«Perché siete turbati, e perché
sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono
proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete
che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi»: (Lc 24,35-48).
I due di
Emmaus tornano a Gerusalemme e raccontano agli altri discepoli la loro
incredibile esperienza, di come cioè abbiano visto e riconosciuto Gesù; anche
Pietro racconta il suo incontro con il Signore, e tutti sono a conoscenza dell’incontro
che con Lui ha fatto la Maddalena, la mattina di Pasqua. Ma poi, quando Gesù appare
a tutto il gruppo riunito, essi rimangono senza parole; rimangono di stucco, sorpresi,
sconcertati, come se non sapessero nulla delle precedenti apparizioni, come se
nulla fosse mai accaduto. Beh, non ci sembra un po’ strano questo comportamento?
Cosa ci vuol dire Luca con questo particolare? Una cosa molto semplice: che l’esperienza
del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente e palpitante nella propria
vita, è un’esperienza personale, privata, un’esperienza che ciascuno deve fare
per sé. Quello che provano gli altri non ci colpisce più di tanto. E infatti
Gesù dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”; toccatemi voi, uno
alla volta, rendetevi conto di persona. Si tratta cioè di toccare, di capire,
di percepire, di vedere con la mente e con il cuore, di rendersi conto che
davvero Lui è vivo, che Lui c’è, che è qui al nostro fianco, pronto ad intervenire.
E solo noi, ciascuno di noi, e nessun altro, può e deve fare questa esperienza.
Non possiamo delegare gli altri. Non basta che gli altri “ci raccontino”; non ci
basta sapere che delle persone, incontrando Dio, hanno rivoluzionato la loro
vita. Non ci basta vederlo con gli occhi di chi gli crede, di chi lo sente vivo
in sé; non ci basta sentirlo attraverso la passione di chi lo porta già nel
cuore e nell’anima. Non ci basta neppure assistere ai miracoli, vedere persone
guarite dalle loro malattie, solo per avergli dato piena fiducia. Niente
ci basta, se non abbiamo noi stessi il coraggio di toccare, di lasciarci
coinvolgere in prima persona, di metterci noi direttamente in gioco. Dobbiamo
essere sicuri di Lui, dobbiamo poter contare individualmente su di Lui, dobbiamo
credergli senza ombra di dubbio. Se dubitiamo di Lui, anche per un solo
momento, nessun “surrogato” ci potrà mai bastare. E quando nasce questa nostra
certezza? Solo quando lo avremo
toccato con mano; solo quando ci avrà cambiato la vita, quando avremo scoperto
la gioia dell’amore, della vera felicità; solo quando, dopo aver vissuto come morti
o come portatori di morte, torneremo a sentirci vivi, a risentire la vita pulsare
dentro di noi. Solo allora, fratelli, non avremo più dubbi; solo allora sapremo
per certo che “Lui è vivo”. La fede è un’esperienza, un incontro. Un incontro personale e diretto. Altrimenti la nostra fede è teoria, ipotesi, possibilità; soprattutto rimane dubbio. Un dubbio che non nasce per caso, ma che è radicato in noi, nelle nostre paure ancestrali, nella nostra diffidenza. Credere è un po’ come trovarsi per la prima volta di fronte al mare. Per capire cosa sia quella enorme distesa d’acqua che si apre davanti a noi, dobbiamo buttarci dentro, dobbiamo immergerci totalmente, sentirci “coperti”, avvolti dall’elemento acqua. Soltanto così la “sentiremo”, sentiremo l’effetto che ci fa'; e allora scopriremo che il mare è bello, scopriremo i suoi pericoli ma soprattutto il suo fascino e le sue potenzialità; scopriremo insomma che ci piace: un po’ alla volta, sperimentandolo di persona, passo dopo passo, ci diventerà familiare, amico. Ecco, credere è un pò come questo: se vogliamo sapere cos’è il mare, dobbiamo immergerci, bagnarci; se vogliamo sapere cos’è la vita, dobbiamo viverla attivamente, non trascinarla; se vogliamo sapere chi è Dio, dobbiamo toccarlo, sperimentarlo, viverlo. Altrimenti continueremo ad avere sempre e solo delle meravigliose idee su Dio, sulla vita e sul mare. Ma solo semplici idee. Che non possono bastarci. L’idea del cibo, fratelli, l’immagine di una tavola imbandita con opulenza, non ci potrà mai saziare: se non mangiamo sul serio, moriamo di fame!
Il dubbio non trascina, non coinvolge. Perché il dubbio è pigrizia, è paura. Al contrario vivere, sperimentare, mettersi in gioco richiede fatica, coraggio, un nostro personale volere; e forse per questo preferiamo dubitare. Perché, fratelli, fino a quando dubitiamo, finché ci trastulliamo con le più affascinanti “teorie” di questo mondo, non ci muoviamo, non facciamo nulla, non facciamo fatica, soprattutto non ci compromettiamo. Dubitare vuol dire avere tanti bei progetti, tante belle intuizioni, tanti pensieri nobili, per poi, al dunque, lasciarli così come sono, delle semplici idee. E questo, fratelli, significa in pratica non lasciarci “toccare”, non voler “toccare” Gesù; è il nostro modo di esprimere la nostra indisponibilità ad aprire a Gesù il nostro cuore. Tanta teoria, nessuna pratica. Comodo e indolore.
Anche gli apostoli del resto facevano fatica a credere: non credevano ai loro compagni di missione, ai loro amici di sempre; ma quel che è peggio non credevano che Gesù fosse risorto, pur avendolo lì davanti! Non gli credevano dopo aver visto le sue ferite, dopo che egli aveva mangiato nuovamente con loro; non gli credevano neppure quando Lui pazientemente cercava di spiegare loro il significato di quanto era successo, il senso degli avvenimenti, del perché fosse necessario che accadessero. Niente! La loro testa era chiusa ermeticamente. E, ripeto, loro lo avevano lì, di fronte ai loro occhi! Noi almeno, che non abbiamo avuto una tale fortuna, possiamo anche avere qualche attenuante in più per la nostra mancanza di fede; ma non ne approfittiamo. Non nascondiamoci dietro ad un dito, non continuiamo a giustificare la nostra indolenza e la nostra poca voglia di incontrarlo, di conoscerlo: scuotiamoci invece, diamoci da fare, perché la fede richiede un cammino difficile; è una strada, un itinerario a volte molto impegnativo, che prevede una gradualità, un passo dopo l'altro, una lenta maturazione. Noi invece siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”. Ma per le cose spirituali, dell’anima o del cuore, fratelli, non funziona così. Vorremmo essere come il telecomando della tv o il pulsante che accende il computer: basta schiacciarlo e in un secondo tutto si apre, tutto appare chiaro e luminoso. Ma, dicevo, nella via della perfezione, della fede ardente, non funziona così! Tutto avviene per gradi. Ed è importante che sia così. Che meriti, infatti, che stimoli potremmo mai avere, se tutto si esaurisse in un attimo solo, automaticamente? Siamo degli “atleti”, diceva Paolo: e come tali dobbiamo correre, superare gli ostacoli, faticare, se vogliamo arrivare alla fede e conservarla. Perché è l'impegno, la gradualità, la perseveranza, che ci fanno capire quanto in verità noi desideriamo “toccare” Gesù, quanto cioè siamo motivati a seguirlo. Sono le contrarietà, la fatica, gli imprevisti che ci permettono di gustare giorno per giorno i nostri piccoli passi in questo cammino, che ci fanno constatare con gioia il progressivo avvicinamento a Lui.
Il vangelo dice che “Gesù apparve in mezzo a loro”. Solo due volte, a Maria Maddalena e a Pietro, Gesù, subito dopo la risurrezione, appare alla singola persona. Tutte le sue altre apparizioni avvengono in un contesto comunitario. Alla presenza cioè, di due o più persone. Che vuol dire? Abbiamo detto che l’esperienza di “toccare” Gesù deve essere personale, individuale. È vero, ma è un’esperienza che deve avvenire in un ambito comunitario. È importantissimo: queste parole ci indicano cioè che la nostra esperienza personale ha motivo di esistere, di svilupparsi, soltanto in determinati contesti: che nello specifico sono la Chiesa, le nostre comunità religiose, le nostre parrocchie, le nostre famiglie. Incontrare Gesù a nostro esclusivo uso e consumo non ha senso, considerarlo un privilegio esclusivamente personale, non farne parte con i fratelli, significa escludersi dalla comunità, tagliarsi fuori dalla “Ecclesia”, unico organismo in cui Cristo ha assicurato la sua presenza nello Spirito fino alla fine dei tempi.
È qui che deve succedere, è qui che possiamo sicuramente incontrarLo; e perché ciò avvenga, il vangelo ci suggerisce anche alcune strade preferenziali.
La prima strada, come abbiamo detto domenica scorsa, è l’incontro con le proprie ferite. Gesù mostra ai discepoli le mani, i piedi e il cuore trafitti. Sono il segno della sofferenza. Le mani rappresentano il nostro fare, il nostro agire, il costruire, il realizzare. Molti sono convinti che nella loro vita non ci sia più niente da fare, che ormai tutto sia compromesso. Ma non è vero! C’è sempre una nuova via, una nuova situazione, un nuovo progetto da prendere in considerazione. Le nostre mani devono diventare le “sue” mani, dobbiamo trasformarle nelle “sue”, essere noi ad agire per Lui.
I piedi feriti sono l’incapacità di camminare con le nostre gambe, di andare avanti, di percorrere il nostro cammino, di diventare noi stessi, di progredire nella via dello spirito. Per questo dobbiamo “risorgere” con Cristo: la “risurrezione” ci dice che tutto può cambiare, che possiamo farcela, che possiamo rivivere, che possiamo riplasmare con gioia la nostra vita, che possiamo darle nuovi impulsi, nuovi ideali, nuove direzioni. Ma che convergano sempre e solo “verso” di Lui, nella “sua” direzione; accettando a priori di fare sempre la sua volontà.
Il cuore trafitto è l’amore che viene ferito. Molte persone si sentono aride, impotenti di fronte alla loro situazione affettiva. C’è chi non vuole amare più: è talmente deluso, da essere convinto della propria incapacità di amare, di essere ormai insensibile e indifferente a tutto, di aver perso ogni fiducia nell’amore e nel prossimo. C’è chi si sente travolto, imprigionato, condizionato dai fatti dolorosi della vita. Ma c’è anche chi vuole lasciarsi andare, chi vuole amare ancora, chi vuole tornare ad essere vivo, innamorato, chi vuol rifare scelte importanti. Ma bisogna essere convinti di questo, perché se continuiamo a considerare queste aspirazioni al pari di inutili fantasie, di semplici progetti inattuabili, non approderemo mai a nulla: arriveremo soltanto alla nostra condanna, alla nostra fine. Il Risorto invece vuole che “tocchiamo” il suo cuore trafitto; perché solo così capiremo che il nostro cuore trafitto dalla vita, può sicuramente guarire; che da esso può ancora sgorgare vita vera, intensa, luminosa; e che quindi non possiamo tergiversare, ma agire di conseguenza.
La seconda strada è l’amicizia, la donazione. È creando legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone, che noi possiamo sentire Cristo vivo e chiaro, percepirlo in maniera forte. Solo se noi riusciremo ad aprirci al prossimo, a far colloquiare reciprocamente i rispettivi cuori, ci sentiremo accolti, amati; solo allora sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare dentro di noi; e allora non ci vergogneremo più di quello che siamo, ma troveremo nuova fiducia in noi e in ciò che facciamo, risentendoci nuovamente forti e potenti interiormente. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: letteralmente è “dove due o tre cantano, sono in sintonia, sono in mezzo a loro”. Di quale altra occasione disponiamo per sentirci “comunità”, per sentirci in perfetta sintonia con gli altri, al di fuori dell’Eucarestia domenicale? È lì, soprattutto, che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo”. Nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che avremo la percezione chiara che Dio è presente; proprio lì, in mezzo a noi, con noi e fra di noi. È questa, fratelli, la “comunità” del Risorto, quella in cui Lui vuole incontrarci tutti di persona. E da qui poi usciremo fortificati a testimoniarlo ai fratelli. Approfittiamone, dunque!
La terza strada per incontrare il Risorto è l’ascolto e la comprensione delle Scritture. Gesù spiega agli apostoli le sue vicende, cos’è successo nei giorni immediatamente precedenti e perché è successo. Essi devono capire che tutto “doveva” succedere. Ebbene, fratelli, anche noi abbiamo bisogno di capire la “nostra” storia, di capire il perché della nostra vita, di conoscere quel filo rosso che lega le nostre giornate a Lui; perché c’è, e dobbiamo assolutamente trovarlo il significato, il senso, il collegamento. C’è ed è evidente: il vivere nostro e dei fratelli consiste nel fare esperienza del Signore Risorto: scoprire che nulla avviene per caso, che tutto converge a Lui, che tutto ha un senso ben preciso in Lui, che tutto avviene per un motivo che ci parla di Lui. E quando avremo questo motivo per vivere, allora qualunque situazione, anche la più difficile, diventerà superabile.
Abbiamo bisogno, come gli Apostoli, di capire il profondo senso del vangelo e della Bibbia. Siamo ancora molto ignoranti al riguardo, fratelli miei. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ignorare le Scritture, significa non aver capito nulla di Cristo, del suo messaggio, della sua vita.
C’è ancora chi crede all’esistenza storica di Adamo ed Eva, di Caino e di Abele o dei patriarchi, esattamente come ci vengono proposti dalla Bibbia. C’e ancora chi guarda alla Parola come ad una cronistoria, una raccolta di fatti realmente accaduti e di personaggi storici realmente vissuti. C’è ancora chi crede che il Vangelo sia un semplice documentario di quanto Gesù ha detto e fatto, una specie di film girato da una troupe di qualche trasmissione televisiva o il resoconto di qualche giornalista, inviato speciale in Palestina. Siamo ancora troppo lontani da quello che realmente rappresenta la Parola per noi, fratelli miei. Abbiamo ancora bisogno di conoscere, di capire, di cercare la verità. A tutti i livelli.
Ecco perché dobbiamo contribuire anche noi a “rassicurare”, a formare comunità fondate saldamente sul Vangelo e non sulla creduloneria, sulla superficialità; a costruire comunità in cui la gente creda grazie alla loro ricerca personale, aderendovi con la propria anima e il proprio cuore; ecco perché dobbiamo annunciare e vivere per primi la persona di Gesù, e il suo autentico messaggio di amore.
Solo così “la verità ci farà liberi”. Anche se a volte potrà farci male, anche se a volte ci svelerà un mondo completamente diverso da come noi lo pensiamo e da come lo viviamo.
Tornare al Vangelo e a Gesù: questo è fare esperienza del Risorto. Perché è il Gesù del Vangelo, il Gesù risorto, che ci infiamma l’anima; sono le sue Parole che ci appassionano nel profondo, che ci riscaldano il cuore. Il Vangelo di Gesù, fratelli, non è un libro da leggere; ma è una Persona vera e autentica da incontrare, da amare, da far entrare nel nostro cuore. Amen.
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