«Io sono il buon pastore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce
me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che
non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la
mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». (Gv 10,11-18)
Gesù
non poteva trovare una immagine più bella per indicarci la sollecitudine con
cui continua a seguirci anche dopo la sua risurrezione. Lui è il “buon Pastore”,
é poimÑn kalçv, il “pastore bello”, come dice
il testo greco. Il buon pastore è colui che segue le pecore, che si prende cura
di loro; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi, le cerca se si perdono,
le conosce una per una, per nome. Il buon pastore è colui che ha “cura” delle
pecore: e “avere cura” significa dedicare tanto tempo e lavoro in abbondanza. Lo
sa bene chi cerca di far germogliare, di far crescere e fiorire una pianticella:
ogni giorno deve darle acqua, deve esporla al sole, proteggerla da eventuali parassiti
e pericoli. Il buon pastore è soprattutto colui che trasmette sicurezza; è
colui che parla con le sue pecore; che a ciascuna sussurra dolcemente: “Sono io
che penso a te, io che mi prendo cura di te, che veglio su di te; perché tu mi
sei cara, mi sei preziosa, sei davvero unica per me. E anche se non sei sola,
perché di pecore ne ho altre 99, se ti dovessi perdere, io verrò a cercarti.
Qualunque cosa succeda, tu sarai sempre nel mio cuore”. Ecco, fratelli: questo è l’amore con cui Gesù ci tratta: questo è l’unico amore di cui possiamo veramente fidarci. È questo l’unico amore di cui abbiamo bisogno. Ma è anche l’amore che noi stessi siamo chiamati a offrire ai nostri fratelli.
Dobbiamo essere anche noi pastori “buoni” per le persone che ci stanno vicine, per i nostri figli, per gli amici, per i colleghi di lavoro. Dobbiamo imitare i primi cristiani: il Signore era il loro unico pastore, il loro punto di riferimento. Lo “sentivano” sempre vicino, lo “vivevano”. Era il loro compagno di viaggio, la loro guida, colui che si prendeva “cura” di loro. E non temevano nulla e nessuno.
Del buon pastore il Vangelo dice tre cose molto importanti: prima di tutto che “offre la sua vita per le pecore”. Al contrario del mercenario, che pensa soltanto a svolgere un lavoro, che lo fa per soldi, per interesse, per avere un profitto personale. Al mercenario non interessa nulla delle pecore, ma solo ciò che dalle pecore può ricavare. Le utilizza per se stesso. Quanti mercenari abbiamo incontrato anche noi nella nostra vita! Quanti sedicenti pastori ci hanno usato e abusato a loro piacere! Quanti mercenari ci hanno illuso per farci fare quello che volevano; quante promesse abbiamo ricevuto finché pensavamo come loro, fino a quando non siamo diventati per loro un problema! E poi? Poi più nulla. E delusi ci siamo chiesto: “Che amore era questo? Era amore o squallido interesse?” E abbiamo pianto sulle nostre ferite. Ebbene, fratelli, queste esperienze dovrebbero insegnarci molte cose. Dovrebbero farci guardare a Lui, al nostro vero Pastore, con sempre maggior riconoscenza; a Lui che non ha mai ingannato nessuno, che non è mai venuto meno alle sue promesse, che è sempre stato fedele con noi.
La seconda cosa che il vangelo ci dice del buon pastore è che “conosce le sue pecore e che le chiama ciascuna per nome”. Una prospettiva meravigliosa, non vi pare? Chi ama, infatti, vuole conoscere per davvero. Non si ferma ad una conoscenza superficiale, di comodo. Vuol sapere tutto, vuol essere coinvolto, pende dalle labbra dell’amato, previene ogni suo desiderio. Allora chiediamoci: come sono i nostri rapporti con gli altri?. Li ascoltiamo veramente quando ci parlano? Abbiamo voglia di ascoltarli sul serio? Oppure il nostro è solo un bluff: non solo non li ascoltiamo, ma non li lasciamo parlare, li interrompiamo continuamente, interpretiamo le loro parole solo come piace a noi? Ascoltiamo il loro cuore, facciamo attenzione a quello che provano dentro, oppure semplicemente fingiamo? Eppure fratelli, se amassimo veramente le nostre “pecore”, per prima cosa le ascolteremmo, non vi pare? Non le deluderemmo, dedicheremmo loro maggiore “cura” e attenzione. Impariamo da Lui: Gesù ci ha mai deluso? Egli ci ama e ci ascolta, sempre. È sempre lì, paziente e silenzioso, presente nel Tabernacolo con il suo corpo e sangue, e ci aspetta. Aspetta fiducioso che qualche volta, durante il giorno, ci ricordiamo di Lui. Ci ricordiamo che è Lui il nostro Pastore, che è Lui l’unico che può aiutarci, consigliarci, lenire i nostri dolori; che solo Lui non ci deluderà mai!
Terza cosa che il vangelo oggi ci fa notare sul Pastore, è che il Risorto - è Lui il nostro Pastore - non ha solo noi da accudire, ma ha tante “altre pecore”, di altri ovili, forse non tutte fortunate come noi; quindi, Gesù non è soltanto a nostro servizio: non è una nostra proprietà, il suo amore non è un nostro esclusivo diritto: Egli è Pastore di tutti gli uomini di tutto il mondo; tutti sono suoi figli e tutti sono dunque nostri fratelli.
Ebbene, di fronte a queste realtà, cari fratelli, dobbiamo decidere seriamente come vivere; dobbiamo finalmente prendere una decisione seria, dobbiamo scegliere se stare con Lui, se stargli vicino, se ascoltare i suoi richiami, oppure lasciarci trasportare dagli eventi, lasciarci condizionare da ciò che ci circonda, bearci egoisticamente del presente. Dobbiamo quindi deciderci di nuotare controcorrente, di imitarlo come pastore, combattendo l’indifferenza e l’apatia di chi non crede, di seguirlo per quanto ci è possibile, anche nella gestione del suo gregge, offrendogli il nostro piccolo contributo, la nostra “sofferta” collaborazione. Sì, fratelli, perché in tal caso dobbiamo considerare anche la fatica, le sofferenze, perché immedesimarci in Lui ha un suo costo, talvolta anche alto, che implica sudore e sangue: essere come tutti, seguire l’andazzo del mondo, è estremamente facile; invece essere “unici”, esattamente come Dio ci ha pensati e voluti, ve lo assicuro, non è assolutamente una passeggiata; è un cammino tutto in salita, una scelta piena di rinunce, di sacrifici. Lo dobbiamo mettere in conto; ma in ogni caso dobbiamo scegliere, fratelli. Dobbiamo prendere una decisione. Avete mai pensato che, forse, l’insoddisfazione e l’amarezza che proviamo nel profondo il nostro cuore, può derivare proprio da questo nostro continuo rimandare, dalla nostra perenne indecisione, dal lasciarci vivere così come viene, dal non avere un ideale forte per cui combattere? Allora diventiamo padroni della nostra vita, fratelli: non facciamoci trascinare dagli eventi, ma viviamo come vogliamo noi, anzi meglio, come vuole Lui; mettiamoci nelle sue mani, e vedrete che ogni inquietudine, ogni amarezza, ogni dubbio scomparirà!
Imitiamo il nostro buon Pastore, la nostra guida: Egli ha sempre vissuto da uomo libero: Lui ha offerto in dono per noi la sua vita, e lo ha fatto spontaneamente; ha accettato una morte straziante e ignominiosa: nessuno l’ha costretto, né giudei né romani. Lui è il padrone assoluto della sua vita: tant’è che appena morto, se l’è immediatamente ripresa. Non sono stati gli scribi e i farisei a ucciderlo; è Lui che ha accettato e deciso di vivere la sua missione fino alle estreme conseguenze. Gesù “ha offerto la sua vita”, sapendo bene a cosa andava incontro. Ma lo ha comunque fatto. E Dio con la risurrezione se lo è “ripreso”, ha confermato cioè la sua libertà e la bontà delle sue scelte. Ecco, fratelli, è così che Egli ci ha indicato la via della vera libertà: e noi saremo liberi solo quando decideremo di vivere come Lui, prendendoci in pieno le nostre responsabilità e le conseguenze delle nostre decisioni.
Da qui nasce anche per noi, fratelli miei, il dovere di essere dei “buoni” pastori. Pastori in qualche modo lo siamo già tutti: chi non ha infatti qualche ruolo di guida, di responsabilità: il prete con i suoi fedeli; i genitori con i figli; i dirigenti, i capireparto con i loro dipendenti; l’amico con gli altri amici; il maestro con gli alunni, e via dicendo. Tutti in qualche modo siamo già coinvolti, siamo dei pastori: ma il vangelo di oggi ci insegna soprattutto come essere dei “buoni pastori”; ci sollecita cioè a prestare la massima attenzione alle nostre “pecorelle”, a coloro cioè che per qualunque motivo sono affidati a noi. Dobbiamo stare molto attenti a chi abbiamo di fronte. Non tutti siamo uguali, ognuno ha la sua sensibilità; non dobbiamo quindi “gestirli”, come se fossero della merce; non dobbiamo usarli; non dobbiamo umiliarli, non dobbiamo accentrarli esclusivamente su di noi, creando una dipendenza negativa. Non possiamo pretendere di occuparci noi di tutto, di sapere tutto, di intrometterci su tutto. Massima sollecitudine e conoscenza, questo sì, ma dobbiamo lasciare alle “pecore” il loro respiro, i loro margini. Altrimenti la nostra guida da dolce e attenta, potrebbe diventare autoritaria e sprezzante. Non riconoscere la loro libertà e dignità alle persone che ci seguono, significa soffocarle, umiliarle. Ricordiamoci che chi pretende di controllare tutto, col tempo perderà il controllo di tutto. La fiducia non è un diritto, si merita.
Essere buoni pastori vuol dire anche “credere” nelle proprie pecore. Credere che in ognuna di esse, pur se nascosto, c’è un fondamento di bontà. Dobbiamo credere in loro, dare fiducia, coltivare il seme buono che c’è in loro: con grande discrezione e umiltà.
Molti falsi pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) abusano del loro potere. Non sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano i loro fratelli come se fossero degli oggetti, degli strumenti utili solo per il lavoro e basta; li fanno sentire privi di ogni dignità. Credere invece nelle proprie pecore, conoscerle, averne rispetto, vuol dire valorizzarle, perché nessuna è uguale all’altra. Guidare, essere pastori, significa stimolare, incoraggiare, aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé. Il loro compito è quello di precedere, di andare avanti, di affrontare per primi i pericoli, di prevenire, di condurre, di servire. In questo sta l’amore, fratelli. Questo è servire gli altri. Questo ci ha insegnato Gesù.
Pensate all’amore con cui Dio ci tratta: è immenso e ci tocca il cuore: ci commuove pensare che lui è sempre pronto, fedele, sollecito, misericordioso; che veglia continuamente su di noi, i fortunati, e anche su quelli che nella loro vita vagano ancora in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ancora dove trovare il vero conforto, sui tanti disperati sparsi sulla faccia della terra, su quelli, uomini e donne, vicini e lontani, che aspettano angosciati una consolazione che non trovano.
Rileggiamo allora con calma, cari fratelli, questo brano bellissimo del vangelo di oggi; convinciamoci a prenderlo veramente sul serio. Lasciamoci toccare; diamo finalmente il loro nome agli ideali, ai progetti, ai modelli di vita, che ispirano le nostre scelte, il nostro cammino. A chi andiamo dietro noi? Di chi e di che cosa siamo ancora alla ricerca? Verso chi sono diretti i nostri passi? In definitiva, a chi abbiamo affidato la nostra vita? Al buon pastore che ci tratta da pecorelle o ai falsi pastori, i mercenari, che ci trattano da caproni? È una verifica urgente del nostro cammino di fede, che dobbiamo assolutamente affrontare.
Oggi tutta la comunità cristiana è unita al suo Signore, a quel Gesù che ancora si commuove sulle folle di questo mondo, per chiedergli con preoccupazione che non manchino gli operai nella sua vigna. E anche noi, di fronte a Lui e “ai campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4,35) nel profondo del nostro cuore, dobbiamo generosamente ripetere con il profeta (Is 6,8): “Ecco, Signore, manda me!”. Amen.
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