«Otto giorni dopo i discepoli
erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte
chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui
il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e
non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20, 19-31).
Cristo
è risorto. Alleluja. Ma ne siamo veramente convinti? Quanti di noi vanno in
chiesa, anche in questo periodo di Pasqua, e pregano il Dio risorto, il Dio Vivo.
Un fatto concreto, ma poco credibile: perché? Perché Dio non è vivo per loro; è
e rimane morto. È un Dio che non entra nella loro vita, non li “tocca”, non li
cambia, non li coinvolge, non penetra nella loro esistenza, non si lasciano
entusiasmare da Lui. È un Dio morto! Non è il Dio di Gesù Cristo, perché Lui è
sì morto ma è anche risorto, è vivo, presente, operante. Molti vanno dunque in
chiesa ma non sono toccati da niente: escono freddi, piatti, vuoti. Come erano
entrati.Non vedono Dio. Sono assenti, come era successo a Tommaso; non percepiscono cosa voglia dire che Lui è Vivo, che Lui ci incontra, che Lui è Vita.
Quando leggiamo il vangelo e sentiamo le parole di Gesù, le facciamo nostre, le interiorizziamo, esse sicuramente risuonano in noi, vibrano, sono creatrici di vita. A volte ci possono creare anche dei problemi, perché non ammettono compromessi, ma sempre e comunque ci fanno bene; sono sempre salutari perché ci scuotono, perché ci aprono nuovi orizzonti, perché anche se le porte sono chiuse, rinserrate, per lo meno qualche fessura inizia a crearsi. In quei momenti Dio è veramente vivo in noi: agisce, lavora, sentiamo che ci plasma, ci modella, ci crea. Allora ogni volta che andiamo in chiesa noi lo sentiamo, percepiamo che Lui è Vivo: e questo non può lasciarci indifferenti.
Ci dice: “Pace a te: che tu abbia la pace profonda, la pace dell’anima”. E noi la percepiamo questa pace; sentiamo che possiamo vivere ancorati ad una pace sovraumana, ad una pace che va oltre tutti i conflitti e le lotte. Avvertiamo che, nonostante tutte le battaglie di ogni giorno, a volte senza risparmio di colpi, c’è un luogo dove tutti gli spari della maldicenza, i colpi, le cattiverie, le fucilate vendicative del mondo non arrivano: è il luogo della Pace. Comprendiamo allora cosa vuol dire “La pace sia con voi!”, avere pace nel bel mezzo dei nostri conflitti interiori, pur continuando ad avere problemi, contrasti o incomprensioni.
Ci dice: “Il Padre manda me e io mando te”. E sentiamo la nostra grandezza. Noi abbiamo una missione, noi siamo gli “inviati di Dio”. È difficile crederci, a volte dubitiamo perché dubitiamo di noi, non ci fidiamo, non possiamo credere alla nostra grandezza. Ma sentire queste parole e fidarci di Lui ci aiuta a credere alla nostra missione, alla nostra vocazione, al Suo disegno, al fatto che noi siamo in questo mondo per un motivo ben preciso, che dobbiamo vivere per compiere veramente qualcosa di “grande”.
Ci dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e credi”. Sono parole forti. La mano per gli antichi era l’oggetto di conoscenza. Pilato che si lava le mani con quel gesto dice: “Non voglio sapere. Preferisco il buio, l’ignoranza, il non sapere”. Noi invece sentiamo il bisogno di conoscere, non una conoscenza mentale ma affettiva, del cuore. Sentiamo il bisogno di “toccare” e di essere toccati da ciò che tocchiamo e vediamo. Sentiamo il bisogno di percepire nell’altro tutta la sua passione, la sua sofferenza e la sua voglia di vivere perché dobbiamo farle nostre; perché la sua vita deve essere la nostra vita. “Chi accoglie loro, accoglie me”, ci ricorda Gesù.
Allora, fratelli, ogni volta che andiamo a messa, ci andremo non tanto per fare una bella esperienza, per ricordare qualcosa, per piangere su Gesù. Ma andremo lì e lo sentiremo vivere in noi; sentiremo che Lui è Risorto veramente; sentiremo che Lui è vivo; sentiremo che Lui si rivolge a noi; sentiremo che ci chiama e che ci parla.
Quando Lo ascoltiamo nel vangelo e permettiamo alle Sue parole di superare le nostre porte chiuse, blindate, per paura non dei “nemici”, ma dei cambiamenti, del non sapere a cosa ci porteranno, della fatica e del dolore di metterci in discussione per la paura di perdere le nostre false immagini, le nostre maschere e impalcature; per la paura di vederci solo per quello che siamo. In tutte queste situazioni, quando lo lasciamo entrare, sentiamo che qualcosa ci fa sussultare, ci fa fremere, ci fa sentire che Lui c’è, che Lui è vivo. Anche noi come Tommaso possiamo allora dire: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il problema di Tommaso non è stato tanto il dubbio, le domande bisognose di risposte. Il problema di Tommaso è stata l’esperienza. Lui non laveva visto e non ne aveva fatto esperienza. Non era stato toccato in profondità dal Signore Risorto. Era l’amore che gli mancava.
La fede cristiana è un incontro, un’esperienza, è una relazione personale. È un innamoramento. Tutte le testimonianze dei fratelli ci aiutano, ci servono, ci stimolano, ci invitano. Tutte le preghiere sono buone, utili, importanti. Tutti i gruppi, le liturgie, gli incontri ci aiutano ma se noi non vediamo e non tocchiamo, cioè non facciamo esperienza personale, la fede degli altri aiuta e serve agli altri ma non a noi. Inutile farsi un sacco di domande su Dio, sulla vita, fare infinite congetture e possibili implicazioni. Diamo l’idea di essere dei grandi pensatori, dei profondi contemplativi, di essere persone che soffrono molto il problema di Dio. Ma in definitiva abbiamo semplicemente paura di Lui. Non vogliamo lasciarci coinvolgere, abbiamo paura: temiamo di dover mettere le nostre mani sulle ferite e sul cuore trafitto. Temiamo l’incontro. Temiamo l’esperienza bruciante di Dio.
Eppure, anche noi come Tommaso, lo possiamo toccare realmente nell’Eucaristia. Perché celebrare nell’eucarestia la morte e la resurrezione del Signore, vuol dire esattamente percepire la sua presenza, incontrarlo, sentire che Lui è il Vivente, che Lui ci parla, che Lui ci incontra. Sentire che non solo Lui ha vissuto, ma che Lui vive; che non solo Lui è stato forza e passione, ma che Lui è Forza e Passione; che non solo Lui ha chiamato e guarito, ma che Lui ci chiama e ci guarisce.
Quando il Risorto appare, mostra agli apostoli le mani e il costato feriti. In ogni eucaristia noi mostriamo e tendiamo a Lui le nostre mani ferite. Con le mani lavoriamo e facciamo tante cose. Le nostre mani ferite sono il dolore e la sofferenza che viviamo mentre lavoriamo, mentre facciamo il nostro dovere e veniamo umiliati. Le mani ferite sono quelle mani che si aggrappano a noi, che non ci lasciano liberi, che pretendono sempre e tutto da noi, che ci inchiodano ad ogni minimo sbaglio, che ci trattengono e che ci feriscono. Sono quelle situazioni e quei ruoli in cui tutti si aspettano tutto da noi.
Le nostre mani sono ferite quando qualcuno che amavamo ritira improvvisamente la sua mano, non ci appoggia più, ci toglie il suo sostegno, il suo amore, ci tradisce. Le mani ferite sono quando ci rendiamo conto che anche noi abbiamo vissuto male, che abbiamo anche noi ferito e umiliato; quando in certi giorni ci vergogniamo di ciò che siamo. Allora abbiamo bisogno di un amore che ci risani e che ci ridia dignità.
In ogni eucaristia Gesù ci mostra le sue mani perché anche noi possiamo mostrargli le nostre mani. Perché se gli mostriamo le nostre mani ferite, potremo sperimentare immediatamente la forza risanante del Suo amore. Molti si tengono dentro le ferite. Soffrono e non lo dicono a nessuno; non lasciano trasparire nulla. Allora il dolore marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Se una ferita non viene curata, medicata, infetta tutto l’organismo. Le mani di molte persone, le loro vite, sono piene di dolore, di rabbia, di lacrime e di umiliazioni. Ma temono di aprirle e mostrarle, si vergognano. Ma in questo modo non può avvenire nessuna guarigione, niente può trasformarsi, niente può essere risanato. Chi non si accorge di essere malato, come può guarire? Non si può vivere senza essere feriti. Ma si può vivere, e bene, guarendo.
In ogni eucaristia noi portiamo le nostre mani ferite. E facciamo un gesto piccolo ma infinitamente grande. Con le nostre mani ferite ci accostiamo all’altare e le apriamo, le stendiamo perché il Sacerdote vi deponga Cristo, con il suo Corpo vivente; perché Lui si prenda cura di tutte le nostre ferite, e le risani. Noi gli tendiamo tutte le nostre ferite e lui viene con il suo amore: nel nostro dolore, entra il suo amore. Perché lì, dove c’era rifiuto, ci sia accettazione. Dove c’era paura ci sia fiducia. Dove c’era esclusione ci sia accoglienza.
In ogni eucaristia noi mostriamo il nostro costato e il nostro cuore trafitto. Il nostro cuore è ferito dal desiderio di amare e di non riuscirci, di farlo soltanto in modo aggressivo, possessivo o avvinghiante. Vorremmo amare di più i fratelli; vorremmo amarli meglio; vorremmo amarli più in profondità, ma spesso non ci riusciamo. A volte non lo facciamo, per paura di essere lasciati, di essere traditi; abbiamo paura di amare. Andiamo allora, fratelli; andiamo a messa e mostriamo a Gesù le nostre mani sanguinanti, il nostro cuore trafitto, da cui sgorga amore e dolore. In ogni eucaristia, mostriamogli il nostro cuore, il nostro amore e chiediamogli di trasformare il nostro modo meschino di amare. In ogni eucaristia mostriamogli il nostro bisogno vitale di amore. A volte pensiamo di bastare a noi stessi, di non aver bisogno di nessuno, di arrangiarci da soli. Ma sappiamo che non è così, e quando ammettiamo questo bisogno, siamo disposti a prendere qualunque amore, anche di sottobanco, attraverso la gloria, l’imporci, il comandare.
In ogni eucaristia mettiamo allora nel Suo cuore il nostro bisogno di ricevere amore, la nostra fatica di aprirci per riceverlo, la nostra paura di essere vulnerabili, di essere nuovamente feriti. In ogni eucaristia mostriamogli il nostro cuore trafitto, ferito nell’amore, ma bisognoso d’amore. E chiediamo a Dio di darci la forza di poter continuare ad aprire continuamente il nostro cuore, di non aver mai paura di fidarci dell’amore e di Dio. E Cristo Signore, risorto e vivo, ci benedica sempre. Amen.
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