ogni sua prospettiva terrificante, non ha più alcun
valore per noi, perché è la Vita vera che ci attrae: ma allora, scusate, se è
la Vita infinita che ci attrae, perché continuiamo a vivere “da morti”? Possibile
mai? Non può essere! Eppure è vero, fratelli: cosa esprime infatti il nostro
volto perennemente incupito? Cosa dicono le nostre parole stizzite? Non siamo forse
noi quelli che serbano rancore per un nonnulla, quelli a cui non va bene mai
niente, quelli che sono sempre acidi e nervosi? E le nostre scelte? Non ne
facciamo; meglio non farne, piuttosto che sbagliare e venire criticati. Insomma,
se amiamo la Vita come diciamo, perché ci comportiamo “da morti”? È semplice: perché
nei fatti ancora non crediamo nella Vita; perché, tutto sommato, siamo ancora convinti
che solo questa sia la nostra vita, e quindi le siamo terribilmente attaccati, abbiamo
tanta paura di perderla. E viviamo nell’angoscia; anzi non viviamo proprio, perché
siamo sempre all’attacco, sempre ombrosi, sempre diffidenti. Non ci capacitiamo
della precarietà dell’oggi, non alziamo il nostro sguardo a Cristo risorto, a
Lui portatore di Vita immortale, a Lui nostra Pasqua di risurrezione.
Anche gli
apostoli, mentre andavano al sepolcro, non avevano ancora capito le Parole che
Gesù aveva detto loro: che cioè il Cristo “doveva risuscitare dai morti” (20,9). Per questo, morto Lui, se ne
tornarono a casa, nello sconforto più profondo. Pensavano: “Beh, è stata una
bella esperienza, peccato che ora sia tutto finito”. Anche per loro la morte
era la fine di tutto; era ancora impensabile e improponibile una morte come principio
di vittoria e di vita, una morte come ri-nascita. Fu lì, al sepolcro, che fecero
l’incredibile, l’irrazionale, l’indicibile scoperta: che le cose non erano così
come loro le pensavano. La realtà andava ben oltre: nella vita attuale si innesta
una Vita più grande, più bella, più intensa, che non ha mai fine.
Questo
fratelli è il miracolo della nostra Pasqua, il miracolo che ci deve contagiare,
che ci deve radicalmente cambiare: esattamente come è successo con il miracolo “storico”
della resurrezione, che riuscì a trasformare definitivamente, in maniera
inspiegabile, uomini pieni di paura, traditori (come Pietro), arrivisti (come Giacomo
e Giovanni), uomini grezzi, per niente acculturati o speciali. Prima (e anche
durante la vita di Gesù) vivevano nella paura e nella difesa; poi andarono
pieni di coraggio, di energia, di vitalità e passione in tutto il mondo, senza più
alcun timore, senza sottrarsi alle sfide e alle persecuzioni; e tutto questo lo
fecero in nome di Cristo.
Questo,
fratelli, fu il grande miracolo: capirono che Lui non era morto, che Lui era
vivo, così vivo da continuare a vederlo, a sentirlo al
loro fianco, da continuare ad accompagnarli. In conclusione, tutto ciò che ora noi viviamo, ci dice
la Pasqua, dobbiamo viverlo con tutta la forza del
cuore in funzione della Vita vera, quella eterna; come assaggio di quella nostra
Pasqua gloriosa, che vivremo sempre con Gesù e il Padre, immersi anche noi nell'estasi del loro
Amore. Amen.
«Mancavano due giorni alla
Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di
catturare Gesù con un inganno per farlo morire» (Mc 14,1-15,47).
Nel
racconto della Passione, riviviamo la storia di un uomo perdutamente innamorato
di Dio e degli uomini. Un amore “folle” che lo ha spinto fino ad accettare l’estrema
conseguenza: la morte. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con
intensità, bruciando, amando, piangendo, commovendosi, non passando
indifferente vicino a niente, infuocato ora d’amore e ora di sdegno. Una vita
vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Una
vita di fedeltà. Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo e
per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio. E
quando tutto sembrò finire, concludersi; quando tutto sembrò chiudersi Dio non
lo tradì. La Passione è la storia di quest’uomo fedele a se stesso e al proprio
profondo, innamorato di questo Dio che non lo lasciò, ma che confermò con la
resurrezione che tutto ciò che Egli viveva era “Dio”.
Ripercorriamo
insieme alcune scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci
vengono proposte oggi dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la
forza per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, per vivere con passione la
nostra vita; possiamo rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono
coinvolti nel racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con
quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura. In loro possiamo rivederci,
ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono dei
simboli profondi, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi e
in ogni uomo:
14, 3-9: l’unzione di Betania. Due giorni prima della
crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e
gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava,
in genere, solo in occasioni solenni. Il valore dell’unguento è molto elevato,
stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un gesto di assoluta
bontà. Del resto che cosa può fare questa donna per Gesù? Niente. In che modo
lo può aiutare? In nessun modo. Può togliergli la delusione, il senso di
fallimento, della fine, che Gesù vive? No. Questa donna non può fare niente,
non può cambiare o togliere niente dal corso preso dagli eventi. Non può fare
nulla. Ma può amarlo. E così le sue mani delicate e tenere, curano, accarezzano
e sollevano il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi ami, lasciate
che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore! Quando non si
può fare più niente, possiamo sempre amare, stare vicini, stare a fianco,
prenderci cura, stare silenziosamente presenti. Quando più nulla è possibile
fare, non ci resta che amare. E questo è tutto il nostro potere.
14, 10-21: Giuda. Come è stato possibile che
uno di quelli che seguivano, che amavano Gesù, lo abbia tradito? Come è stato
possibile che uno di quelli che per Lui avevano lasciato tutto, lo abbia
consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro. Cosa non
si fa per denaro! Per il denaro può succedere che siamo pronti a vendere quello
che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore,
la nostra anima, l’affetto e il nostro tempo. E quando abbiamo perso tutto,
cosa ci rimane? Chi insegue il denaro finisce come Giuda, che disperato si impicca.
Il denaro è una illusione affascinante che conduce alla disperazione quando ci
si accorge che, credendo di avere tutto, di potere tutto, in realtà, non abbiamo
niente; non abbiamo amato, non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito una illusione,
un’apparenza, un sogno. È la morte.
14, 22-25: l’eucarestia. Il sinedrio ha già deciso di
condannare Gesù. E Gesù, durante la cena pasquale, con l’immagine del pane e
del vino, fa della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che
viene spezzato. Desidero che la mia vita sia come il grano, che si dona e
diventa alimento, vita, per molte persone. Desidero che dal mio morire, che dal
mio andare fino in fondo, altri gustino la vita. Desidero che la passione della
mia vita, il mio vibrare e il mio sangue siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre
persone. Vorrei essere per tutti voi un po’ di pane e un po’ di vino. Vorrei
che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo,
alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”. Con queste parole Gesù
affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente esternamente cambierà.
Ma tutto sarà diverso, perché adesso c’è una preghiera, un senso su ciò che sta
per accadere. Nonostante tutto, al di là di tutti i motivi razionali, il nostro
dolore da oggi sarà qualcosa di buono. Sapremo, come nel pane e nel vino, che
ciò che è frantumato crea nuova vita. La nostra sofferenza diventerà nuova vita;
anche se perdiamo la vita non moriremo e, se ci lasceremo portare, dalla nostra
morte risorgeremo meravigliosamente a nuova vita. Cosa poteva donarci di più
Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei
discorsi. Gesù si è donato lui stesso a noi. Questo è il vertice della vita. Perché
l’amore è donarsi. L’amore vuole darsi, e darsi del tutto, fino alla fine,
completamente. In ogni eucaristia noi celebriamo proprio questo: un amore
donato. E in ogni amore donato, noi celebriamo un’eucarestia.
14, 26-42: il Getsemani. Gesù prega: avrebbe potuto
fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non viene
descritto come abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo Padre. Anzi, Gesù
lo prega, il Padre. C’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Ma Gesù ha
paura; è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere. È
l’angoscia di finire nel nulla della lotta per la vita. È l’angoscia per un
supplizio che gli si prospetta terribile; l’angoscia per sentirsi tradito; la
paura del fallimento, del dubbio terribile: Gesù continua ad essere in
comunicazione con Dio, ma dall’altra parte tutte le paure, tutti i mostri
interiori si materializzano. Qui c’è, tutta la solitudine di Gesù. Nessuno dei
suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, riescono a
stargli vicino. Dormono. Cioè, non capiscono, non colgono la profondità, il
dramma, cosa ci sia in questione. Vivono nella superficie, non si accorgono di
ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle
loro cose e da tanto altro che non “vedono” la tragedia che si sta per
compiere. Ma come si fa a dormire, ad essere tranquilli in momenti simili? Gesù,
ed è qui così umano, chiede loro: “State con me; ho paura, so che non potete
far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono. Gesù si
accorge che non può contare su nessuno. È solo. Nessuno gli è vicino; nessuno
lo comprende; nessuno lo consola. Non può contare su nessuno.
14, 26.-31. 66-72: il
tradimento di Pietro.
A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il
punto! Pietro è la roccia (Cèfa, Pietro, roccia); è l’uomo che ostenta
sicurezza: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò”. È l’uomo
istintivo, d’azione, un uomo che, dice lui, non ha paura. Pietro in questo rappresenta
la nostra “rettitudine” morale, religiosa, il nostro credere di essere fedeli,
la nostra esuberanza che ci fa pensare: “Capiteranno agli altri queste cose,
non certo a me!”. Pietro rappresenta la banalità con cui la gente si conosce,
un idealismo e una superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Gesù
perdona Pietro, prima ancora che lo tradisca. Ma finché Pietro non si rende conto
di ciò che lui è, di ciò che ha potuto fare, non può percepire che l’amore di
Gesù e di Dio è più grande del nostro fallimento, del nostro errore. Dio non ci
chiede di essere perfetti; ci chiede solo di essere umani, consapevoli di ciò
che abbiamo dentro, dei nostri sentimenti, delle nostre paure e delle nostre
fragilità. Perché ogni volta che presumiamo di noi allora, anche noi, spinti
dalle nostre paure inconsce lo tradiremo, e non ci accorgeremo dei nostri
tradimenti! Pietro rappresenta qui la chiesa, noi cristiani. Di fronte al
pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene, sono facili, allora è
semplice seguire Gesù. Quanti lo hanno seguito finché predicava, finché guariva!
Qualche giorno prima era entrato a Gerusalemme tra canti, palme e ulivi. Ma
adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che si è,
da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando c’è il pericolo delle
proprie scelte, allora la chiesa, noi, ci comportiamo come Pietro: rinneghiamo
la verità, facciamo finta di niente, tradiamo la nostra chiamata. Quante volte imprechiamo,
spergiuriamo, quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo,
quando seguire Gesù è pericoloso, è compromettente, doloroso, controcorrente!
Quando Gesù ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora,
fratelli miei, con quanta facilità ci tiriamo indietro!
14, 43-52: l’arresto di Gesù. Osserviamo semplicemente come
si scagliano contro Gesù. Va da lui “una folla con bastoni e spade”. Giuda, uno
degli apostoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo
arrestano”. “E tutti, poi, abbandonandolo, fuggirono”. È l’infamia, il
giudizio, della folla, della gente; del detto per sentito dire; di chi si
scaglia e attacca per cose riportate da altri; del perché sembra, del perché
qualcuno ha detto. È l’infamia di chi ci ferisce e ci bastona senza motivo. È
la falsità di chi ci sembrava amico. Di chi ci bacia (certi baci sono proprio
come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa e poi ci tradisce.
È la meschinità di chi nel pericolo se ne va: “Si arrangi, non sono affari
miei”.
14, 53-65: Gesù davanti al
sinedrio. I
capi e i sacerdoti cercano, e non li trovano, motivi per metterlo a morte.
Molti attestano testimonianze contro di lui, ma sono così false e distorte
dalla verità che non concordano. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo
per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia e
tutto il sentimento interno scoppia e sfocia in un’aggressività che giudica,
che vuole ferire, che vuole punire. E non importa chi ci sia davanti; non importa
cosa l’altro abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia
allora bisogna trovare qualcuno da infangare. Allora non esiste più l’altro
nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che
esce, giudica, uccide e si scaglia contro l’altro. Quante persone insultano,
schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male! E non si
accorgono che non sono gli altri a fare il male: ma è il loro di male, il loro lato
negativo, il loro marcio. Combattono negli altri il loro male. E facendo così,
continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.
15, 1-15: Pilato. Gesù è stato giustiziato dai
Romani. Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Pilato coglie la forza, la
profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i giudei stanno per
tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno consegnato.
Potrebbe lasciarlo andare. Lui sì che potrebbe fare qualcosa. Lui decide, lui
può decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica cosa che gli
interessa è il potere, aver meno problemi possibili e non incrinare i rapporti
politici. Pilato sembra comandare, essere il potente; e, invece, è intrappolato
nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere
il potere. Sembra comandare, sembra essere il re e, invece, è l’impotente,
colui che non può agire, che non può deludere i suoi pari; che non può
manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di prendere una posizione
chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa, che va
dove vanno tutti. E si crede il re. Si crede il governatore, si crede potente. Potente
di cosa?
15, 24-38: la crocifissione e
la morte. Guardiamo
la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per
entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte
le speranze, chi aveva lottato con lui, chi aveva coltivato il desiderio e
l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per lui e per questo mondo.
Come avranno vissuto questo evento le persone che Gesù aveva guarito? Come l’avrà
vissuto la Maddalena? Come l’avrà vissuto Zaccheo, i sordi che tornavano a
sentire, i muti che tornavano a parlare, i ciechi che tornavano a vedere, i
morti che tornavano a vivere? Come l’avranno vissuto, cos’avranno provato nel
vedere che chi aveva dato loro la vita, adesso è appeso, attaccato come il
peggiore dei farabutti ad una croce? Sapere che quell’uomo che li ama è proprio
Dio, che quell’uomo viene in nome della verità, che quell’uomo parla perché
ispirato da Dio, e vederlo in croce: cosa si prova? Dove finiscono tutte le
nostre certezze? Cosa si prova nel vedere chi si ama appeso ad una croce? Chi è
il colpevole del numero impressionante di bambini che muoiono di fame? Nessuno.
Chi è colpevole delle tante nefandezze e miserie che colpiscono il mondo?
Nessuno. Di chi è la colpa della morte di Gesù? Di nessuno, è chiaro! Tutti
avevano buoni motivi: Caifa, “la necessità storica”; Pilato “la ragione
politica e il mantenimento dell’ordine”; Pietro “la mia semplice
sopravvivenza”; i sadducei “la legge”; i farisei “la religione”; le persone
rispettabili “la morale”; i soldati “l’obbedienza”. Ognuno aveva i suoi validi
motivi; ma erano sufficienti? O non erano solo tentativi di tranquillizzare la
propria coscienza? Di lavarsene le mani? La croce è l’abbandono totale di Gesù
nelle mani del Padre e della vita. È lo scontro fra due religioni: quella di
Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la
religione della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri,
l’istituzione, l’ordinamento e l’obbedienza. Non importa se le leggi
distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli
insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma.
Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza.
Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle
donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso,
prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell’unico
Padre. Gesù non faceva molti sacrifici, non digiunava, non si comportava
scrupolosamente nei confronti delle regole. Era molto libero, mangiava,
banchettava, faceva spesso festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva
che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era fare qualcosa,
ma fare della propria vita qualcosa di vero, di importante e di significativo.
Non cercava sacrifici o sofferenze. Anzi le evitava. Gesù non reprimeva
l’amore, non evitava il contatto con le donne, come quelle che lo accarezzavano
o lo baciavano. Gesù piangeva. Gesù si arrabbiava. Com’era dentro, così era
fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva. Gesù voleva che fossimo umani. Che in
noi non c’è niente che sia indegno agli occhi di Dio, da nasconderci. Che
davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o
belle maschere. Perché in croce tutto questo finisce. Questa era la religione
di Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare,
di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma
mai distrutta. E, infatti, non solo Gesù è risorto, ma con lui anche la sua
pretesa del regno dei cieli e di questa religione. E quando il venerdì santo
andremo a baciare la croce, noi baceremo questa religione, cioè, la religione
di Gesù, della vita, dell’amore, della verità. Andremo a baciare la croce
perché, nonostante tutto, la religione di Gesù non è stata sconfitta: Dio,
risorgendo il suo Figlio, ha dimostrato che questa è l’unica e vera religione.
Ciò che viene da Dio non muore mai. Può essere perseguitato, ucciso, deriso,
umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l’unica realtà. Ciò che viene da
Lui, chi si affida a Lui, non muore mai.
15, 38-41: il centurione e le
donne. Sotto
la croce c’è un centurione, un soldato, uno che ha obbedito agli ordini. È
l’uomo che ha sempre obbedito, che non ha riflettuto per conto suo. Ha eseguito
ciò che altri avevano stabilito. Fa quello che tutti fanno. È l’uomo che ha rinunciato
a pensare, che ha delegato le sue responsabilità alla tv, ai sistemi, agli
esperti. Ha appaltato il suo cervello ad altri. Non ha voluto faticare: si è
adattato, omologato, ha seguito il pensiero dei più, quello comune, quello già
digerito da altri. E adesso si rende conto di aver preso parte ad un dramma e
ad una tragedia di cui anche lui, senza saperlo, ne è stato la causa. “Davvero
quest’uomo era figlio di Dio”. Vivere senza pensarci, trascinati dagli altri,
senza consapevolezza, senza ragione critica, produce nuove crocifissioni.
Ognuno è responsabile della sua vita, delle sue scelte, e anche di non aver
scelto.
Vicino
alla croce ci sono inoltre delle donne. È un caso che ci siano solo delle donne
a seguire Gesù? Dove sono gli uomini? Dove sono gli apostoli, i suoi fedeli
amici? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli,
siano delle donne? O non è forse un messaggio forte per noi? È la donna, solo
la parte femminile di ogni persona, che può cogliere la resurrezione. Chi non
conosce la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, i sentimenti,
la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun
Gesù. Solo chi conosce la vita, chi la vive, la sente; solo chi conosce
l’amore, chi sa provare qualcosa nel cuore e percepire l’altro, solo costui
potrà “vedere” il risorto, potrà constatare che la vita non ha fine, e che
l’amore è più forte. L’amore non si arrende, l’amore non può credere alla fine,
alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra
dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce
l’eternità. L’amore vuole il “per sempre”. Queste donne non si arrendono
all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della
vita e di Dio. E proprio per questo sperare al di là di ogni speranza; per
questo credere al di là di ogni dubbio; per questo amare al di là della fine;
ecco, saranno proprio loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto
bene: l’amore è più forte e vince tutto. È eterno. Amen.
«Se uno mi vuole servire, mi
segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il
Padre lo onorerà» (Gv 12,20-33).
Il
vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Dapprima, con l’immagine
del seme che cade in terra, Gesù ci spiega le due grandi leggi dell’esistenza:
crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po’ come morire. Per diventare
“grandi”, adulti, bisogna morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e
maturare. Poi ci ricorda che una vita ha senso solo se è donata, spesa,
impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Infine Gesù
ci scopre la sua anima: anch’egli, uomo come noi, vive la fatica di essere
fedele alla sua vocazione, di andare fino in fondo alla sua missione; anch’egli
vive la paura della morte; egli stesso è quel seme che cade in terra.
Giunto
dunque a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento cruciale della sua
vita: deve decidere se fermarsi o andare fino in fondo. Finché ha predicato in
Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme,
dal centro. Non gli aveva mai creato grossi problemi. Gesù sapeva che la sua
vita non era in pericolo finché predicava e agiva in periferia; i suoi nemici non
avevano motivo di perseguitarlo finché il suo messaggio non pizzicava
direttamente gli interessi religiosi e politici. Ora però deve decidere se continuare
la sua missione anche nel tempio di Gerusalemme, nella città “santa”, centro
della religione, centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno: non
sarà più come prima, mai più.
La
vita ci pone ogni giorno davanti a delle scelte: a volte semplici, a volte più
complesse. Ma prima o poi,inevitabilmente, arriverà anche per noi il momento delle
scelte difficili, delle scelte senza ritorno: scelte che non ci offrono alternative, che vanno fatte ora o mai più. Sono momenti decisivi
in cui noi diamo un senso alla nostra vita, le diamo una forma: la nostra personale
forma.
C’è un
termine che appare ripetutamente nel testo, il cui significato è duplice: è “glorificare”,
“gloria” (doxa). Quando noi lo leggiamo,
pensiamo immediatamente alla fama, all’essere famosi, allo stare sulla cresta
dell’onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo alla fama e agli
onori tributati ai vip, ai divi della
tv o ai campioni dello sport e della musica.
Ma Giovanni,
nel suo vangelo, quando parla di “gloria” allude al fatto che Dio, nella nostra
vita, si rende manifesto, visibile, trasparente. In questo senso la “gloria di
Dio” è in Gesù: Dio, infatti, in nessun’altra persona si è reso visibile come
in Gesù. Con il suo vivere, il suo agire, il suo morire, Gesù ci ha fatto costantemente
vedere chi è Dio: Egli fa apparire Dio – la
gloria – sia quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita
Lazzaro, quando vive la trasfigurazione o quando dice le beatitudini; ma lo fa
soprattutto nella croce, perché è nella croce che il Figlio di Dio, non sottraendosi
alla morte e a quel tipo di morte, raggiunge il culmine della “gloria”, amandoci fino in fondo, assicurandoci
la sua continua presenza, vivendo fino in fondo la sua missione.
Guardando
la croce, allora, qualunque croce si stagli sul nostro cammino, non dobbiamo
più temere: dobbiamo solo pensare alla “gloria”
di Dio, a quanto Dio ci ha amati, a quanto suo Figlio ha dovuto soffrire per
noi. È morto per amarci, non saremo mai più soli.
Ma “gloria”
è anche quando percepiamo improvvisamente qualcosa di soprannaturale,
quando qualcosa di divino si mostra nella nostra vita; “gloria” è ogni qualvolta un uomo segue la Voce di Dio che gli
risuona dentro, e la segue dovunque lo chiami.
E qui Gesù
ci fa un esempio che, oltre a descrivere un fenomeno della natura, rivela il
vero motivo della sua missione terrena: morire per amore, donare la propria
vita perché noi potessimo vivere: «Se il
“bar” (chicco di grano), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece
muore, porta molto frutto…»; “bar”
in ebraico, oltre che “chicco di grano”,
significa anche “figlio”: e quindi Gesù sapeva perfettamente che era Lui, il
“Figlio”, a dover morire per portare
molto frutto. E Lui, giorno dopo giorno, accetta questa sua missione,
dolorosissima ma inevitabile. In qualche momento è assalito dall’angoscia, tentenna;
Egli odia la morte, ma non arriva mai
a pensare di potersi sottrarre: perché Egli sa di dover dimostrare al mondo la “gloria”
del Padre.
Voler
morire è da stupidi: può succedere a volte, quando qualcuno si accorge di non
vivere, o di vivere una vita insulsa, senza senso, buttata via. Morire, per mettere
semplicemente “fine” alla propria vita non potrà mai essere un valore positivo,
un traguardo, una meta. Il “morire” ha un senso solo quando implica un fine più
grande, più alto, più nobile; quello cioè di “portare frutto”. Gesù infatti non
voleva morire: Gesù voleva essere vita e salvezza per tutti; voleva riscattarci
per il Padre; trasformarsi in pane e vino, frutto di vita immortale. Questo, e
solo questo, l’ha portato a morire.
Ma
quelle parole ci suggeriscono anche un’altra considerazione: il seme in
questione è la “gloria di Dio” in noi; è un seme che è stato posto a dimora col
Battesimo: una grande responsabilità ci attende lungo tutta la vita: non possiamo
infatti vivere ignorando la presenza di quel seme, o peggio, comportandoci in
modo che esso rimanga inefficace, soffocandolo, uccidendolo: pensiamoci bene,
fratelli, perché in questo caso siamo noi a soffocare Dio, ad ucciderlo.
Quando
invece il seme di Dio deve essere la molla, la spinta vitale che determina la
nostra evoluzione sia spirituale che umana: dobbiamo metabolizzarlo quel seme,
dobbiamo farlo crescere, svilupparsi. Con un gioco di parole, derivanti tutte
dalle stessa radice ebraica “bar”,
possiamo affermare che questa è la “buona
notizia” (basorah) di oggi: che cioè
possiamo far crescere in noi il figlio
(bar) di Dio, sviluppando cioè il seme
(bar) divino che c’è in noi. In altre parole, attraverso la nostra persona,
la nostra “carne” (bar), dobbiamo “dare vita” (barà), alla “Parola” (dabar)
di Dio.
È
chiaro che per poter fare ciò, deve morire il nostro io, il nostro narcisismo, il nostro egoismo; perché solo
così, giorno dopo giorno, potrà nascere il nostro vero io, il Dio che ci abita,
e che vuole trasformarci in vita, fecondità e frutto. Sì, fratelli: perché Dio
si manifesti in noi, perché si renda evidente, dobbiamo avere il coraggio di
morire; dobbiamo cioè affrontare i problemi della vita senza scappare; dobbiamo
lasciarci trasformare dalla vita, dobbiamo cambiare. Per vivere davvero, in
profondità, dobbiamo saper morire (soffrire).
Questa
è la grande legge della vita. E l’ironia è che chi non vuole morire (trasformarsi, cambiare, crescere
attraverso la sofferenza) morirà veramente. Non possiamo infatti pensare di
vivere senza mai soffrire, di evitare il dolore, i problemi, le tensioni, le
difficoltà, i conflitti. “Morire” significa “cadere
a terra”, scontrarsi con la realtà, con la dura realtà della vita,
ritornare con i piedi per terra, smettendo di volare sulle nuvole; e “cadere a terra” vuol dire scontrarsi
con le persone che non sempre sono come noi vorremmo; rinunciare ad essere
onnipotenti, di sapere tutto, di non aver bisogno di nessuno; vuol dire essere
vulnerabili, sofferenti, piangere; vuol dire sbagliare, commettere errori e
avere l’umiltà di riconoscerli.
Tutto
questo ci fa male. È come morire. Distrugge l’immagine di “persone brave e
buone” di cui noi andiamo molto fieri. Ma niente di nuovo, di buono, di
fruttuoso può nascere da noi, se non cadiamo
a terra!
Molti
vivono soltanto per loro stessi, sono semi
che inaridiscono senza portare frutto. La loro vita non è di aiuto a
nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c’è in
loro nessuna saggezza, nessuna profondità, non hanno mai osato, mai “ruminato” le cose. Passano, ma non
lasciano traccia; vite inutili, senza significato; non danno niente: lasciano
solo rabbia, negatività, insofferenza, acidità. Hanno ricevuto la vita, ma non
hanno saputo donarla. Non hanno saputo fare della loro vita, ricevuta in dono,
un ulteriore dono. Impiegano tutto il loro tempo per inezie, per stupidaggini
senza alcuna vera importanza; per abbellire la loro immagine, per accrescere il
loro prestigio. Sono esclusivamente concentrati su di loro stessi: si credono
bravi, impegnati, coraggiosi, ma in realtà sono narcisisti, codardi, pieni di
paura. Moriranno tristi perché potevano essere alberi, carichi di frutti e di
vita, ma il gelo del loro egoismo li hanno intorpiditi; hanno avuto paura di
esporsi al sole dell’amore; non sono maturati e hanno rinunciato alla loro
potenzialità. Sono dei falliti.
Il
vero servizio, la vera carità, è poter mettere in circolo quello che noi siamo
dentro, quel seme che deve fiorire e diventare frutto per gli altri. Ma,
fratelli miei, se non abbiamo niente dentro, se la nostra anima è un deserto, cosa
possiamo donare?
Noi
siamo vita, la nostra fecondità è dare vita, far nascere la Vita. Solo così ci sentiremo
compiuti, solo così sentiremo la forza della nostra vita defluire da noi, e la vedremo
ri-nascere, crescere e fiorire negli altri; solo così ci sentiremo generatori
di altra Vita; solo così ci sentiremo parte di quel donare infinito che chiamiamo
Dio.
È come
nell’Eucarestia: riceviamo la Vita e ci sentiamo parte della Vita. Gesù si è
donato a noi con il suo Corpo; e noi ci sentiamo profondamente grati per questo
inestimabile dono. E come Lui lo è stato per noi, così noi dobbiamo essere a
nostra volta alimento, cibo per qualcun altro. Dobbiamo continuare all’infinito
questa catena, questo movimento, trasformandoci in “seme di Dio” per qualcun
altro; dalla Vita ci viene questo dono, alla Vita dobbiamo offrirlo. È un dono
ricevuto, è un dono che va donato. È naturale, vitale, ovvio!
«E io, quando sarò innalzato da
terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva
morire». Gesù
ci anticipa quello che gli dovrà accadere; è uno spaccato della sua angoscia. Giovanni
non racconta il Getsemani, non descrive, durante il racconto della passione, l’angoscia
di Gesù come fanno gli altri evangelisti. Lo fa qui. Qui c’è tutto il
turbamento di Gesù; e sempre qui, c’è anche un angelo che lo consola. In questi
pochi versetti, il vangelo ci propone quella che è stata in sintesi la missione
del Figlio di Dio, e che è anche la nostra storia personale: Gesù è pronto ad annunciare
agli uomini il messaggio di un Dio, Padre misericordioso; ma ora si trova ad un
bivio: o tradire la sua missione e salvare la vita, oppure fare dono della
propria vita, affrontando una morte orrenda, e proseguire fino in fondo sulla
strada della fiducia in Dio. Eh sì, quanto costa essere fedeli alla propria
vocazione e a Dio! Ci costa più di ogni altra cosa. Perché tutto sembra finire,
tutto sembra cadere, tutto sembra essere illusorio; ma sentiamo che con noi c’è
Dio. E allora, fratelli, lasciamoci andare, abbandoniamoci nelle sue mani; Dio certo
non ci toglierà la sofferenza, le prove, la morte; ma ci darà la forza di
superarle; quando tutto ci crollerà intorno e tutto sembrerà finito, proprio allora
sperimenteremo che tutto ricomincerà, che per nostro mezzo nuove Vite
nasceranno. Ebbene, questa fiducia è il Regno di Dio. Se vivremo con fiducia,
con forza, con passione, con intensità, lottando e spendendoci, sentendoci ogni
giorno sostenuti e supportati dalla forza misteriosa del Dio in noi, ebbene, nulla
e nessuno potrà mai annientare la Vita che è in noi. Noi non moriremo. Perché il
nostro piccolo seme d’amore, donandosi,
sboccerà nell’altro. E vivremo eternamente nell’Altro. Amen.